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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Hanno scelto l’ignoranza

Scienziati di diversi paesi europei descrivono in questa lettera che, nonostante una marcata eterogeneità nella situazione della ricerca scientifica nei rispettivi paesi, ci sono forti somiglianze nelle politiche distruttive che vengono seguite. Quest’analisi critica, pubblicata contemporaneamente in diversi quotidiani in Europa, vuole suonare un campanello d’allarme per i responsabili politici perché correggano la rotta, e per i ricercatori e i cittadini perché si attivino per difendere il ruolo essenziale della scienza nella società.

I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’UE hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa.

Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.

Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa.

Hanno scelto di ignorare che l’investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all’innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Invece, essi mantengono l’irrealistica aspettativa che l’aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l’obiettivo della Strategia di Lisbona del 3% del PIL sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l’investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, con senza alcuna capacità d’innovazione.

Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea mirante la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell’Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall’incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca, incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno. Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo: un deficit nella tecnologia, nell’innovazione e nella scoperta scientifica a livello europeo.

Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che l’applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c’è una forte pressione per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente uccidendone le radici.

Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno successo; che l’eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo approccio basato sull’eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato gruppo di vincitori di finanziamenti.

Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione. Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo il compito di essere funzionale all’economia, ma anche di incrementare la conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le risorse per pagarlo.

Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro. Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S nazionali e per contribuire alla costruzione di un’Europa sociale costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli.

Amaya Moro-Martín, Astrophysicist; Space Telescope Science Institute, Baltimore (USA); EuroScience, Strasbourg; spokesperson of Investigación Digna (for Spain).
Gilles Mirambeau, HIV virologist; Sorbonne Universités, UPMC Univ. Paris VI (France); IDIBAPS, Barcelona (Spain); EuroScience Strasbourg.
Rosario Mauritti, Sociologist; ISCTE, CIES-IUL, Lisbon (Portugal).
Sebastian Raupach, Physicist; initiator of “Perspektive statt Befristung” (Germany).
Jennifer Rohn, Cell biologist; Division of Medicine, University College London, London (UK); Chair of Science is Vital.
Francesco Sylos Labini, Physicist; Enrico Fermi Center, Institute for Complex Systems (ISC-CNR), Rome (Italy); editor of Roars.it.
Varvara Trachana, Cell biologist; Faculty of Medicine, School of Health Sciences, University of Thessaly, Larissa (Greece).
Alain Trautmann, Cancer immunologist; CNRS, Institut Cochin, Paris (France); former spokesman of “Sauvons la Recherche”.
Patrick Lemaire, Embryologist; CNRS, Centre de Recherche de Biochimie Macromoléculaire, Universités of Montpellier; initiator and spokesman of “Sciences en Marche” (France).Disclaimer: The views expressed by the signatories are not necessarily those of their employers.

Potete firmare qui.

Expo e il canale di scolo

Il sogno delle vie d’acqua di Milano per attraversare in barca la città come ai tempi di Leonardo è quasi naufragato. A mettere la parola fine gli arresti domicilari di Antonio Acerbo, che nei giorni scorsi si era dimesso da sub-commissario e da responsabile del Padiglione Italia dell’Expo. Un provvedimento firmato dal giudice Fabio Antezza che ipotizza i reati di corruzione e turbativa d’asta nell’appalto per le Vie d’Acqua.

E sul contestato progetto è intervenuto anche Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione. Il commissariamento dell’appalto appare «assai probabile», dice Cantone, che ha acquisito l’ordinanza di custodia cautelare firmata dai pm milanesi. La certezza sull’appalto «si avrà solo dopo attenta lettura dell’ordinanza», spiega l’ex magistrato, che giovedì prossimo sarà nella sede Expo per la consueta riunione con i vertici della società.

L’APPALTO IN CAMBIO DI CONTRATTI

Da quanto emerge dal provvedimento, i pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio ipotizzano che Acerbo abbia favorito l’Ati, associazione temporanea di imprese capeggiata dalla società vicentina Maltauro, nella gara relativa al progetto per collegare il centro di Milano al sito espositivo di Rho. In cambio, secondo la Procura avrebbe ottenuto due contratti per il figlio Livio Acerbo, socio di alcune società di consulenza nel campo informatico.

Sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti un contratto da 36 mila euro, pagato nell’aprile 2012 dall’imprenditore Enrico Maltauro, legato al piano di riqualificazione, voluto dalla giunta Moratti, dell’area ex Scuderie De Montel di proprietà del Comune in zona San Siro. Un secondo contratto, solo «promesso», non è mai andato in porto.

Si tratta dell’ennesimo capitolo nella saga “appalti&corruzione”, emersa a margine dei lavori per l’Esposizione universale, che coinvolge l’imprenditore Enrico Maltauro. La sua impresa si è aggiudicata la costruzione dei padiglioni di servizio e, soprattutto, il canale navigabile per 42 milioni di euro. Tutte opere finite al centro delle ricostruzioni della Procura di Milano.

IL TRAVAGLIATO PROGETTO

Le vie d’acqua, presentata per aggiudicarsi la kermesse internazionale è, fin da subito, una storia travagliata.
Un’idea ambiziosa lanciata in pompa magna come cardine del dossier che ha sbaragliato la concorrenza della sfidante turca, la città di Smirne.

Era novembre 2010 e la metropoli lombarda formato Amsterdam sembrava un sogno ad occhi aperti.
Per l’esposizione è necessario un canale navigabile neo leonardesco che porta acqua dai padiglioni di Rho al vecchio porto della Darsena, nel cuore di Milano.

Abbandonato ben presto il sogno di arrivare in barca fino in centro, ecco che il progetto si trasforma in poco più di un torrente: prendere l’acqua direttamente dal canale Villoresi, nella pianura a Nord della metropoli, passare dai nuovi padiglioni e arrivare fino al Naviglio Grande.

Lo scopo? Alimentare la coreografia dell’esposizione, a partire dal lago costruito su misura, e realizzare ex novo un canale di 20 chilometri per «ricucire il legame storico di Milano con l’acqua», spiegano gli organizzatori, e allo stesso tempo portare acqua pulita per alimentare le coltivazioni della campagna.

La portata è minima – 2 metri cubi al secondo – e la larghezza massima arriva a nove metri tra sponde in erba e cemento con tanto di percorso pedonale.

