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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Sulla mancata nomina di Gratteri

Ne ho scritto per nel mio sito per L’Espresso qui. Se vi interessa.

Per ora voglio limitarmi alla questione mafie e giustizia, quindi il nuovo Ministro della Giustizia. Non tanto quello che ne è uscito nominato (questo Andrea Orlando che in tempi recenti si dichiarava favorevole all’abolizione del 41 bis) ma soprattutto l’escluso dell’ultimo minuto: Nicola Gratteri.

Secondo le indiscrezioni (ma non sono semplici indiscrezioni poiché ne parla anche lo scrittore Antonio Nicaso, intimo amico di Gratteri) il Presidente Napolitano avrebbe posto il veto sulla nomina del magistrato simbolo della lotta alla ‘ndrangheta appellandosi ad una legge “non scritta” (un Presidente della Repubblica con un neo Presidente del Consiglio, tutti e due, chini sul tavolo a discutere di leggi non scritte, capite? Come un convegno di medici che litigano sul rimedio della nonna, per dire) secondo cui un magistrato non potrebbe andare a quel ministero. L’invasione di campo di Napolitano ancora una volta (l’ennesima) non è semplicemente politica ma addirittura intellettuale: sceglie per noi (e per Renzi) le consuetudini da rispettare come legge.

Continua qui.

La bellezza secondo Peppino Impastato

Un pezzo da antologia del compagno di Peppino, Salvo Vitale:

L’altra sera Al festival di Sanremo, Luca Zingaretti ha ricordato Peppino Impastato ed ha citato una frase che si continua ad attribuire a Peppino ma che lui non ha mai detto. Già due imprenditori ne hanno fatto uno spot pubblicitario per sponsorizzare la vendita di una marca d’occhiali, arrangiando e rielaborando la frase. La commercializzazione del nome di Peppino ha fatto scattare una raccolta di firme, per il ritiro dello spot, che è già arrivata a 65.000 adesioni, al punto che, gli autori, hanno deciso di ritirare la trovata pubblicitaria. In tal senso uno di loro sarà a Cinisi il 7 marzo, nel corso di un’iniziativa per fare il punto sull’antimafia sociale oggi e su quanto è commercializzabile al fine di creare un’economia diversa da quella mafiosa. Zingaretti ha usato la versione “commercializzata” e non quella originale.

E’ il caso di rileggere interamente il dialogo che Peppino e Salvo (cioè io), dall’alto di Monte Pecoraro, fanno, guardando l’aeroporto di Punta Raisi, dopo la costruzione della terza pista:

PEPPINO: Sai cosa penso?
SALVO : Cosa?
PEPPINO: Che questa pista in fondo non è brutta. Anzi
SALVO [ride]: Ma che dici?!
PEPPINO: Vista così, dall’alto … [guardandosi intorno sale qua e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre … che è ancora più forte dell’uomo. Invece non è così. .. in fondo le cose, anche le peggiori, una volta fatte … poi trovano una logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere! Fanno ‘ste case schifose, con le finestre di alluminio, i balconcini … mI segui?
SALVO: Ti sto seguendo
PEPPINO:… Senza intonaco, i muri di mattoni vivi … la gente ci va ad abitare, ci mette le tendine, i gerani, la biancheria appesa, la televisione … e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio, c’è, esiste … nessuno si ricorda più di com’era prima. Non ci vuole niente a distruggerla la bellezza …
SALVO: E allora?
PEPPINO: E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte ‘ste fesserie … bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?
SALVO: ( perplesso) La bellezza…
PEPPINO: Sì, la bellezza. È importante la bellezza. Da quella scende giù tutto il resto.
SALVO: Oh, ti sei innamorato anche tu, come tuo fratello?
A conclusione del dialogo:
PEPPINO: Io la invidio questa normalità. Io non ci riuscirei ad essere così…

Andiamo invece a leggere lo slogan elaborato da due imprenditori, per pubblicizzare la propria marca d’occhiali:

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. Lo slogan si chiude con la postilla: da un’esortazione alla bellezza di Peppino Impastato.

