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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

RadioMafiopoli19. Antonio Nicaso: “La regola del magistrato in servizio usata per Gratteri ma non per Mancuso, perché?”

La nuova puntata di RadioMafiopoli è un gioiello a cui tengo moltissimo. Antonio Nicaso è probabilmente lo studioso di ‘ndrangheta che più di tutti mi ha insegnato attraverso i suoi scritti e (soprattutto) attraverso la sua splendente etica e umanità (ah, averne di grandi professori che non siano piccoli uomini…). Abbiamo parlato di ‘ndrangheta internazionale, di cultura, leggi e ovviamente di Nicola Gratteri. Ovviamente perché Antonio Nicaso è grande amico e da anni coautore del magistrato calabrese. L’intervista andrebbe sbobinata per diventare materiale di studio:

Vittorio Mangano: “Era un soldato di Cosa nostra addetto alla sicurezza della famiglia Berlusconi”

“Vittorio Mangano? Altro che stalliere di Arcore! Era un soldato di Cosa nostra addetto alla sicurezza della famiglia Berlusconi“, ha rivelato Di Carlo ai giudici che indagano sulla presunta trattativa tra le istituzioni dello Stato e la criminalità organizzata. 

Francesco Di Carlo ha raccontato ai giudici di un incontro a Milano, nel 1974, tra lui, Marcello Dell’Utri (tra gli imputati del processo), Silvio Berlusconi e i boss Mimmo Teresi e Stefano Bontade. Durante la riunione si sarebbe discusso dei timori di Berlusconi per la sicurezza dei suoi figli. L’imprenditore temeva che potessero essere sequestrati e avrebbe chiesto aiuto ai mafiosi.

Secondo le dichiarazioni del pentito, i boss gli avrebbero garantito la loro protezione. L’incontro, già oggetto del processo per concorso in associazione mafiosa in cui Dell’Utri è stato condannato a 7 anni di reclusione, avrebbe dato il via ai rapporti tra l’ex premier e Cosa nostra. Bontade e Teresi avrebbero anche chiesto a Berlusconi di costruire a Palermo, ma lui avrebbe declinato l’invito.

Per garantire l’imprenditore Cosa nostra avrebbe mandato nella sua villa di Arcore Mangano. In cambio i capimafia avrebbero avuto da Berlusconi 100 milioni di vecchie lire. Il pentito ha anche parlato di investimenti di mafiosi in una società milanese. Bontade avrebbe raccolto quote dagli uomini d’onore per circa 10 miliardi di lire.

Processo Crimine: pene confermate in appello

Anche in Appello è stata riconosciuta la natura unitaria della ‘ndrangheta. Si è concluso nel tardo pomeriggio, in aula bunker a Reggio Calabria, il processo “Crimine” che vedeva alla sbarra 124 imputati arrestati nella maxi-operazione scattata nel luglio 2010 quando i carabinieri hanno stroncato i vertici delle famiglie mafiose della provincia reggina. Un’inchiesta legata all’indagine milanese “Infinito” che ha aperto uno squarcio sugli interessi della ‘ndrangheta in Lombardia.

Complessivamente il Tribunale di Reggio Calabria, presieduto dal giudice Rosalia Gaeta, ha inflitto96 condanne e 28 assoluzioni. È stato condannato a 10 anni di carcere anche l’anziano boss Domenico Oppedisano, 84 anni, ritenuto il “Capo crimine”. Soddisfatto, al termine della lettura del dispositivo di sentenza, il procuratore Federico Cafiero De Raho secondo il quale “questo è il procedimento che ha affermato l’unitarietà della ‘ndrangheta e ha tenuto sia in primo che in secondo grado. Si tratta di un’impostazione che in passato non è stata unanimemente condivisa, ma a partire da oggi si può dire che esiste una base giurisdizionale da cui partire, per cui non possiamo che definirla un successo”. “In Appello – ha aggiunto il procuratore – mantenere pene della stessa consistenza e in qualche caso riuscire anche ad aumentarle vuol dire che esistevano reali motivi di doglianza nei confronti della sentenza di primo grado”.