Passando dai quartieri della zona Nord Ovest il canale stravolge con i tagli di centinaia di alberi le aree verdi del Parco delle Cave, Trenno, Boscoincittà. Per questo gli operai della Maltauro quando arrivano nei parchi, lo scorso dicembre, vengono bloccati e il progetto si ferma per trovare una soluzione a ridotto impatto ambientale.

Dopo un braccio di ferro con il Comune e con i tempi ristretti si è passati al piano B: fino a giugno l’acqua che alimenta il lago e i fossati artificiali intorno ai padiglioni finirà direttamente nel fiume Olona. Poi ci sarà una deviazione interrata. Ora con il progetto su un binario morto le vie d’acqua si sono trasformate in un misero canale di scolo.

Cosca Bellocco e sindaco, vicesindaco incluso

Rilascio di licenze e autorizzazioni per negozi nella disponibilità della cosca Bellocco. Con l’accusa di concorso esterno alla ‘Ndrangheta è finito agli arresti domiciliari il sindaco di San Ferdinando (Reggio Calabria) Domenico Madafferi, che due anni fa aveva aderito al Pd. I carabinieri, su ordine della Dda, hanno fermato anche il vice sindaco Santo Celi, espressione di una lista civica, ed un consigliere comunale di minoranza, Giovanni Pantano della lista civica Futuro migliore e tra i fondatori del meet up del Movimento 5 Stelle di San Ferdinando.

Lo scorso anno i carabinieri avevano arrestato il comandante ed un agente della polizia municipale di San Ferdinando perché avrebbero agevolato la cosca Bellocco nell’intestazione fittizia di un bar. Ventisei i decreti di fermo emessi dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria a carico di appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta dei Bellocco operativa a San Ferdinando, centro sulla costa tirrenica reggina. Le accuse, a vario titolo, sono associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni, danneggiamenti, intimidazioni. Sequestrate anche aziende tra le quali ristoranti, negozi e attività imprenditoriali.

Madafferi è l’amministratore che nei mesi scorsi si era reso molto attivo nella protesta contro l’arrivo delle armi chimiche siriane al porto di Gioia Tauro. Aveva organizzato incontri sul territorio, insieme agli altri amministratori locali e ai cittadini, lamentando lo scarso coinvolgimento delle amministrazioni nelle operazioni di trasbordo avvenute a luglio sulla banchina del porto che ricade nel suo comune. Madafferi è stato molto attivo anche nell’ambito delle politiche favorevoli ai migranti impegnati nella stagione della raccolta di agrumi, proprio questa mattina è previsto lo smantellamento della tendopoli allestita a San Ferdinando in un’attività coordinata dalla Prefettura di Reggio Calabria.

(fonte)

La grigie “white lists” a Catania

Tutto si può dire di Claudio Fava tranne che sia timido a denunciare con nomi e cognomi.

Una gestione ‘distratta e leggera’ quella della white list a Catania. Non usa mezzi termini Claudio Fava, vicepresidente della Commissione Antimafia alla Camera dei Deputati che con il collega Davide Mattiello componente della Commissione hanno illustrato, in conferenza stampa, le ‘criticità’ della gestione della ‘white list’.

Nell’interrogazione presentata alla Camera Fava si chiede come sia stato possibile inserire due società legate a famiglie che da 30 anni a questa parte gestiscono gli affari a Catania.

“Esprimo molti dubbi e una forte preoccupazione per quello che sta accadendo a Catania perché il tema della gestione dei beni confiscati – ha detto Fava – soprattutto in una terra avara di lavoro come la Sicilia e in questa provincia, la gestione della white list è un tema di estrema e dovuta sensibilità. La prima ragione di preoccupazione è che noi pensiamo che ci sia una gestione un po’ distratta, un po’ disinvolta della white list in questa città e lo dico affiancando a questo il mio apprezzamento per quello che sta facendo la Procura della Repubblica che per al prima volta a Catania ha posto un tema che per noi è fondamentale preservare i posti di lavoro nelle aziende confiscate. E’ un tema a cui sta dedicando tempo, lavoro, passione e se si arriverà ad un risultato positivo ad esempio con l’azienda Riela lo dovremo al modo in cui anche la Procura di Catania ha saputo intestarsi questa battaglia di buonsenso più che di civiltà giuridica”.

LA JUDICA ALLA FINE ESCLUSA DALLA WHITE LIST – “I casi Basilotta ed Ercolano sono casi che raccontano una città forse non del tutto perlustrata, non del tutto conosciuta. La vicenda Basilotta che adesso si conclude in modo positivo dal nostro punto di vista con il fatto che la Prefettura sia tornata sulle sue decisioni e abbia deciso di escludere dalla white list la Judica, la ditta intestata a Luigi Basilotta. Ci preoccupa per molte ragioni, Vincenzo Basilotta, condannato in appello per concorso in associazione mafiosa, giudizio poi cancellato dalla cassazione, rappresenta un punto di incontro importante e significativo tra diversi livelli affaristici e criminali. Basilotta che è rappresentante manifesto, nelle intercettazioni che sono state raccolte nel clan La Rocca: che vuol dire le famiglie Ercolano e Santapaola. Vincenzo Basilotta è tutto questo: e nel 2010 Basilotta decide di liberarsi di tutte le proprietà, le quote che possedeva cedendole ai fratelli che sono stati considerati, riteniamo anche giustamente, in questi anni dalla Procura della Repubblica e dal tribunale, dei prestanome. In questo modo si è arrivati alla confisca del 66% della Incoter e del 30% della Judica. A noi sembra abbastanza paradossale che la judica che ha formalmente come ad Luigi Basilotta, fratello di Vincenzo che risulta avere avuto la funzione di prestanome del fratello, possa iscrivere serenamente nella white list la propria azienda, un terzo della quale è confiscata, una quota non sufficiente per nominare un amministratore giudiziario, ragione per cui amministratore di questa azienda ha continuato ad essere dal 31 luglio dell’anno scorso Luigi Basilotta. Ci sembra una cosa grave anche per la giustificazione che noi abbiamo letto nelle dichiarazioni del portavoce della Prefettura che hanno parlato di un ‘rapporto parentale irrilevante’. Ora, se è irrilevante il rapporto parentale tra due fratelli, uno dei quali è di fatto, prestanome dell’altro fratello che è condannato per associazione mafiosa e che rappresenta nell’inchiesta in corso uno snodo fondamentale degli equilibri e delle geografie mafiose in questa provincia, questa giustificazione a noi preoccupa perché rivela un preoccupante eccesso di formalismo”.