La frase è ben costruita, recitata in modo aggressivo, all’interno di un video con immagini efficaci sul degrado causato dalla civiltà del cemento. La “furbata”, o, se si preferisce, il colpo d’ala, sta tutto in quel “da”, che giustifica la rielaborazione di quanto presente ne “I cento passi” e il suo libero riutilizzo. Va puntualizzato che, quella del film non è una “esortazione alla bellezza ” e non è, una poesia. Ma non è nemmeno una frase di Peppino Impastato o a lui attribuibile. Posso tranquillamente dichiarare di non avere mai avuto con Peppino alcun discorso di questo tipo. Si tratta di considerazioni che gli autori della sceneggiatura del film, cioè Marco Tullio Giordana, Claudio Fava e Monica Zapelli, mettono in bocca a Peppino e a Salvo nel contesto di un discorso che, nel film, ritorna anche nella scena famosa dei cento passi:

“Cento passi ci vogliono da casa nostra, cento passi. Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar…alla fine ti sembrano come te: salutamu don Tanu, salutamu Giuvanni, salutamu Pippinu…… Io voglio fottermene…..noi ci dobbiamo ribellare, prima che sia troppo tardi, prima di abituarci alle loro facce, prima di non accorgerci più di niente”.

E’ un contesto in cui lotta alla mafia diventa lotta contro l’abitudine, contro l’assuefazione, contro l’omologazione, ovvero contro quella “normalità” in cui Peppino non riesce ad entrare. Nulla a che fare con il deformante messaggio comunicato dallo spot, secondo il quale un occhiale è lo strumento per vedere le cose nella loro giusta dimensione, quella della bellezza: se si tratta di un occhiale da vista esso restituirà la visione, più o meno corretta, della bruttezza realizzata dagli uomini, se di un occhiale da sole, esso offrirà particolari caratteristiche, cromatiche o di prospettiva all’interno della visione: ma anche in tal caso non è detto che la colorazione si configuri come bellezza, anzi, sembra essere un veicolo dell’inganno.

‘Ste fesserie…”

“ E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte ‘ste fesserie … bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?”
In questo passaggio Peppino, anzi, chi parla per lui, pone un problema di fondo, ovvero quello del primato della bellezza sulla politica e sulla lotta di classe. Era questo il suo pensiero? Non credo. Per dei marxisti ortodossi come lo eravamo, lo strumento fondamentale che muove la storia è l’economia con le sue spietate leggi, la struttura, rispetto alla quale le altre cose, a cominciare dalla bellezza, dalla morale, dalle leggi, dalla religione, dalla cultura, sono sovrastrutture, cioè conseguenze, spesso inevitabili, della struttura di fondo. Il conseguimento di una dimensione compiuta dell’uomo è la inevitabile conseguenza di un momento di rottura degli equilibri del sistema, la lotta di classe, la mitica rivoluzione. Dopo, all’interno di una palingenesi dell’umanità, di una nuova fase senza disuguaglianze, all’interno di una società “in comune”, cioè comunista, si potranno leggere sullo sfondo dimensioni di bellezza e di serenità. Anticipare la fruizione della bellezza all’interno di un sistema brutale, come quello capitalistico, significa avallare strategie e strumenti che tendono a giustificarlo, a legittimarlo, a salvarlo. Non si tratta, quindi, di “fesserie”.

Quindi non c’è la volontà di far veicolare, in qualsiasi modo, il messaggio sulla bellezza, ma di usare il nome di Peppino in modo distorto e surrettizio, per attribuirgli una cosa che non ha mai detto e sulla quale pensiamo avrebbe avanzato seri dubbi. Ben più grave l’atto di una panineria austriaca che, alcuni mesi fa, ha messo in commercio una serie di panini dedicati a mafiosi o a vittime della mafia: nel panino “Don Peppino” si leggeva: “Siciliano dalla bocca larga fu cotto in una bomba come un pollo nel barbecue”. Per il resto non è il caso di gridare allo scandalo: oggi la commercializzazione di una frase, dell’immagine di un uomo illustre, del luogo in cui è vissuto, di qualcosa che gli è appartenuto, è una delle tante aberrazioni di una civiltà che, pur di venderti qualcosa, pur di conquistare un mercato, pur di stupire, è capace di truccare qualsiasi realtà per riproporla nel modo più suadente possibile, sino all’iperbole. E del resto, a voler sottilizzare, diventerebbero elementi di commercializzazione anche il film “I cento passi”, anche il vino con lo stesso nome, messo in vendita dalla cooperativa “Placido Rizzotto” di Corleone, che ha dato il nome di questo sindacalista a un altro vino, addirittura anche i miei libri su Peppino. Il muro divisorio potrebbe essere soltanto nel voler fare antimafia, ove ci sia questa intenzione, o nel voler far solo soldi.

