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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

te lo giuro… credimi, ma sul bene che voglio al cane

Umile, discreta. Capace di risolvere i problemi burocratici con precisione e dedizione. E soprattutto senza fare troppe domande. Ma anche capace di farsi ascoltare, quando le cose non le tornano. Ecco il ritratto della segretaria ideale. Anche per un boss della ’ndrangheta, come Pino Pensabene, erede della «locale» di Desio, finito in cella insieme ad altre 39 persone, dopo il blitz della Mobile di Milano, in seguito all’inchiesta dell’AntimafiaIl capo sa riconoscere il valore delle persone. È il caso di Mariagrazia Leone, che entra nel clan come semplice «amministrativa» e assume nel tempo il peso di una collaboratrice fidata. A conoscenza di tutti i segreti. Perché la famiglia che ha lasciato il fucile a canne mozze per la finanza non ha bisogno solo di imprenditori e soci all’estero, ma anche di buoni impiegati, come «Mary».

«La Leone ha dato un contributo importante al conseguimento dei fini del programma criminale dell’associazione mafiosa, aiutandola nella gestione delle singole operazioni illecite, nei contatti con i funzionari degli uffici postali e nella gestione, irregolare, della contabilità delle società di copertura, con l’emissione di fatture fittizie per le operazioni di riciclaggio. Tutto ciò nella piena consapevolezza della esistenza dell’associazione mafiosa, e nel preciso intento di aiutarla a conseguire i suoi obbiettivi illeciti». Così scrivono nell’ordinanza i giudici di Milano. Praticamente, un curriculum esemplare per qualunque azienda. Solo che si tratta di mafia. E «Mary» lo sa, tanto che il papà Umberto figura da prestanome in una serie di aziende, delle quali tutto ignora. Perché a gestirle sono il boss, Pino Pensabene e il suo braccio destro.

Gli esordi da apprendista
Mary, al debutto, nel 2011, si occupava solo di gestire la contabilità delle aziende intestate dal padre come prestanome: la Coimpre, la Ludovica e la Simpa Srl. Era il padre a dirle di presentarsi dal notaio come «impiegata della Ludovica». Lei eseguiva senza «alcuna reazione». Affidabile. Fa quello che deve e non fiata. Anche se sa che le aziende non sono del padre, ma del boss. Quando Mary telefona al padre per riferire l’incontro col notaio, Umberto non sa rispondere e le passa Pino Pensabene. E lei riferisce puntualmente. A lei passa, dunque l’onere di parlare col boss. Leone delega «alla figlia i contatti con un notaio e con un commercialista idonei ad attivare alcune società di copertura, e le modifiche societarie sulle ditte utilizzate per i fini associativi, ovvero per riciclare il denaro e accumulare immobili».

La promozione sul campo
A questo punto, la fiducia è conquistata. Dai semplici contatti telefonici, Mary diventa l’interfaccia di prestanomi ed esperti nella creazione di società estere per il riciclaggio, come «l’avvocato» Emanuele Sangiovanni. Che vede costantemente. Il boss, peraltro, arriva ad assumerla direttamente in una società di servizi controllata dal clan, come amministrativa. Lavoro regolare, stipendio e tredicesima. Insomma, scrivono i giudici, Mary «è un punto di riferimento per tutti coloro che, muovendosi sul territorio, si occupano materialmente della creazione delle società». Al punto che tutti i segreti dell’organizzazione passano per le sue mani. A spiegarlo bene è un’intercettazione. Una telefonata fra Mary l’impiegata e Pino il boss. «Praticamente no?…tu non so se l’hai capito tutto il lavoro che faccio qua ..», dice Pino. E Mary: «Eh..sì, è il riciclo di denaro liquido per guadagnarci la percentuale tu… Giusto?». Pino: «Brava…». Mary: «Perché magari Giuseppe (Vinciguerra) ci guadagna una percentuale sui soldi che però gli hai dato tu per girarli». Pino: «Sì sì…». Mary: «Siccome lui ti aiuta a girarli, ci mette la sua percentuale…». Pino: «Bravissima…».