“Anche perché – ha chiarito Fava – il decreto che prevede l’istituzione della white list che è cosa diversa dalla certificazione antimafia, prevede che la richiesta venga fatta dall’impresa, ma naturalmente è una scelta della Prefettura accettare nella white list un imprenditore che ne fa richiesta e il decreto parla della necessità di garantire l’assoluta impermeabilità di quell’azienda che ne ha chiesto l’inserimento. Che questo rapporto tra i due fratelli sia totalmente bonificato da qualsiasi rischio è una cosa della quale noi siamo assai poco convinti”.

LA SUD TRASPORTI DI ANGELO ERCOLANO – ”Un altro passaggio fondamentale è quello di revocare dalla white list la sud Trasporti di Angelo Ercolano. La famiglia Ercolano è l’autobiografia di questa città ed è un’autobiografia di cui in parte questa città ha ancora pudore o si vergogna o nasconde a se stessa cosa abbia rappresentato e cosa rappresenti ancora questa famiglia. Aldo Ercolano, all’ergastolo, rimesso nel circuito carcerario normale in modo inspiegabile, adesso affidato di nuovo al 41bis. Enzo Ercolano, al quale anche se era prestanome del padre Pippo, viene sequestrata la Geotrans qualche mese fa, che è tra coloro che hanno lavorato alla Coop collegato alla Pizzarotti come sub appalto per la realizzazione della Siracusa-Catania. La Pizzarotti chiese, presentando l’elenco dei propri sub appaltatari, informazioni alla Prefettura se i fornitori fossero tutti in regola. La Prefettura in quel caso arrivò con otto mesi di ritardo con la Coop che aveva ampiamente cominciato a lavorare. Successivamente Enzo Ercolano ha chiesto alla Prefettura se ci fossero elementi ostativi per continuare a lavorare negli appalti pubblici e la risposta è stato un nulla osta che è stato trasmesso nel maggio del 2008″.

“Angelo Ercolano subisce una confisca perché c’è un procedimento penale in corso per un’evasione fiscale di più di 5 milioni di euro. Siamo di fronte al cugino di Aldo Ercolano, nipote di Pippo Ercolano, dentro ad una famiglia che ha gestito in questi anni come core business della propria attività e in passato con la capacità di riciclaggio delle attività criminali, il settore dei trasporti. Angelo Ercolano, oggi sottoposto ad un procedimento penale per un reato particolarmente insidioso, con l’azienda sottoposta a confisca, si ritrova inserito ed accolto nella white list. Noi lo consideriamo un fatto grave, come consideriamo un fatto grave che non ci sia la possibilità anche da parte del circuito imprenditoriale sano di questa città di assumere l’urgenza di separare destini, livelli di responsabilità e di fare in modo che chi oggi lavora onestamente nel mercato degli appalti pubblici sai in condizioni di poterlo fare senza dovere subire la concorrenza di chi si trascina dietro l’ombra familiare e non solo di rapporti indicibili. A noi tutto questo sembra la testimonianza di una preoccupante leggerezza. Noi siamo qui perché su queste vicende ci sia un’ampia assunzione di responsabilità da parte di tutti i livelli istituzionali. Pensiamo che la ‘Sud Trasporti’ debba essere esclusa dalla white list e ci auguriamo che ci sia in questi mesi una vigilanza estrema su queste vicende che ci sia una linea di demarcazione chiara, netta e responsabile così come si sta costruendo ad esempio a Milano”.

(fonte)

Como, in provincia di ‘ndrangheta

Fino Mornasco, Como, Lombardia. Oggi parla la ‘ndrangheta: “Il passato bisogna ricordarlo compà! (…) Perché per imparare qualcosa devi ricordarti il passato, se no non impari mai”. La tradizione prima di tutto. Dopodiché gli affari: “Tu ancora devi pensare a domani, no a ieri. A ieri non ci devi pensare più (…) Quello che hai fatto ormai, di qua a la sei arrivato. Ti devi preoccupare da qui a li”. Passo dopo passo insomma. Come in Calabria anche qui nell’alta Brianza tra Fino, Appiano Gentile, Cadorago, Bulgorello e Cirimido, i boss seguono lo spartito criminale che impone un basso profilo per tutelare il business e intavolare rapporti con la politica locale, con le imprese, con la massoneria. Saggezza criminale da tramandare a figli e nipoti. Di nuovo in presa diretta. “Io dovevo essere destinato a prendere il suo posto, sicuramente a lavorare insieme a lui (…) e guarda che lui è uscito a luglio dell’anno scorso, è venuto e ha cominciato il discorso, ha preso il giro lungo: no perché sai, qua e là, tu hai il mio nome, tutto quanto, già la credibilità è diversa”.

POLITICA, MAFIA E PREFERENZE
“QUESTO CI PROCURA VOTI CERTI”
Questo il quadro di un territorio per nulla toccato dalle ultime grandi inchieste dell’antimafia milanese e che, negli anni, ha visto tornare in libertà boss di primissimo piano. L’istantanea emerge dalle carte di un’indagine della Dda su cui, però, pende una richiesta di archiviazione. E nonostante questo le intercettazioni e le annotazioni dei carabinieri di Como fotografano un territorio a tal punto infiltrato dalla ‘ndrangheta che un noto consigliere comunale di Fino Mornasco, già assessore nello stesso comune può permettersi di salutare un pregiudicato legato al clan locale con l’appellativo di “cumpà”. E sempre lo stesso, perorando la licenza commerciale di Luciano Nocera, pregiudicato, trafficante in stretti rapporti con i boss, parla così con un notissimo ex consigliere regionale del Pdl: “Guarda abbiamo fatto un affare perché se il problema glielo risolviamo questo qua è uno che mo smette di lavorare e va in giro e ci procura voti certi”.