Solo l’inizio di Michela

Ho voluto aspettare ad esprimermi sul risultato di Sardegna Possibile (la coalizione giurata da Michela Murgia che si è presentata alle ultime regionali) perché volevo approfondire con alcuni amici sardi e aspettare l’analisi di Michela. Ritenere il 10% dei voti (vero anche con un’astensione altissima) un fallimento politico (tra l’altro con una legge elettorale porcata dell’isola sarda che lascia senza rappresentanza settantaseimila sardi) è ingiusto e miope. E infatti Michela nel suo blog valuta punto per punto lo spessore del risultato e, al solito, chiude con un’affermazione così poco frequente tra i nostri politici:

Il co­mi­ta­to po­li­ti­co che ha gui­da­to il per­cor­so di co­sti­tu­zio­ne e l’av­ven­tu­ra elet­to­ra­le di Sar­de­gna Pos­si­bi­le si riu­ni­sce do­ma­ni ad Ori­sta­no per chiu­de­re la fase delle urne e di­chia­ra­re de­fi­ni­ti­va­men­te aper­ta quel­la suc­ces­si­va, che ci vedrà pre­sen­ti e pro­ta­go­ni­sti nei ter­ri­to­ri come ab­bia­mo di­mo­stra­to di saper es­se­re in que­sti mesi. Io re­ste­rò dove ho pro­mes­so di es­se­re: alla guida di que­sto pro­ces­so. Ho ri­fiu­ta­to in que­sti gior­ni le of­fer­te di can­di­da­tu­ra alle eu­ro­pee in due liste dif­fe­ren­ti, una delle quali è la lista Tsi­pras, ispi­ra­ta alla vi­sio­ne e al­l’o­pe­ra­to del gio­va­ne lea­der greco del par­ti­to Sy­ri­za. L’ho fatto per­chè la mia mi­li­tan­za in Pro­gres mi ha con­fer­ma­to il va­lo­re delle lea­der­ship col­let­ti­ve e per que­sto ri­ten­go che ver­ti­ca­liz­za­re l’e­spe­rien­za di Sar­de­gna Pos­si­bi­le sulla mia per­so­na sia con­tra­rio allo spi­ri­to con cui io stes­sa mi sono messa a ser­vi­zio. L’o­riz­zon­te pri­ma­rio della mia azio­ne po­li­ti­ca resta la Sar­de­gna, la fi­du­cia di 76­mi­la sardi e la mi­li­tan­za delle cen­ti­na­ia di vo­lon­ta­ri che in que­sti mesi si sono sen­ti­ti parte di un sogno e ora vo­glio­no ve­der­lo di­ven­ta­re real­tà.
Loro ci sono e ci sono anche io.
La pros­si­ma tappa sono i co­mu­ni.

L’abbandono della Fiat visto dalla Germania

In Germania scrivono della Fiat che abbandona l’Italia e ne scrivono così. Tanti per dire il titolo dell’articolo è “La fiat abbandona l’Italia, ma questo non interessa quasi a nessuno”:

La fiat abbandona l’Italia, ma questo non interessa quasi a nessuno. Cosa succederebbe invece negli Stati Uniti se la General Eletric trasferisse la sua Sede in Olanda, o come reagirebbe la Gran Bretagna se Vodafone traslocasse a Zurigo, si chiede il piccolo giornale di intellettuali della destra „Il Foglio“. L’approccio pragmatico degli anglosassoni condurrebbe a meditare su ciò che manca al loro Paese e quale fascino verso l’estero abbia subito un Gruppo cosí grande, fino ad abbandonarlo. In un tale Paese, senz’altro verrebbe subito promulagata una legge con il fine di trattenere Gruppi economici in Patria, affinché desistano dal delocalizzare. La decisione della FIAT rappresenta „uno schiaffo dell’economia globale all’interpretazione italiana della modernità“, recita il piccolo quotidiano, che viene finanziato tra l’altro anche da Silvio Berlusconi, che in economia politica non ha mai avuto la sufficienza.