La minaccia del capo
Ma il boss non vuole che l’impiegata spieghi a nessuno il meccanismo degli affari del clan. «Mary…vedi che se parli con qualcuno…», minaccia Pensabene. E l’impiegata rassicura il datore di lavoro: «Ma tu io.. te lo giuro… credimi, ma sul bene che voglio al cane, che potesse morire stasera adesso, io neanche con mio papà parlo ….te lo posso assicurare». E la conversazione continua, con tono confidenziale.

La richiesta dei soldi
L’azienda nella quale la Leone lavora, però, non dura a lungo. Finito il suo ruolo nel sistema di riciclaggio deve chiudere. E con essa spariscono stipendi e posti di lavoro. Fra cui quello dell’impiegata modello. Che per alcuni mesi manda avanti tutto, anche senza lavoro da fare, pagando gli stipendi di persona alle altre impiegate. Quando finalmente parla col boss, Mary assume il tono della rivendicazione sindacale. E chiede i suoi stipendi. Pino: «Va be’… però potevi pure chiedere (la società, l’attività, ndr) o no?». Mary: «Ma pensavo che era scontato, se no non si poteva finire di lavorare… Anche perché se no non potevo fare…». Pino: «E glielo dicevi… vedi Peppe che io sto anticipando i soldi per fare le buste paga…». Mary: «Gliel’ho detto… Peppe lo sa. I soldi li ho messi di tasca mia. Mi fa: non ti preoccupare… c’erano testimoni… le ragazze davanti». Pino: «E quindi adesso diventa un problema mio però no?». Mary: «No, no!… Ti ho chiesto se lo potevi sentire l’altro giorno. Perché magari lo vedevi». Pino: «Va bene… va bo’, dai. Adesso lo sento e gli dico di mandarti… Quant’è il tuo stipendio … 1.200?… Adesso gli dico di mandarti il tuo stipendio… dai, va bene?». E Mary: «No, in verità c’ho anche la tredicesima…» Pino: «C’è anche la tredicesima…». E l’impiegata: «Più … e certo!… più i soldi del coso del… Ma anche le ragazze hanno bisogno, tutti … è?». Allora il boss taglia corto: «Quanto hai bi… ma le ragazze non è un problema tuo, è un problema di Peppe o no?». Allora l’impiegata senza stipendio abbassa le pretese: «Va be’… 2.900 sono in tutto…». E il boss: «2.900 sono i tuoi quindi?». E la Leone conferma: «Sì…».

Guido Bandera

(clic)

#noslot l’esempio di Bolzano

A Bolzano la “guerra” alle slot viene combattuta senza mediazioni e dà i suoi risultati. Una legislazione nazionale certo aiuterebbe le amministrazioni ad essere meno esposte a mille ricorsi e ad essere meno sole. La bella notizia è qui. Da prenderne esempio.

Mafia al nord: vittime o collusi?

L’ultima evoluzione ha permesso alla ‘ndrangheta lombarda di creare una propria banca clandestina a Seveso, in Brianza. Capace, grazie a collusioni con insospettabili e casse sempre gonfie di contanti derivante dall’usura, di concedere finanziamenti e prestiti. Tanto che il gip di Milano Simone Luerti scrive nella sua ordinanza di custodia cautelare contro l’organizzazione di Giuseppe Pensabene, 46 anni affiliato alla ‘ndrangheta fin dagli anni 80 e capo della locale di Desio, che ci troviamo di fronte a una “nuova mafia“. Dove non è indispensabile né l’affiliazione, né le pistole, né la gerarchia. L’operazione della squadra mobile, guidata da Alessandro Giuliano, e della Direzione distrettuale antimafia di Milano traccia tre diversi identikit di imprenditori disposti a organizzare affari con la ‘ndrangheta. Profili diversi, che allo stesso tempo hanno tra loro punti in comune: tengono sempre la bocca chiusa e non hanno mai un ripensamento. Perché l’obiettivo ultimo è sempre lo stesso: fare soldi. Torna a sottolineare la gravità di questo aspetto, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini: “Ancora una volta, abbiamo trovato imprenditori usurati e malmenati che hanno preferito non denunciare”. Nelle 700 pagine dell’ordinanza che ha portato a 34 ordinanze di custodia cautelare spiccano tre nomi: Antonio RosatiFabrizio Politi e Fausto Giordano.