ONORE E SANGUE, L’OMICIDIO DEL CORRIERE
DELLA COCA E LA RUSPA IN CASA DEL SUPERBOSS
A volte, però, qualcosa s’inceppa. Perché nel mondo mafioso onore, rispetto, denaro sono pilastri attorno ai quali ruota tutto. Muore per questo Ernesto Albanese, 33enne di Polistena (Reggio Calabria), residente a Fino Mornasco. Muore con un colpo di pistola alla testa e finisce in una buca di tre metri dentro a un cantiere abbandonato a Guanzate. Il suo corpo viene ritrovato il 2 ottobre 2014 dalla squadra Mobile di Como. Gli investigatori ci arrivano seguendo le indicazioni di un nuovo collaboratore di giustizia il cui nome, ad ora, viene tenuto riservato. Il corpo di Albanese sarà poi identificato il giorno dopo. La scientifica che lavora sul posto si avvale anche di esperti di scavi archeologici. Si studiano le stratificazioni del terreno. Di più: i tecnici riescono a fare un calco in gesso della benna che ha scavato la buca. Un calco, che secondo fonti qualificate, corrisponde a una ruspa trovata ad Appiano Gentile nella villa di un noto pregiudicato della zona, coinvolto negli anni Novanta nell’operazione La notte dei fiori di San Vito. Si tratta della prima inchiesta che svelò la capillare presenze delle ‘ndrine in territorio lombardo. I pentiti dell’epoca raccontarono dei suoi traffici di droga. L’indagine lo descrisse come capo società di una locale di ‘ndrangheta in un comune del Comasco. Quando lo arrestarono gli investigatori trovarono nel suo appartamento diverse formule di affiliazione.

NARCOTRAFFICANTI E BOSS
COCAINA, PISTOLE, AFFARI 
E che l’omicidio di Ernesto Albanese, già arrestato nel 2008 perché trovato con un due chili di cocaina, sia di matrice mafiosa lo racconta la recente inchiesta del pm di Milano Marcello Musso che nel luglio 2014 ha chiuso l’operazione Pavone 4 su diversi gruppi di narcotrafficanti legati al crimine organizzato. Negli ordini di cattura, eseguiti dal Ros di Milano, c’era anche Ernesto Albanese descritto come un corriere della droga per conto di Luciano Nocera, quello dei “voti certi”, legato da un lato alla ‘ndrangheta di Fino Mornasco e dall’altro fornitore di cocaina per conto di un’altra cosca, già coinvolta nell’operazione Infinito del 2010.

Nel 2008 Albanese viene fermato proprio mentre sta portando un carico ai boss calabresi. Nell’estate 2014, però, la vittima sfugge agli arresti. Il Ros di Milano non lo trova. E del resto, secondo la ricostruzione della Mobile di Como, le tracce del “corriere della coca” si perdono nel giugno 2014, mese in cui presumibilmente viene ucciso. Nello stesso periodo qualcuno spara tre colpi di calibro 9 contro alcune case nel comune di Bulgorello. Finiscono nell’appartamento di due coniugi del tutto estranei alla vicenda. Il 9 ottobre 2014 per quel fatto viene fermato Francesco Virgato detto Frank, 44enne di Mariano Comense. Virgato, ad oggi, non è accusato dell’omicidio. Il suo nome però compare nelle annotazioni dei carabinieri di Como che hanno indagato sui traffici di droga di Nocera. I due, secondo i militari sono legati. Di più: Virgato più volte è stato visto entrare e uscire dalla casa del boss locale.

SCONTATA LA PENA I CAPI TORNANO LIBERI E SI RIPRENDONO
IL TERRITORIO: LA CONNECTION CON L’AMMINISTRAZIONE
Insomma, la vicenda di Ernesto Albanese, che poteva finire archiviata come un caso di lupara bianca, alza il velo su uno spaccato criminale che in questa zona mette insieme boss di ‘ndrangheta certificati da condanne definitive e ora tornati in libertà, insospettabili mai sfiorati dalle indagini e politici un po’ troppo spregiudicati nei loro rapporti. Una fotografia impietosa scattata dall’inchiesta Arcobaleno condotta dalla Dda di Milano e sulla quale pende una richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero Mario Venditti. Nelle carte dell’indagine, però, il ragionamento dei carabinieri di Como è chiaro. “Siamo in presenza – si legge – di un assalto finanziario all’intera area canturina (…). Sono ormai consolidate sul territorio lariano alcune presenze che costituiscono il terminale delle attività economico finanziarie delle ‘ndrine del Reggino”.

L’attenzione della magistratura così si fissa su un preciso gruppo criminale che dimostra di avere “influenza anche per quanto concerne l’infiltrazione nella pubblica amministrazione che riguarda i comuni di Cadorago, Appiano Gentile e Guanzate”. Ancora i carabinieri: “Esempio classico di tale capillare condizionamento è l’attivismo evidenziato per le elezioni regionali del marzo 2010, attraverso la promozione di un candidato tra politici, imprenditori e pregiudicati locali, convocati in appositi e segreti vertici per il controllo del voto elettorale finalizzato appunto alla vittoria del candidato amico”. Lo stesso candidato, rieletto al Pirellone nel 2010, che, a proposito del sostegno elettorale, ragiona in questo modo: “Preferisco sedermi col peggior delinquente di questo mondo ma di parola”.

PAROLE IN LIBERTA’, IL VICESINDACO: “LE PISTOLE
LE TROVIAMO IN OGNI ANGOLO DEL MONDO”
E se l’obiettivo è quello di racimolare voti, ecco la posizione di un sindaco della zona: “Perché – si legge nel brogliaccio – c’è chi fa il lavoro sporco dietro (…) è andare poi casa per casa a raccogliere voti e in questo ti posso garantire che abbiamo un’organizzazione capillare…”. Prosegue l’ex vice sindaco: “Fa invidia ai migliori investigatori di tutto il mondo”. Aggiunge: “Perché tu sai qual è la mia provenienza? Le pistole le troviamo in ogni angolo del mondo”. E ancora: “Tu devi pensare che hai di fronte anche delle famiglie meridionali”.

Se il boss, visto le sue condanne definitive, sta dietro le quinte, i rapporti con impresa e politica vengono tenuti da suoi fiduciari che magari hanno condanne per droga ma non per mafia. Le intercettazioni fissano il punto. E’ il gennaio 2010 e, ricostruiscono i carabinieri, la ‘ndrangheta di Fino Mornasco lavora pancia a terra per sostenere il proprio candidato alle regionali. Ne parlano un ex assessore di Cadorago e un pregiudicato legato ai boss nonché presidente di una squadra di calcio locale. “Si evince – annotano gli investigatori – l’interessamento per la campagna elettorale in vista delle consultazioni elettorali regionali”. Dice l’uomo dei boss: “Non bisogna dormire”. Risponde l’assessore: “Io mi fido solo di te e del mio cane”. Quindi chiude la chiamata: “Va bene comunque dai ci troviamo e parliamo anche un attimino a voce che è meglio”.