Con l’inchiesta Crimine il procuratore aggiunto Gratteri e i sostituti Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò hanno svelato l’assetto della ‘ndrangheta. Certamente diverso da quello di Cosa Nostra siciliana ma ugualmente articolato. Pur mantenendo una struttura orizzontale, non ci sono più un insieme di cosche, famiglie o ‘ndrine scoordinate e scollegate tra di loro, ma un’organizzazione di “tipo mafioso, segreta, fortemente strutturata su base territoriale, articolata su più livelli e provvista di organismi di vertice”.

Il vertice è rappresentato dalla “Provincia” o “Crimine”, del quale facevano parte le famiglie mafiose dei tre mandamenti (tirrenica, jonica e Reggio Calabria città) all’interno dei quali si muovono i “locali”. Infine, c’è il quarto mandamento, quello della “Lombardia”, che raggruppa tutti i “locali” che operano nella ricca regione del Nord Italia ma che dipendono comunque dalla Calabria dove la ‘ndrangheta è nata e dove si continuano a prendere le decisioni importanti come quella di reprimere nel sangue ogni tentativo autonomista dalla “casa madre”. Proprio come è stato per l’omicidio del boss Nunzio Novella, ucciso per le sue velleità separatiste.

Ritornando a don Mico Oppedisano, l’anziano non era certamente un capo assoluto della ‘ndrangheta. Era stato nominato “capo-crimine” nel settembre del 2009, in occasione della festa di Polsi, ma non poteva prendere decisioni autonome. Piuttosto era una figura “super partes” individuata anche in base all’età e all’esperienza. A lui, in sostanza, sarebbe spettato il compito di dirimere i contrasti che potevano sorgere tra le cosche mafiose. Mantenere quell’equilibrio labile che ha portato la ‘ndrangheta ad essere l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo, leader del narcotraffico internazionale.

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La dittatura della maggioranza

La chiama così Peter Gomez nel suo editoriale circa l’espulsione dei quattro portavoce del Movimento 5 Stelle:

A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di La Democrazia in America di Alexis de Toqueville. Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari. E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare.

Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s. Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo. Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: “La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto”.

Oggi invece dobbiamo constatare che la libertà di parola nel Movimento 5 Stelle è minacciata e offesa da una brutta voglia di unanimismoDalla decisione di far votare gli aderenti 5 Stelle non sulla violazione di una norma del non statuto o del codice di comportamento parlamentare, ma su una critica al Capo, o se preferite al Megafono. Discutere se i senatori avessero ragione o torto nel prendere posizione contro le modalità con cui Grillo ha deciso di strapazzare Matteo Renzi in diretta streaming – sbattendogli peraltro in faccia molte verità difficili da contestare – non ha infatti senso. Il dato importante è uno solo: non esisteva alcuna regola che impedisse ai senatori di farlo.

Certo, per qualsiasi movimento è fondamentale e giusto apparire unito, evitare, come scrive Alessandro Di Battista, che escano “sistematicamente” e per mesi dichiarazioni pronte “a coprire i messaggi del gruppo” o in contrasto con la linea stabilita. Ma anche se  le cose sono andate così, la questione non cambia di una virgola. Punire qualcuno per dei comportamenti per i quali non sono state previste esplicitamente sanzioni non è solo liberticida. Rappresenta un rischio per tutti: anche per coloro i quali oggi votano a favore dell’espulsione dei dissidenti. Domani, e per un motivo qualsiasi, una nuova maggioranzapotrebbe infatti votare la loro.

Perché aderisco alla lista #Tsipras

La mia intervista a Matteo Marchetti:

Schermata 2014-02-26 alle 11.36.17di Matteo Marchetti

Giulio Cavalli, 36 anni, già consigliere regionale in Lombardia, noto alle cronache per il suo grande impegno antimafia, aderisce all’appello per la lista L’Altra Europa con Tsipras.

«In Italia – ci dice – abbiamo avuto in questi anni una sinistra “diffusa”, ma nel senso più deleterio del termine: incastonata in luoghi diversi, preda di istinti di autoconservazione, incapace di guardare lontano. E invece oggi serve uno sguardo europeo, uno sguardo d’insieme. Questa lista esce dalle logiche di quartiere e porta un approccio finalmente costruttivo sui temi europei».