L’ex presidente del Varese Calcio non denuncia
Rosati è un importante costruttore di Varese e vice presidente esecutivo del Genoa che entra in affari con il gruppo di Pensabene – scrive il giudice – “per compiere alcune speculazioni edilizie”. L’ex presidente del Varese Calcio, candidato in una lista civica che alle elezioni regionali del 2013 in Lombardia appoggiò Roberto Maroni, viene avvicinato nel 2012 da Pensabene. E alla fine si trova costretto a cedere alcuni appartamenti al gruppo, per far fronte a un debito contratto da un altro imprenditore con gli uomini della locale. Rosati, che non risulta coinvolto nelle indagini dell’antimafia milanese, sostiene di “non aver mai avuto niente a che fare con persone legate alla criminalità organizzata” e che “non avrebbe difficoltà a rivolgersi all’Autorità giudiziaria”. Cosa che, secondo gli inquirenti, non è avvenuta nonostante le ripetute minacce e intimidazioni.

Politi, “il nuovo Briatore”, in affari con i boss
C’è poi chi accoglie come manna dal cielo i soldi della ‘ndrangheta, convinto che il sodalizio possa mettere in sesto i conti dissestati delle proprie aziende. E’ il caso dell’imprenditore navale Fabrizio Politi, livornese di 41 anni. Il proprietario della Fashion Yachts, ditta di imbarcazioni di lusso, torna al centro delle cronache questa volta non per la vita mondana o le relazioni con la ex Spice Girl Geri Halliwell e la modella Naomi Campbell (guarda il video), ma per i suoi rapporti con il presunto boss Pensabene, che gli costano l’arresto. “Il nuovo Briatore”, come lo definivano qualche anno fa le riviste scandalistiche, sa benissimo con chi si sta per mettere in affari. Il suo socio Emanuele Sangiovanni, finito anche lui in manette, durante le conversazioni intercettate non usa giri di parole: “Questi non hanno studiato ad Harvard”. Lo stesso concetto viene ribadito sempre da Sangiovanni quando Politi, per sdebitarsi, vuole invitare il capo della locale di Desio a vedere una partita dell’Inter a San Siro: “Meglio non farsi vedere con quelli”. Segno – ragiona il giudice – che Politi conosce bene lo spessore criminale dei suoi soci. Ma poco importa. I due imprenditori, tra il 2011 e il 2012, spalancano le porte della loro società Italianavi srl ai finanziamenti della ‘ndrangheta. Hanno bisogno di soldi, e alla “nuova mafia” di certo non mancano capitali da investire. Anche perché – scrive il gip – Pensabene ha sempre considerato la nautica un settore ideale per ripulire il denaro. Politi e Sangiovanni approfittano anche della banca clandestina messa su dal boss per prestiti. Ma i due riescono a fatica a mantenere gli impegni presi e allora pensano di cedere il proprio cantiere navale di Viareggio al gruppo.

Il sodalizio culmina però – secondo gli investigatori – con le minacce all’imprenditore viaregginoFrancesco Guidetti, nome tra i più prestigiosi nella nautica versiliese. A maggio del 2012 Politi, per l’accusa, costringe l’imprenditore ad accettare le condizioni imposte da Pensabene – che intanto è deciso a mettere le mani sulla società Italianavi – e dal suo gruppo criminale. Perché Guidetti, che vanta un credito di circa 240mila euro nei confronti della società Italianavi Srl di Sangiovanni e Politi, deve essere convinto a “ridurre le sue pretese creditorie” e a sborsare quattrini per “finanziare in parte il completamento della costruzione di alcune imbarcazioni di lusso, affare gestito dalla stessa Italianavi, e nel quale era coinvolta direttamente, come finanziatrice, anche l’associazione mafiosa capeggiata da Pensabene”.