Non c’è, poi, solo il comune, ma anche la provincia di Como. Emerge così la figura di un consigliere eletto nel 2009 grazie ai voti della malavita. Ancora le intercettazioni colgono l’oggettività delle conversazione tra il “collaboratore del boss” e il politico. Dice il secondo: “Ti faccio gli auguri di buon Natale, sono il consigliere provinciale, mi hai fatto la campagna elettorale, a Cadorago ho vinto per te”. Risposta: “Mi sono impegnato”.

L’UOMO D’AFFARI, L’ONOREVOLE DELL’UDC
E IL FRATELLO DI UN EX GOVERNATORE DEL SUD 
Boss, politici e uomini d’affari, rispettati, insospettabili, capaci di tessere rapporti ben oltre le amministrazioni locali. E’ il caso di un personaggio nato in Calabria ma residente a Cadorago “che – annotano i carabinieri – costituisce elemento di raccordo tra alti esponenti della ‘ndrangheta lombarda e alcuni esponenti politici di rilievo”. Dai tabulati e dai servizi di osservazione spunta anche un ex onorevole dell’Udc, nonché il fratello di un importante politico calabrese.

Questo il contesto che emerge dalle intercettazioni. Un contesto, va ricordato, che ad oggi resta estromesso dal campo penale. C’è la ‘ndrangheta , ma non c’è reato. Paradossale. Soprattutto se si rilegge la storia recente di questa zona. Storia fatta di attentati e di omicidi. Tanto per capire tra il settembre 2000 e il gennaio 2001 in questa zona si registrano sei attentati intimidatori. Per sei volte ignoti sparano contro le saracinesche di locali che gestiscono macchinette videopoker. Il far west, però, passa sotto traccia. Addirittura nella notte del 4 marzo 2001, vengono colpiti contemporaneamente quattro locali. In quello stesso periodo, fanno notare i carabinieri, il boss di Fino Mornasco, attraverso l’interfaccia della moglie, apre una società che, guarda caso, gestisce videopoker.

Nel 2008, poi, si spara e si uccide. Ecco un breve stralcio dell’annotazione dei carabinieri: “In data 8 Agosto 2008 alle ore 17.25 circa, in Cadorago (CO), frazione Bulgorello, presso il bar Arcobaleno in via Monte Rosa n. 8, veniva ucciso con tipiche modalità di agguato mafioso Franco Mancuso”. L’omicidio ad oggi resta irrisolto. La pista iniziale puntò dritta negli ambienti della ‘ndrangheta locale. Di più: una lettera anonima indicò nel mandante dell’omicidio un noto pregiudicato già condannato per mafia e indicato capo società di una ‘ndrina locale. Lo stesso che in casa teneva la ruspa utilizzata per seppellire Ernesto Albanese. Nulla si fece. Vinse l’omertà. La storia oggi rischia di ripetersi.

(link)

Non solo F35: le spese folli della Difesa

zona-militareTagliategli tutto, ma non le medaglie. E non quelle che premiano atti di coraggio “sopra e al di là del dovere” o l’estremo sacrificio al fronte. No, i militari italiani sembrano più affezionati alle decorazioni di San Maurizio, il “protettore delle nostre armi”, che suggellano cinquant’anni di carriera in uniforme, calcolata in modo più virtuale che virtuoso: onorificenze inventate da Carlo Alberto nel 1839 e sopravvissute indenni attraverso guerre e repubbliche. Sono realmente medaglie d’oro: quest’anno costeranno ai contribuenti oltre un milione e 200 mila euro, che si aggiungono al milione e 800 mila euro spesi nel 2013. Più di tre milioni per un riconoscimento dorato. E pensare che su eBay c’è chi le offre, di dubbio conio, a soli quindici euro.

Medaglie, cene di gala e privilegi di rango sono sempre più un’eccezione nei bilanci della Difesa. Certo, ammiragli e generali restano maestri di mimetismo e tattiche evasive, anche quando si tratta di occultare qualche lusso nelle pieghe della contabilità: gli stati maggiori conservano quasi un milione e 600 mila euro per “impieghi riservati”, che ogni tanto si trasformano in buffet, brindisi e feste di rappresentanza. Ma gli sfarzi, come i tre milioni stanziati nel 2010 per il nuovo circolo ufficiali della capitale o la pioggia di campi da tennis realizzati nelle caserme di Roma e dintorni, appartengono al passato. Il mantra del ministro Roberta Pinotti è «ripensare, rivedere, ridurre». Non a caso gli interventi per “sport, benessere e qualità della vita” dei militari hanno subito l’assalto più duro nella battaglia dei risparmi: dai 60 milioni del 2014 ai quindici previsti per il prossimo anno. Una robusta sforbiciata, ma poca cosa rispetto ai venti miliardi che si tireranno fuori per le forze armate, carabinieri inclusi.

Il problema è che questi soldi vanno quasi tutti a stipendi. Dei 14 miliardi destinati alla funzione Difesa, ossia senza l’impatto dei carabinieri, ben 9700 milioni ossia il 67 per cento servono per le paghe del personale e limare il resto diventa sempre più difficile. In questi giorni negli alti comandi si combatte a sciabolate per difendere ogni aereo, ogni nave e ogni carrarmato dal tritacarne della spending review. Il diktat di Renzi è chiaro: nel 2015 bisogna eliminare il 3 per cento dello stanziamento totale, ossia 600 milioni. Una somma lontanissima dal miliardo e mezzo sbandierato nelle slide del commissario Cottarelli che hanno illuso gli italiani sulla speranza di abbattere in fretta gli esborsi bellici.

I programmi più costosi – dai caccia Eurofighter ai sottomarini U-212 – hanno corazze a prova di taglio: annullare i contratti implica penali a nove cifre. La lista dello shopping per il 2015 comprende 1180 milioni per gli aerei, 487 milioni per gli apparati elettronici di comunicazione e controllo, 184 milioni per le navi, 162 per i missili e 158 per armamenti assortiti. Ma è un campo minato: non c’è modo di disinnescare questi ordini senza finire intrappolati in cause legali destinate a una cara sconfitta. Al massimo si può dilatare l’impegno su più anni, con la prospettiva alla fine di ritrovarsi in mano sistemi ormai obsoleti. Oppure aggrapparsi ad appigli tecnico-politici per negoziare sconti: quello che in questi giorni stanno facendo tedeschi e spagnoli, che contestano problemi strutturali agli Eurofighter per cercare di abbassarne il prezzo stratosferico. A noi italiani i 96 esemplari dell’intercettore europeo costeranno 21,1 miliardi: 219 milioni l’uno, includendo pure gli investimenti per lo sviluppo. Un record assoluto.