Votare per l’Altra Europa significa rifiutare sia l’approccio mercatista delle “larghe intese” (Ppe e Pse), sia il populismo dei vari euroscettici, dalla Lega a Forza Italia, al M5S, e dall’Ukip a Le Pen. «Questo progetto rifiuta quel “non c’è alternativa” che ci affligge dai tempi della Thatcher e che è pericolosissimo, perché sclerotizza qualsiasi creazione e creatività politica. Abbiamo bisogno di Europa, ma di un’Europa che non sia solo direttorio finanziario. Ci serve un direttorio sociale, di apertura a nuovi diritti, alla modernità, e che metta in pratica un’economia che sia a misura d’uomo».

A chi, magari per qualche scoria del vecchio “voto utile”, potrebbe preferire il socialdemocratico tedesco Schulz, Cavalli dice: «Non credo che il Pse sia “il male”. Credo però che sia ora di smettere di scegliere il meno peggio, in un continuo ribasso che infliggiamo da soli ai nostri sogni. Schulz è uno che che, semplicemente, segue politiche che non sono le nostre; magari in modo empatico, ma rispetto a noi è un’altra cosa, e le azioni sue e dei suoi compagni di partito in questi anni stanno a testimoniarlo. Tsipras è uno che guarda nella nostra stessa direzione».

In questa Altra Europa, Cavalli ci crede davvero: «Questa lista nasce basandosi sulla fattibilità della speranza. Non siamo nella letteratura, o nell’utopia che poi deve tradursi nella realtà: siamo in una dimensione strettamente politica, ma che si avvicina a quelle che sono da tempo le nostre speranze. Non è vero che “non si può fare”. Votare Tsipras significa finalmente sovvertire il pensiero unico dei liberisti; un pensiero che, purtroppo, in Italia si è impadronito anche di buona parte del centrosinistra».

Un pensiero, in conclusione, a qualche esperienza del passato, magari anch’essa partita bene, ma che ha poi perso lo slancio iniziale: «Bisogna assolutamente evitare che i soliti capibastone cerchino per l’ennesima volta di sfruttare l’occasione per autoperpetuarsi. Negli anni passati altri progetti politici hanno commesso l’errore di propugnare idee nuove affidandole però alle stesse persone che per vent’anni hanno assistito impotenti alla deriva che oggi combattiamo. Per questo sono molto d’accordo con la decisione, in questa prima fase, di escludere dalle liste chi ha già avuto incarichi politici. C’è bisogno di gente nuova. E dico questo ben sapendo di autoescludermi».

Quanto la storia di Cutrò è anche la nostra storia

Un bel pezzo di Mila, da leggere:

Ieri mi sono ritrovata a casa di Ignazio, nella sua cucina, con sua moglie e i suoi due splendidi figli. Leggere dei suoi figli, che hanno dovuto abbandonare gli studi universitari per motivi economici, mi ha fatto saltare dalla sedia e mi ha spinto  a incontrarlo. Possibile che passi questo messaggio terribile e inaccettabile? Che se denuncia la mafia ti rovini? Credo che dobbiamo impedirlo con tutte le nostre forze.  Non ho trovato solo Ignazio, ho trovato una famiglia unita e compatta nella sua battaglia, che è anche la nostra battaglia: quella per l’onestà, la trasparenza, la normalità. Avrei tenuto per me questo ricordo, ma Ignazio vuole sostegno pubblico.

Io non voglio chiamarlo testimone di giustizia, ma servitore di onestà. Lui e la sua famiglia. Sono i suoi figli quelli che non vogliono mollare, non solo Ignazio. Devo ammettere che quest’uomo conquista, eccome se conquista, ma anche la sua famiglia, determinati, ostinati, ma in una pacatezza che solo l’affetto e l’unità possono trasmettere. Come posso io parlare di valori ai miei alunni senza da oggi far riferimento anche ai Cutrò? Mi renderanno tutto più facile, molto più semplice spiegare cosa siano il coraggio, l’onestà, il sacrificare il proprio ai valori. Ecco cosa vorrei dire a Ignazio, grazie, perchè alla fine è stato più il calore che ho ricevuto da loro che viceversa.