Da vittima a imprenditore organico alla ‘ndrangheta
Se nelle pagine dell’ordinanza Politi appare ancora come un imprenditore borderline – propenso a concludere affari e a commettere eventuali reati, ma comunque esterno all’organizzazione -, c’è un’altra la figura che viene partorita dalla “nuova mafia”. Quella della vittima che, una volta saldati i debiti con l’organizzazione, compie una metamorfosi e diventa organica alla ‘ndrangheta. Fausto Giordano, attivo nell’edilizia, nel gennaio 2012 subisce un’evoluzione: dopo aver estinto  l debito con Pensabene entra a far parte del gruppo. Anche se per lui quello della mafia non è un terreno sconosciuto. Gli investigatori della Mobile, già prima dell’arresto per associazione mafiosa dei giorni scorsi, lo ritengono vicino alla famiglia di Domenico Pio, detto “Mimmo” o “Mico”, esponente di spicco della locale di Desio arrestato nell’operazione “Infinito”, che nel 2010 inflisse un duro colpo alle ‘ndrine del nord e lasciò un vuoto di potere pronto a essere subito riempito anche da Pensabene. Giordano nel 2012 è asfissiato dai debiti e le casse della sua azienda sono ridotte all’osso. Riceve un prestito da 200 mila euro dalla locale di Desio. Reinveste e riesce a tirare un sospiro di sollievo. Poi riesce a estinguere il debito con la banca di Pensabene cedendo due appartamenti. E’ dopo aver saldato i conti che l’imprenditore svizzero diventa organico al gruppo: finanzia le collette per i detenuti ‘ndranghetisti in carcere, riscuote i debiti per conto dell’organizzazione – che deve agire con prudenza perché sorvegliato speciale -, e procaccia nuovi clienti da buttare in pasto alla banca della ‘ndrangheta e ai suoi interessi usurai. Giordano mette al servizio dell’organizzazione le sue società di copertura e indossa le vesti del mediatore per convincere altri imprenditori a saldare i debiti. E’ su di lui che vengono puntati gli occhi della squadra mobile di Milano nel 2010. Ed è seguendo le sue tracce che l’antimafia milanese immortala l’ultimo balzo in avanti della ‘ndrangheta in Lombardia.

(Un bel pezzo di Alessandro Bertolini)

Lo stipendio dei Graviano è nelle pompe di benzina

La Procura della Repubblica chiede il rinvio a giudizio per Angelo Lo Giudice e Rosa Bompasso. I loro distributori di carburante sarebbero stati per anni una fonte di reddito per i fratelli Benedetto, Filippo e Giuseppe Graviano. Come? Le colonnine degli impianti sarebbero state manomesse per ottenere maggiori ricavi da girare ai capimafia di Brancaccio e ai loro familiari. Da qui le accuse di truffa e riciclaggio che vengono contestate a Lo Giudice e Bompasso, marito e moglie, formalmente intestatari dei distributori Agip di viale Regione Siciliana, ad angolo con via Oreto, ed Esso di Piazza Sant’Erasmo. Entrambi gli impianti sono finiti sotto sequestro. Il primo è fallito e il secondo ha riaperto sotto un’altra insegna estranea ai fatti. Le due compagnie petrolifere, Esso e Agip, sono parte offesa dell’inchiesta e sono pronte a costituirsi parte civile con l’assistenza dell’avvocato Cristiano Galfano. Ad entrambi gli indagati i pubblici ministeri Vania Contrafatto e Francesca Mazzocco contestano l’aggravante dell’articolo 7, quella prevista per chi agevola Cosa nostra.

Nelle pompe non si vendeva solo carburante con il trucco. Sarebbero state anche due stazioni di posta del clan mafioso di Brancaccio. Il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza vi trovò una sfilza di pizzini. E così sarebbe venuta a galla la contabilità che prevedeva stipendi sostanziosi per i parenti più stretti degli ergastolani che nonostante il 41 bis avrebbero continuato a gestire affari e potere. E cioè Rosalia Galdi, detta Bibiana, moglie di Giuseppe Graviano, Francesca Buttitta, moglie di Filippo, Nunzia Graviano, “a picciridda” sorella dei boss (pure lei è finita in carcere) a cui sarebbero spettati 4 mila euro al mese. E ancora mille euro ciascuno a Maria Anna Di Giuseppe ed Antonietta Lo Giudice, mogli di Giuseppe Faraone e Giorgio Pizzo, entrambi detenuti, e a Benedetto Graviano.