Dilemma supoercaccia – Certo, si può intervenire sugli F-35, le icone dello spreco militare, che vengono comprati di volta in volta. Per quest’anno l’investimento è stato congelato mentre per il 2015 sono stati ipotizzati 644 milioni. La Pinotti ha però annunciato che entro dicembre firmeremo altri due ordini. Una decisione che pare ispirata dalla volontà di salvare capra e cavoli: rallentare al massimo gli esborsi per il supercaccia senza chiudere lo stabilimento di Cameri, dove si spera che novanta imprese nazionali possano fare affari con l’assemblaggio e la manutenzione del jet. Parte degli accordi sottoscritti con gli Usa dal governo Berlusconi è ancora top secret e sembra di capire che ci siano clausole drastiche: se l’Italia prosegue nella moratoria la prospettiva di perdere le ricadute industriali diventa concreta. Ed ecco che nel racimolare i nuovi 600 milioni di tagli è inevitabile sfoltire il personale. Far scattare subito la riduzione degli organici che dovrebbero passare da 175 mila a 140 mila militari nel prossimo futuro. I primi a cadere potrebbero essere generali e ammiragli, che il ministro vuole portare da 443 a 310: l’avanguardia di una potatura dei comandi che prevede il sacrificio di 4200 ufficiali e 7000 marescialli. Come avverrà la decimazione non è chiaro: licenziare gli statali non si può, gli incentivi alle uscite hanno scarso appeal e quindi resta la mobilità volontaria con il trasferimento in altre amministrazioni.

L’avanzata dei contratti invisibili – Si cerca poi di trovare un modo per vendere una parte delle decine di caserme inutilizzate: immobili talvolta in pieno centro storico, che non trovano acquirenti. Finora, nell’impossibilità di piazzarle all’asta, si è scelta la cessione gratuita – come è accaduto a Firenze – ad altri enti pubblici. Il che comporta un risparmio, tra elettricità, tasse e manutenzione, ma nessuna nuova entrata. Un faro speciale è stato acceso sui contratti che la Difesa assegna senza fare gare, per trattativa diretta o procedura negoziata: una montagna di quattrini, spesso fuori controllo. “L’Espresso” ha esaminato gli ultimi bilanci, adesso integralmente consultabili sul sito web del ministero, dove le sorprese non mancano. Per la manutenzione degli immobili e la manovalanza “straordinaria” nel 2013 sono stati spesi 4 milioni e 285 mila euro, affidati di anno in anno sempre alle solite imprese. Il caso più clamoroso però sono i noleggi di navi e aerei per il trasporto di uomini e mezzi. La Avandero soltanto negli ultimi mesi ha incassato contratti che possono valere fino a 292 milioni di euro (vedi articolo a pagina 36): più di quanto il bilancio preveda per la logistica nel prossimo anno. Ma negli elenchi si trova di tutto. Nessuna gara per la gestione di mense e cucine, che nel 2012 è costata 153 milioni. Ben 372 mila per il noleggio di autobus da una società campana, che al momento del contratto era sotto inchiesta della magistratura, mentre le forze armate possiedono centinaia di pulmann. Gli acquisti di beni e servizi attraverso Consip – la centrale statale che dovrebbe garantire prezzi calmierati – sono un’eccezione. Non solo. Spesso negli accordi trattati direttamente con le industrie si riconosce pure “l’aumento quinto”: un ritocco extra che copre ulteriori costi del produttore in maniera pressoché automatica. Così la Beretta ha avuto due milioni e 400 mila euro in più per fucili e lanciagranate e altri 100 mila per binocoli laser, l’Aerosekur un milione e mezzo, la Rheinmetall 350 mila, l’Iveco 205 mila euro per “revisione prezzi”, la Vitrocisiet un aumento di 233 mila.

Il missile flop da 600 milioni – Accordi piccoli e grandi capaci di sfuggire ai monitoraggi. Ci sono programmi che si trascinano per decenni, fino a perdersi per strada. Come il missile anti-aereo Meads. Un ordigno invisibile: è costato già 2,7 miliardi ma non esiste nemmeno un prototipo completo. Il progetto è stato concepito assieme a Germania e Stati Uniti: l’Italia finora ci ha messo circa 600 milioni. Gli studi sono partiti alla fine negli anni Novanta e non si vede ancora il traguardo. Due anni fa Washington ha detto basta. I politici di Berlino e i generali di Roma non si sono ancora arresi – anche perché l’Aeronautica nel frattempo è rimasta senza batterie terra-aria – e cercano una maniera per rivitalizzare il missile distruggi-quattrini: l’hanno proposto invano alla Polonia, che ha declinato l’invito. Ora bisogna decidere se staccare la spina dei finanziamenti oppure proseguire nell’accanimento terapeutico a carico dei contribuenti. I tedeschi si pronunceranno il prossimo anno, mentre al momento nel nostro bilancio non si materializzano altri fondi. Quei 600 milioni rischiano di essere solo un regalo di Stato alle aziende coinvolte, prima fra tutte Finmeccanica, per fare ricerca tecnologica.

Il programma dall’origine più misteriosa è decisamente quello dell’Aermacchi M-345: un jet per la formazione dei piloti spuntato dal nulla nell’estate 2013. Non se n’era mai parlato prima, ma improvvisamente si decide di rivoluzionare le scuole di volo dell’Aeronautica adottando questa nuova creatura del gruppo Finmeccanica. L’allora ministro Mario Mauro ne è talmente innamorato da annunciare nel settembre 2013 che diventerà il prossimo velivolo delle Frecce Tricolori. Un’exploit sorprendente, soprattutto nell’era delle amputazioni di bilancio. Già si stava faticando per comprare, sempre dall’Aermacchi, un altro aereo da addestramento molto più potente e costoso, l’M-346. E gli stormi dove si insegna a pilotare non sembravano a corto di macchine.