Il dibattito politico italiano ritorna subito ad occuparsi delle faccende minuscole, di cui si compone la politica a Roma. La FIAT inoltre aveva precedentemente intrapreso molto per tranquillizare gli italiani. Il giorno prima della comunicazione ufficiale circa la decisione di trasferire la sede legale del Gruppo, dopo la fusione con la Chrysler, in Olanda e la sede amministrativa in Gran Bretagna, il presidente della FIAT, John Elkann, insieme al suo amministratore delegato Sergio Marchionne, hanno reso visita al Presidente del Consiglio dei Ministri, per aggiornarlo in termini informali dei futuri sviluppi. Elkann, l’erede degli Agnelli, si é fatto intervistare dal gazzettino di corte, e con toni tranquillizanti ha garantito personalmente: “Il mio ufficio rimarrà a Torino” . È infatti previsto di riattivare quelle fabbriche giá smantellate in Italia, e che Torino rimarrá la centrale europea. Il governo comunque non si muove.

I sindacati si lamentano come sempre della cassa integrazione a zero ore, ripetutamente applicata nelle quattro fabbriche della FIAT attualmente operanti in Italia; rammentano inoltre a Marchionne le sue promesse di effettuare investimenti, espresse nel lontano 2010 ma rimandate a causa della crisi economica e del comportamento non cooperativo da parte dei sindacati. Gli appelli al governo ricalcano schemi degli anni settanta e ottanta, e si limitano a richiedere che la FIAT venga convocata ad una tavola rotonda. Il governo presieduto da Enrico Letta non si è finora mosso. Inconsueto però è stato il commento minaccioso del Direttore delle Entrate e della Riscossione, Attilio Befera, che annunciava di verificare attentamente tale operazione di trasferimento della Sede legale in Olanda e fiscale in Gran Bretagna. E questo potrebbe significare grossi problemi per il Gruppo. Infatti, come in altri diversi casi analoghi, verrebbe richiesto alla FIAT di tassare l’intera plusvalenza accumulata nella vecchia Sede di Torino, al momento del trasferimento, comprese le licenze che si sono formate nel tempo grazie a ricerca e sviluppo italiani e che ora vengono sfruttate all’estero per la costruzione e la vendita dei marchi e dei modelli creati in Italia.

Un capitano d’industria di lungo corso, dirigente di imprese con migliaia di lavoratori, è invece dell’opinione che finalmente si avvera il vecchio sogno degli Agnelli: scappare da Torino! Grazie alla fusione di FIAT con la Chrysler, e quindi il trasloco all’estero, si é reso possibile l’abbandono di questo sistema economico italiano, vecchio ed incrostato, giá ripugnato dall’ ”Avvocato” Giovanni Agnelli. Che non si alzino proteste in Italia non sorprende nessuno: “la gente giá é al corrente del perché la FIAT si é cosí decisa” . Essa ha investito miliardi nelle fabbriche sul territorio italiano ed ancora si sente ancorata a questa terra. “peró attualmente tutti quanti voglio scappare” – é il giudizio del direttore di punta italiano. “L’Italia é mummificata, ostile all’imprenditoria; le imprese vengono terrorizzate in tante maniere, é tutto molto difficile, ed al di fuori dell’azienda praticamente non funziona niente” La conclusione dunque è annientante: “ Il sistema italia é cosí dispendioso, che ogni impresa é in perdita ancora prima di iniziare a lavorare “ Simili giudizi si sentono spesso negli ambienti economici. Ma quasi nessuno ha il coraggio di esprimere la propria opinione di fronte allle telecamere, indicando il nome e la propria funzione. È inoltre impressionante come l’opinione pubblica abbia trattato il capo della FIAT e Chrysler durante gli ultimi anni. Esso ha ripetutamente e apertamente evidenziato la carenza di competitivitá e un ambiente ostile all’imprenditoria in Italia. Marchionne è invece sempre stato considerato un orco cattivo, fino a che non ha iniziato a comportarsi, negli ultimi mesi, in modo compito e diplomatico, stile che appunto viene meglio apprezzato in Italia