Nei due distributori i finanzieri trovarono tutto ciò che serviva per truffare, sostiene l’accusa, i clienti. C’era la calamita che diminuiva l’erogazione fino al dieci per cento in meno di quanto indicato sul dispaly. C’era l’interruttore piazzato in bagno che qualcuno pigiava quando il benzinaio azionava la pistola del carburante. Oppure il telefono che a distanza accelerava il conteggio della colonnina facendo semplicemente finta di essere impegnati in una conversazione.

Il difensore dei due indagati, l’avvocato Enrico Tignini non entra nel merito delle accuse, ma si limita a precisare che nel caso di Lo Giudice “alcune fattispecie di reato potrebbero essere già oggetto di analogo processo penale in fase di celebrazione con il rito abbreviato” (Lo Giudice è per imputato di intestazione fittizia di beni ndr). Nel caso della Bompasso, invece, “si tratta della titolare del Bar Liberty che nulla aveva a che fare con il distributore”. Anche il bar, annesso alla pompa di benzina di viale Regione Siciliana è finito sotto sequestro perché considerato di proprietà dei capimafia di Brancaccio.

(clic)

Caro Renzi, desecreta i faldoni delle commissioni rifiuti. Onora Ilaria Alpi.

Foto_desecretazione1-672x372Mentre la presidenza della Camera dei Deputati sta analizzando i faldoni delle commissioni rifiuti e Alpi-Hrovatin per avviare la procedura di desecretazione, Aisi e Aise (ex Sisde e Sismi) hanno già detto no alla rimozione del segreto su decine di dossier. Lo hanno fatto lo scorso anno, tra il 18 aprile e il 15 maggio, rispondendo – sempre negativamente – alle richieste della “Commissione stralcio” di Montecitorio.

Dopo la chiusura della XVI legislatura e la fine dei lavori dell’ultima Commissione bicamerale d’inchiesta sui rifiuti – presieduta dall’onorevole Gaetano Pecorella – i parlamentari si erano espressi per una declassificazione di gran parte dei documenti sotto segreto, provenienti dai Servizi d’informazione e sicurezza (in gran parte dall’Aise, che si occupa di intelligence estera). La Camera si è però trovata di fronte ad un secco rifiuto da parte dei direttori delle agenzie, come hanno spiegato fonti autorevoli a toxicleaks.org .

Nei prossimi giorni Aisi e Aise riceveranno di nuovo la richiesta dall’ufficio di presidenza della Camera dei Deputati. Greenpeace – sostenuta dal quotidiano il manifesto – nei mesi scorsi aveva inviato una lettera alla presidente Laura Boldrini chiedendo l’apertura e la desecretazione di tutti i fascicoli sui traffici di rifiuti internazionali, sulle “navi a perdere” e sul caso Alpi-Hrovatin.

Le paranoie di Pietro

Io proverei a buttare un occhio alle paranoie di Pietro Orsatti. Molto spesso le paranoie si rivelano infondate ma prese con il giusto dosaggio sono un buon esercizio di guardiania:

La risposta di Renzi arriva nel giorno in cui si tiene a Roma la conferenza nazionale sui beni confiscati di Libera. Roma, che sappiamo essere in un mare di guai sul piano finanziario e come molti fanno finta di dimenticarsi aggredita da decenni dal sistema politico-finanziario-mafioso e con tatto di guerra (con tanto di morti ammazzati) in corso da qualche anno per il riassetto degli equilibri criminali in città. Roma, guidata da un sindaco che ha alzato la voce contro il segretario del Pd e premier sul decreto “salva Roma” e che ha dovuto subire, per riuscire a trovare una via per non precipitare nel default, una ricetta amara, anzi amarissima, di dismissioni e di “commissariamenti di fatto” che toglieranno alla città e ai cittadini il pur minimo controllo sulle scelte del loro patrimonio e in particolare della liquidazione dei beni confiscati alle mafie (un terzo proprio nella capitale).