Trenta aerei fermi a terra – In realtà, negli stessi mesi in cui nasceva il nuovo jet negli hangar dell’Aeronautica si è verificato un grosso guaio. Tutti i trenta velivoli scuola sono stati messi a terra: il motore si surriscaldava e rischiava di fermarsi in mezzo alle nuvole. I comandi saggiamente hanno scelto di non correre pericoli e bloccato i decolli. Il problema è che quei trenta aerei SF-260 EA sono semi-nuovi, consegnati sempre dall’Aermacchi tra il 2005 e il 2007. Per avere un’idea, i loro predecessori sono rimasti in servizio per trent’anni di fila e sono ancora ambiti dagli appassionati. Come è stato possibile non accorgersi dei difetti di una macchina tecnologicamente semplice e sbagliarne l’acquisto? Di fatto, gli aerei sono ancora fermi: si è corsi ai ripari facendo istruire gli allievi con vetusti monomotori per il traino di alianti e altri velivoli noleggiati dagli aeroclub. Dopo un anno i tecnici hanno trovato una soluzione per rimettere in aria i trenta aerei azzoppati, tempi e costi però restano dubbi. E nel frattempo si è inventata la necessità di un nuovo reattore.

Il governo Renzi ha finora rotto le ali all’M-345. Con l’arrivo della Pinotti al posto di Mauro, il progetto è stato escluso dalle priorità: nelle ultime previsioni triennali del ministero non viene neppure citato. Aermacchi invece continua a credere nella bontà dell’M-345: il prototipo è stato esibito due mesi fa al salone di Londra con i prestigiosi colori delle Frecce, proclamandone l’ingresso nelle file della nostra aviazione nel 2017. Chissà se alla fine non riuscirà nell’intento.

Spesso nello shopping militare la volontà dell’industria ha la meglio sulle esigenze delle forze armate, imponendo apparati di scarsa utilità o invecchiati precocemente: sistemi che difficilmente si riesce ad esportare. Non è un caso se l’unico blockbuster sui mercati esteri è il fuoristrada blindato Lince, creato in proprio dall’Iveco e venduto in mezzo mondo. D’altronde, i fondi del ministero Sviluppo Economico per armamenti nel 2014 hanno superato i due miliardi di euro. È lo Sviluppo Economico a pagare i supercaccia Eurofighter e i jet d’addestramento M-346, i blindati Freccia e le fregate Fremm. È sempre lo stesso dicastero a farsi carico di Forza Nec, il piano per digitalizzare i soldati con una spesa di 800 milioni per dotare di gadget hi-tech studiati da Selex (Finmeccanica) due sole unità di fanteria. Con il gran finale delle sovvenzioni a scatola chiusa per la flotta: 5,8 miliardi di euro con cui costruire 6 pattugliatori, una nave anfibia, un rifornitore e due vedette per gli incursori. Milioni stanziati senza nemmeno un disegno di massima degli scafi, con l’obiettivo di dare fiato a Fincantieri e garantire un futuro alla Marina: insomma, un finanziamento sulla fiducia. Tante rate, da qui al 2032, che lasceremo sulle spalle dei nostri figli.

(Gianluca Di Feo da L’Espresso)

A proposito di forze dell’ordine e giustizia

Ci pensavo per caso questa mattina mentre mi è capitato di parlare con alcuni di loro: sono anni che si parla di rafforzamento di organico di forze dell’ordine e dei tribunali, sulle prime tra l’altro l’allarme di carenza di mezzo e uomini è praticamente bipartisan. Sono passati anni, decenni. Centrodestra e centrosinistra al Governo. E non cambia niente. Niente. Anzi: contro la magistratura il vento è lo stesso.

Con rispetto per Scampia

Qualche tempo fa, mentre ero ospite di una trasmissione televisiva, ricordo di avere raccolto una bella sporta di insulti da esponenti leghisti e qualche rimbrotto piddino per una mia frase: “Milano in alcune sue zone è come Scampia”. Se non ricordo male il tema della puntata era proprio la rappresentazione televisiva di quel territorio campano diventato metafora di un certo agire criminale. Con il tempo mi sono pentito di quella frase effettivamente non tanto per Milano (che mi disgusta quando si ingegna per apparire compita) quanto per Scampia che non merita di diventare termine assoluto di paragone ad uso di una situazione milanese molto più complessa e per molti versi peggiore. Ieri su Il Fatto Quotidiano Davide Milosa, giornalista puntuale poiché sganciato dall’orrido bon ton lombardo sui temi mafiosi, ha scritto un articolo che riporta con precisione la situazione criminale di alcuni quartieri milanesi in un articolo dal titolo “Milano come Scampia: mafie, racket e droga nelle case popolari” e mi ha riportato all’episodio della mia ospitata televisiva. Forse davvero dovremmo trovare linguaggi nuovi per esprimere l’allarme di un territorio che comunque ospita tra le proprie pieghe episodi che vengono colti con la solita insopportabile insufficienza. Almeno per rispetto per Scampia. Basta leggere il pezzo di Davide per rendersene conto:

Maglietta nera, jeans, capelli rasati sui lati. Guarda. È insistente. Un pit bull gli pascola attorno. Dice: “Cerchi qualcuno?”. Risposta abbozzata: “Sì, anzi no, facevo un giro”. Oltre a lui adesso sono in sei, cinque ragazzi e una ragazza. Tutti italiani. Altri passeggiano sul grande spiazzo di cemento chiuso tra quattro palazzi di sette piani. Questo è territorio off limits. “Tra noi qualcuno è di troppo”, dice lei. Ride ma mica tanto. Meglio andare. Camminata rapida verso il cancello bianco che ti sputa sullo stradone di traffico. Il passo accompagnato dai bassi di un stereo che manda ritmi tecno dalla finestra.

Benvenuti a Milano nel fortino tra viale Sarca e viale Fulvio Testi, periferia nord della città. Case popolari. Gestione Aler in capo alla Regione che fu di Roberto Formigoni e che ora è di Bobo Maroni. Impronta leghista, ma identico risultato. E mentre la politica apparecchia il banchetto dell’Expo, Milano assiste alla frantumazione del suo tessuto sociale. Perché quello degli appartamenti gestiti dall’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale è un fronte che monta ogni giorno. Con la cronaca che accatasta violenze, occupazioni abusive, voti comprati.

Dal Giambellino al Gallaratese, Aler si mostra impotente. L’azienda regionale, travolta dagli scandali, da sempre poltronificio per i partiti, in perenne rosso, controlla 72 mila alloggi. A Milano ha edificato 170 quartieri dove vivono 350 mila persone. Dal 1° dicembre, però, 28 mila alloggi torneranno sotto la gestione del Comune. “Ce ne assumiamo la responsabilità”, promette il sindaco Giuliano Pisapia. “Siamo pronti a vincere la sfida”.