L’occupazione nel territorio viene ridotta

Per diversi imprenditori e direttori di alto livello non era stato necessario osservare il destino orribile di Marchionne al fine di orientarsi adeguatamente. Le decisioni sugli investimenti all’estero vengono infatti prese cautamente e in tutto silenzio. Numerose imprese evitano di indicare nei loro bilanci ufficiali ovvero nei prospetti pubblici lo sviluppo dell’occupazione nelle loro unitá all’estero. Uno studio di questo quotidiano evidenzia invece che da anni le imprese più importanti, quotate in borsa, si orientano verso l’estero e tendenzialmente riducono l’occupazione nelle loro aziende sul territorio italiano. Proprio la FIAT ha mantenuto costante la sua forza lavoro in Italia, sulla carta, poirché i lavoratori in cassa integrazione vengono annoverati ufficialmente tra gli occupati.Pur nel breve periodo tra il 2008 e il 2012 si registra un incremento dell’occupazione all’estero e una sua diminuzione sul territorio italiano, in capo a numerose imprese. Ciò riguarda persino i gruppi industriali controllati dallo Stato, come eni e enel. Anche gruppi privati di comprovato successo come Luxottica e Pirelli hanno diminuito l’organico italiano ed assunto migliaia di lavoratori all’estero. Delle 35 imprese industriali quotate nell’indice standard FTSE mib e nell’indice della media impresa FTSE mid cap, 14 hanno ridotto il personale in Italia, solo sei hanno incrementato il loro organico. All’estero, il numero dei dipendenti di 25 imprese é cresciuto. Nel totale, l’occupazione all’estero dell’imprenditoria italiana é aumentata di 80.000 unitá. Complessivamente, la quota di occupazione all’estero é aumentata per 28 delle 35 imprese industriali. Tale quota ammontava nel 2012, per 10 di queste imprese, a più dell’80 per cento, per ulteriori undici imprese al 60 per cento. Nello stesso periodo, tra il 2008 e il 2012, in Germania i bilanci consolidati della Volkswagen, compresa Porsche, evidenziano un aumento dell’organico di 50 mila unitá, seppur anche un aumento della quota dei dipendenti all’estero dal 50,2 al 55,6 per cento. La Siemens ha complessivamente ridotto il personale dipendente e la quota degli occupati all’estero é diminuita dal 68 al 67 per cento.

“Non vengono trasferiti direttamente posti di lavoro all’estero”

La questione se un aumento dell’occupazione all’estero sia da valutare positivamente o in termini negativi ha mobilitato l’opinione pubblica italiana negli anni passati, quando numerosi piccoli imprenditori hanno delocalizzato le loro attivitá in Romania. Da allora, gli imprenditori italiani distinguono tra “emigrazione” e la piú apprezzata “internazionalizzazione” . In seguito all’apertura di ben cinque fabbriche, tutte all’estero, in due anni il produttore di freni Brembo ha marcato una poderosa crescita nei mercati internazionali. Il presidente del Gruppo, Alberto Bombassei, rileva principalmente la necessitá di servire la clientela dove essa si trova, producendo appunto in loco, cioè in Cina, negli Stati Uniti, in Polonia o nella Repubblica Ceca. Anche per esso, paladino degli investimenti all’estero, la situazione é ben delineata: non é possibile mantenere competitivitá in un mercato internazionale se la produzione avviene solo in Italia. “Non vengono trasferiti direttamente posti di lavoro all’estero”, giudica Bombassei, ed aggiunge che anche la FIAT ha trasferito la produzione della piccola “panda” dalla Polonia a Napoli. Che purtroppo l’occupazione diminuisca in Italia ma aumenti all’estero, viene ammesso anche da Bombassei. “La questione é rappresentata dalla difficile congiuntura nel mercato domestico e la carenza di competitivitá che dura da 30 anni”. “Determinante non é solo il numero di dipendenti, bensí anche la loro qualifica professionale e la loro retribuzione” dichiara Gianfelice Rocca, Presidente della Confindustria lombarda e patron del Gruppo tecnologico Techint. La globalizzazione può essere interpretata come l’impiego di manodopera poco qualificata all’estero, mentre ricerca, sviluppo e pianificazione aziendale rimangono in Italia, secondo l’opinione di Rocca. L’Italia peró non sembra abbastanza flessibile da mantenere in carico lavoratori poco qualificati il piú a lungo possibile, ma neppure sa sfruttare le opportunitá della ripartizione dell’occupazione piú e meno qualificata, all’interno di un Gruppo, in un contesto globalizzato.  In riferimento alla FIAT, la questione piú importante, piuttosto che il trasferimento di sede amministrativa o legale, è dove in futuro le autovetture verranno progettate: a Torino ovvero a Detroit.