Partendo dal fatto che io non credo alle coincidenze, questo elenco di fatti mi lascia come minimo perplesso. Come le richieste del Pd (e non del governo) a Marino che sembrano un dictat di fonadamentalisti delle liberalizzazioni (senza privatizzazioni) dei beni comuni. Lo potete leggere qui .
Sono io che sto diventando paranoico o questa sembra una ben orchestrata operazione di marketing (politica e economica) e la liquidazione della parte relativa nella legge La Torre al riuso sociale dei beni sottratti alle organizzazioni mafiose? Sono io che sono paranoico o il punto relativo a “i manager” della letterina del premier prevede la liquidazione del controllo pubblico sulle scelte amministrative della città? Sono io paranoico o, per come è formulato, il tanto sbandierato provvedimento sull’autoriclaggio è completa, totale fuffa? E ancora, sono io paranoico o la linea del Pd che vuole imporre a Marino la cessione di quote del trasporto pubblico a FS (che hanno di fatto liquidato il sistema di trasporto pubblico su ferro nel nostro paese puntando solo all’alta velocità) e alla francese Ratp è la svendita di una società già provata da parentopoli e sprechi e affari loschi negli ultimi anni? Sono io paranoico quando mi torna in mente che uno dei patrimoni immobiliari (aree dismesse) nella capitale sono proprio in mano all’Atac?

Coincidenze

Totò Riina parla (troppo) in carcere nel carcere (troppo poco) duro di Opera riaccendendo (troppo) i riflettori sulla trattativa Stato – Mafia e mangia qualcosa di intossicante. Per fortuna non ha bevuto il caffè, perché quelli di Pisciotta e Sindona sono indigesti da decenni.

Il calcio e le tragedie

++ Calcio: striscioni Superga, multa 25 mila euro a Juve ++Non sono oggettivo perché sono tifoso del Torino e certo ci sono argomenti più importanti ma pensare che lo sport (ma succede anche in politica, nella cultura e udite udite nell’antimafia) debba essere un condono tombale per esprimere le offese peggiori sulla pelle delle tragedie è una deriva che bisogna arginare. E per questo la denuncia ai tifosi della Juve che hanno esposto l’orrido striscione sulla tragedia di Superga non è solo un momento di giustizia sportiva ma una ridefinizione dei limiti. E ogni tanto alla sera forse ci farebbe bene a tutti provare a valutare i nostri eccessi: lì dove abbiamo accettato che il fine giustificasse i mezzi e i mezzi hanno colpito la dignità di qualcuno.

A Ostia ancora arresti per il clan Fasciani

Sedici nuovi ordini di custodia cautelare che colpiscono a Ostia il clan dei Fasciani e un gruppo di loro presunti affiliati, nonché il sequestro preventivo di una decina
di imprese commerciali compreso il pacchetto di una parte delle quote sociali della societa’ ‘Porticciolo Srl’. Con questi provvedimenti si e’ aperto il secondo capitolo della lotta avviata dalla Procura della Repubblica di Roma per debellare quella che e’ conosciuta come la ‘mafia di Ostia’. Una lotta che nel luglio scorso porto’ in carcere 51 appartenenti alle famiglie malavitose dei Triassi e dei Fasciani indicati come responsabili dei traffici illeciti che si sono sviluppati e si sviluppano lungo l’intero litorale del Lazio.

All’alba di questa mattina i finanzieri del Gico hanno notificato i provvedimenti firmati dal gip Simonetta D’Alessandro su richiesta del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino e del sostituto Ilaria Calo’. A finire in carcere, oltre al capo del clan Carmine Fasciani, a sua moglie Silvia Franca Bartoli e alle sue figlie Sabrina e Azzurra, tutti già coinvolti nel blitz all’inizio dell’estate scorsa (Azzurra ha ottenuto gli arresti domiciliari) in carcere sono finiti anche Nicola Di Mauro, Davide e Fabio Talamoni, Fabrizio Sinceri, Daniele Mazzini, Valerio e Mirko Mazziotti, Francesco Palazzi, Gabriella Romani, Marzia Salvi, Marco D’Agostino e Kirill Luchkin.

Tutti sono coloro che hanno fatto da testa di legno risultando titolari delle imprese commerciali sequestrate sempre su ordine del gip D’Alessandro. I sigilli sono stati posti alle societa’ Settesei, Rapanui, Yogusto, Mpm, Dafa, Sand, Kars e le ditte individuali di Mirko Mazziotti e Gabriella Romani. Oltre all’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso il giudice D’Alessandro ha contestatola violazione della legge del ’92 al quale punisce chi ”al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali nella gestione operativa affida in maniera fittizia la titolarità dell’impresa commerciale a persone appositamente scelte” e consapevoli del ruolo assunto.

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