Viale Sarca, comandano i clan e il voto costa 50 euro
“Il quartiere Sarca-Testi è il centro di tutto”, racconta un ex funzionario dell’Aler cacciato dall’amministrazione dopo che per qualche anno ha vigilato sui palazzoni, denunciando gli opachi rapporti tra i dirigenti pubblici e alcuni pregiudicati. Anche per questo si è fatto ben volere soprattutto dagli anziani. Non la pensa così l’azienda che gli ha fatto il vuoto attorno. “Qui rom e calabresi controllano tutto, dal racket allo spaccio”. Famiglie ben conosciute e con un pedigree criminale di tutto rispetto. Alcune di loro sono finite sotto la lente dell’antimafia.

“Qui anche i motorini dei postini vengono fatti a pezzi”, dice l’ex funzionario, “non succede la stessa cosa invece per certe fuoriserie”. In Sarca-Testi ci passa di tutto. “Anche gente di camorra legata al clan Gionta”. In questi palazzoni, poi, la politica viene spesso. “Nel 2010”, ricorda l’ex funzionario che chiede l’anonimato per timore di ritorsioni, “qui fece campagna elettorale un noto politico lombardo che entrò nella giunta Formigoni”. Non fa il nome, ma spiega: “Un voto vale 50 euro. Nel periodo pre-elettorale arrivano macchinoni e gente in giacca e cravatta. Gli accordi si prendono con i boss del clan Porcino e del clan Hudorovich. La mazzetta viene lasciata a una sola persona che ha poi l’incarico di distribuire il denaro ai vari inquilini”.

E se da un lato in questa enclave della mala politica incassa preferenze, dall’altro, funzionari Alervengono ricattati. “Qui si spaccia di giorno e di notte, e in certi casi i pusher hanno ripreso con i telefonini funzionari e impiegati dell’azienda mentre acquistano la droga, video che poi hanno utilizzato per ricattarli”. Come? “Per esempio per ottenere un cambio alloggio in tempi rapidissimi”. Il controllo del territorio è totale. “A tal punto”, spiega l’ex funzionario, “che nel 2010 qui trovò riparo un latitante, i carabinieri lo hanno cercato per settimane”. Quartieri sull’orlo di una crisi di nervi, e palazzi abbandonati. Anche questa è Aler.

E così da viale Sarca ci si sposta al civico 60 di via Adriano verso Crescenzago. Qui, qualche giorno fa, un marocchino di 30 anni, con precedenti per droga, è stato ammazzato. Lo hanno trovato su una montagnetta di rifiuti con la testa rotta. Precipitato dopo una rissa.

Guerra al Giambellino rom contro italiani
Abitava al terzo piano di uno stabile abbandonato. E come lui tanti altri disperati, gente che viene dal Nordafrica e dall’est Europa. Stabile Aler che, nei piani, doveva diventare una scuola. A testimoniarlo un cartello affisso al cancello. Si legge che “l’insegnante della prima ora deve fare l’appello e controllare le giustificazioni”. La data: 2008. Poi solo il degrado. Che si calpesta oggi metro dopo metro facendosi largo tra le erbacce e le montagne di immondizia. Ci sono finestre rotte, porte divelte e su per le scale si intravedono ombre. Dopo la morte del ragazzo nessuno parla. Si chiamava Moustafa.

Ma Aler oggi è anche corpo a corpo e lotta per la sopravvivenza. Una guerra tra poveri che infiamma il Giambellino. Succede tutto la notte del 1 ottobre scorso, quando al civico 58 arriva un camioncino. Quattro uomini entrano nel palazzo. Martellano, sfondano, occupano. Ci piazzano una ragazza con tre bimbi. I carabinieri arrivano ma non la cacciano. Il giorno dopo, in pieno pomeriggio, un gruppo di rom si presenta con sedie, tavoli, materassi. È la miccia che scatena la rivolta. “Arrivano gli zingari”, si sente urlare. La gente scende in cortile. Gli italiani fanno muro. Partono gli insulti. Si sfiora la rissa. Arrivano i carabinieri e i rom se ne vanno. “Qui non li vogliamo”.

Che fanno gli zingari? Si spostano di un chilometro verso via Odazio e piazza Tirana. Con donne, bambini e auto di lusso parcheggiate davanti al civico 4 di via Segneri. Sfilano davanti a una signora italiana con cagnolino al guinzaglio. Lei si sposta, loro tirano dritto, entrano nel cancello e scompaiono. “Ormai”, inizia la signora Rosa, “la piazza è roba loro”. Si avvicina un’altra donna. “Mi chiamo Carla e abito qua da 15 anni. Ogni giorno c’è un’aggressione, i furti sono aumentati, e poi ci sono le baby gang: ragazzi tra gli 11 e i 18 anni che fanno rapine ai passanti”.

Al Gallaratese le auto vanno a fuoco
In via Segneri la gente ha paura di protestare. Un dato comune anche in via Bolla 42, quartiere Gallaratese. Qui in una sola settimana la mafia del racket ha dato fuoco a tre macchine. Incendidolosi, non hanno dubbi gli investigatori. Ne sono certi gli inquilini che da anni protestano. Il ragionamento è questo: ora ti brucio la macchina e ti va bene così, la prossima volta, però, tocca alla tua famiglia. Da queste parti governano clan calabresi che non sfondano le porte ma i muri. “È più semplice”, dicono.

Dopodiché chi protesta, prima di essere minacciato, viene pagato. Dai 50 ai 100 euro. Tutto denaro che poi sarà recuperato con gli affitti abusivi. Succede in via Bolla come in via Asturie, non lontano da viale Sarca, dove il listino prezzi arriva fino a 3 mila euro per un appartamento di tre locali. Si occupa ovunque e Aler non pare in grado di bloccare quest’emergenza. Tanto che rispetto a cinque anni fa, gli sgomberi in flagranza sono calati del 60 per cento. In tutto questo succede anche che sulla giostra delle case popolari salgano abusivi e sbirri. Capita nei due palazzoni Aler di via San Dionigi 42 al confine con il quartiere Corvetto. Le occupazioni sono aumentate dopo la chiusura delcampo nomadi dietro via San Dionigi. La presenza di poliziotti, però, non è un deterrente. Gli abusivi non si fermano e occupano non solo gli appartamenti sfitti, ma anche quelli lasciati vuoti magari da un anziano che per qualche giorno si è ricoverato in ospedale. Il Comune di Milano, però, promette: “Sarà guerra agli abusivi e al racket”.

Da Il Fatto Quotidiano dell’8 ottobre 2014