Tali argomentazioni sembrano essere troppo complesse per il dibattito che attualmente avviene nell’opinione pubblica italiana. Qui i sindacati e i lavoratori attualmente combattono contro la chiusura di una delle quattro fabbriche del Gruppo svedese Electrolux e contro la riduzione dei salari. Contemporaneamente il Presidente della Confindustria mette in guardia di fronte al pericolo che senza una modifica di rotta, in Italia si allargherà la desertificazione industriale. Ma tali rituali senza alcun esito si ripetono da tempo in Italia.

[Articolo originale “Fiat geht weg – und keinen interessiert’s” di Tobias Piller] 

[Traduzione di Italia dall’Estero]

Vicini ad Ignazio Cutrò

ignazio-cutroC’è qualcosa che sfugge a molti commentatori nella vicenda di Ignazio Cutrò, testimone di giustizia che si è rifiutato di pagare il pizzo e ha permesso di mettere alla sbarra umori di mafia nell’agrigentino, che decide di vendere tutta la sua “roba” perché impossibilitato a continuare a vivere senza i soldi nemmeno per pagare gli studi ai propri figli: l’inumanità della politica.
Andiamo con ordine: i testimoni di giustizia in Italia sono un tesoro di valenza giuridica (permettono insomma di arrestare i mafiosi) e soprattutto una valenza simbolica (dovrebbero dimostrare che lo Stato premia chi difende la legalità e riesce a proteggerlo). La storia di Cutrò è fresca e visibile ma sono in molti i testimoni di giustizia che sotto traccia sono ai margini della povertà o al confine dell’instabilità psicologica, come ci ha raccontato molto bene una puntata di Presadiretta non molto tempo fa e siamo in moltissimi che da anni cercano di raccontare le falle di un sistema che non riesce a difendere e sostenere le proprie persone migliori.
Continua sul mio blog “Lo scassaminchia” per L’Espresso con cui inizio la mia collaborazione. E il titolo del blog dice tutto, no?

Ha parlato Spatuzza: quando Ostia era Cosa Nostra

Ne parlavamo ieri. E oggi stiamo sul pezzo:

L’uomo che ha demolito le sentenze sulla strage di via d’Amelio torna a parlare della mafia a Roma. Gaspare Spatuzza racconta di quando a Ostia, sul litorale, comandavano i clan Triassi e Fasciani, che “avevano il paese nelle loro mani”. Boss locali legati alle potenti famiglie mafiose siciliane Cuntrera-Caruana. Vicende degli anni ’90 ma per gli inquirenti ancora attuali, raccontate dal pentito al processo scaturito da decine di arresti compiuti a luglio dello scorso anno. Una clamorosa operazione di polizia contro la mafia nella capitale. Spatuzza, ‘u tignusu’ (il pelato), che ha riscritto con le sue rivelazioni la storia dell’eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta, parla di un periodo in cui era ancora libero (è in carcere dal ’97). L’ex mafioso risponde in video conferenza al pm della procura di Roma Ilaria Calò e dice che “sul litorale romano comandavano loro, avevano il paese di Ostia nelle loro mani”. “Dalla Sicilia, nel 1995, in qualità di reggente e capo del mandamento di Brancaccio, mi mandarono per una missione di morte al fine di scovare e uccidere pentiti di mafia – racconta Spatuzza, tra i massimi responsabili degli attentati del ’93 a Firenze, Roma e Milano -. Arrivato a Roma incontrai un corleonese trapiantato nella capitale che mi confermò che i Triassi ad Ostia erano i padroni e che andavano eliminati. Chiesi consiglio ad un’altra persona e decisi di non fare nulla perché capii che il clan Caruana-Cuntrera, cui erano legati i Triassi, era troppo potente”. Un potere che secondo gli investigatori si sarebbe conservato fino ad oggi, tra usura, gioco d’azzardo, traffico di droga e di armi. Secondo la Procura, tra i Triassi e il clan Fasciani venne siglato, anni dopo, un accordo di non belligeranza per la spartizione degli affari nella zona del litorale. Un accordo che sarebbe durato due decenni. L’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia (Dda) capitolina ha portato all’arresto, nel luglio scorso, di 51 persone tra le quali i capi famiglia Carmine Fasciani e Vincenzo Triassi. Nel processo sono 52 gli imputati, accusati di numerosi reati tra cui l’associazione mafiosa. Tra loro l’intera famiglia-holding dei Fasciani, il capo del clan Carmine, i fratelli Nazzareno, Giuseppe e Terenzio, nonchè Vincenzo e Vito Triassi e Francesco D’Agati, esponente dell’omonimo clan.
Vincenzo Triassi é stato arrestato in Spagna ed estradato ad agosto dell’anno scorso. Per i pm e la squadra mobile c’era una ‘cupola’ mafiosa a controllare il territorio, a Ostia ma non solo. E le parole di Spatuzza sembrano oggi avvalorarne quanto meno la genesi, 20 anni fa.