Se ci sono persone così possiamo vincere tutte le battaglie. Da siciliana e cittadina la mia solidarietà Ignazio ce l’ha da anni, da militante e dirigente politica il mio grazie, anche quello lo ha da anni. Da insegnante che racconta ai suoi alunni la sua storia, non ne parliamo. Perché sono gli esempi di onestà quelli che cambiano il costume sociale, e che indicano la via ai ragazzi, ai giovani, a tutti. Pertini diceva che ai giovani servono esempi, non sermoni. Ma da neo vicesegretario del PD è l’onere della risposta quello che devo a quest’uomo che ha rischiato tutto  e rischia ancora per essere onesto.

Il piccolo Di Matteo ha avuto giustizia

Certo non rende più lieve la morte ma almeno consegna nomi da tenere a mente. Nomi, cognomi e infami, appunto.

Palermo, 25 feb.- (Adnkronos) – Diventano definitive le condanne all’ergastolo per il boss mafioso di Brancaccio Giuseppe Graviano e Salvatore Benigno, accusati del sequestro e dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito il 23 novembre 1993 e strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di agonia, l’11 gennaio 1996. Questa sera la Corte di Cassazione ha confermato le condanne a vita emesse un anno fa dalla Corte d’assise d’appello di Palermo. Gli esecutori materiali del delitto furono Vincenzo Chiodo, Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo, come ammesso dagli stessi ex picciotti oggi collaboratori di giustizia. Per l’omicidio del piccolo Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo i boss Leoluca Bagarella e Gaspare Spatuzza. Nel marzo del 2013 furono condannati in appello anche Luigi Giacalone, Francesco Giuliano e il boss latitante trapanese Matteo Messina Denaro. Ma solo Graviano e Benigno hanno fatto ricorso alla Cassazione che oggi si e’ espressa. Secondo i pentiti il bambino sarebbe stato ucciso per ‘punire’ il padre, il pentito Santino Di Matteo.

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Scontri tra ego

Ci lamentiamo degli scontri tra ego tra teatranti o tra antimafiosi ma il duello innescato da Scanzi ci batte tutti. Chapeau, eh.

 

Antiriciclaggio: sono d’accordo con AIRA

Una riflessione che condivido contro l’autoriciclaggio la propone Ranieri Ruzzante e, tra l’altro, “ce lo chiede l’Europa”:

L’appello del Procuratore Nazionale Antimafia merita non solo di essere raccolto ma, ove possibile, rilanciato. Le imprese possono essere vittime della mafia, ma essere altresì “della mafia”.

Ecco allora che si rende quanto mai necessario ciò che Aira propose ormai tre anni or sono nel suo “Libro Bianco sull’attuazione delle regole antiriciclaggio“. Urge una modifica alla legge antiriciclaggio che assoggetti le imprese commerciali di una certa entità agli obblighi di identificazione e registrazione della clientela. Sono convinto che le società quotate dovrebbero rientrare tra i soggetti obbligati al rispetto dei principi della Legge 231 del 2007. Ma come tutto questo? Ad esempio, identificando una soglia di fatturato (un milione di euro annui) e di attivi di bilancio (almeno 10 milioni annui) si potrebbero tracciare i rapporti con clientela e operazioni in entrata e in uscita con fornitori e clienti per importi pari o superiori ai 15 mila euro”.

Tutto ciò è necessario al fine di tutelare maggiormente le aziende che, sempre di più sono oggetto di “shopping” da parte di associazioni mafiose. E’ un rapporto perverso quello tra finanza lecita e criminalità organizzata: la crisi ha indebolito le aziende che, sole nella gestione del business appaiono inermi di fronte ad un fenomeno sempre più diffuso come quello di investimenti da parte di malavita. Sarebbe opportuno intensificare la presenza dello Stato attraverso un maggiore conferimento di poteri di polizia amministrativa e giudiziaria ai funzionari preposti al controllo. L’incentivo ad agire secondo le regole di mercato può arrivare sia da una maggiore presenza dello Stato, che spesso non ha risorse adeguate per proteggere gli imprenditori onesti, che dalla stessa collettività, indispensabile nel collaborare con le forze dell’ordine al fine di “ far rete” con i soggetti attrezzati al monitoraggio per operazioni finanziarie e commerciali che quotidianamente vengono poste in essere nel nostro Paese.