(ANSA)

La prima pagina sparita

Volevano farla sparire e ora ne parlano tutti. Geni.

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«Il cinghiale quando viene ferito ammazza tutti… ». Se pensavano di convincerlo con quella metafora minacciosa urlata in piena notte al telefono prima dell’improvviso guasto alle rotative hanno fatto male i loro conti. Perché il “cinghiale” non solo non ha fermato la notizia ma è diventato anche il titolo dell’editoriale del giorno dopo: “La censura e l’era del cinghiale”.

Luciano Regolo, giornalista calabrese tornato nella sua terra da due mesi per dirigere il quotidiano “L’ora della Calabria”, quella censura praticata con le maniere forti da “amici” del senatore Antonio Gentile, uno degli aspiranti alle poltrone di sottosegretario per l’Ncd di Angelino Alfano, non ha nessuna intenzione di subirla.

«Intanto, quella prima pagina del giornale che sono riusciti a bloccare martedì, è uscita regolarmente il giorno dopo. E se volevano farci tacere sullo scandalo dell’Asp che coinvolge il figlio del senatore Gentile hanno ottenuto l’effetto opposto: abbiamo tenuto una conferenza stampa visibile a tutti sul nostro sito e sono pronto ad andare in Procura con registrazioni e documenti. Quella che ci è capitata è davvero una brutta storia e, soprattutto in una terra come la Calabria, la paura genera paralisi. Per questo spero davvero che la Procura mi chiami».

Direttore, cosa vuole denunciare?
«Minacce e un tentativo di censura, respinte al mittente, che sono sfociati nel “provvidenziale” guasto alle rotative che ha impedito martedì l’uscita del mio giornale. Per evitare la pubblicazione di una notizia che avrebbe dato fastidio alla famiglia del senatore Gentile: il coinvolgimento di suo figlio Andrea in un’inchiesta sul direttore generale dell’Asp di Cosenza, Gianfranco Scarpelli, fedelissimo di Gentile, interdetto dai pubblici uffici per aver distribuito, evidentemente in maniera illegittima, incarichi legali per 900.000 euro».

Chi le ha chiesto di non pubblicare questa storia?
«Prima il mio editore, Alfredo Citrigno. Un giovane editore, 30enne, che in due mesi di direzione non ha mai operato alcuna forma di condizionamento nei miei confronti. Era preoccupato, mi ha chiesto se dovevamo pubblicare “per forza” quell’articolo, se avessimo tutte le prove, diceva che nessun altro sito l’aveva pubblicata. Eravamo insieme in macchina quando ha ricevuto una chiamata al cellulare da parte dello stampatore, Umberto De Rose.

Il telefono era in viva voce e ho sentito tutto. Ponendosi come “mediatore” della famiglia Gentile ha cominciato a pretendere che il pezzo non uscisse. “Chiama sto Regolo e ferma tutto. Vedi che Tonino Gentile può diventare sottosegretario alla Giustizia e se vede che solo tu pubblichi questa notizia qualche danno te lo fa. Il cinghiale quando viene ferito ammazza tutti…».

E lei ha resistito.
«Certo, ci mancherebbe. Ho salutato l’editore dicendo che non avrei toccato nulla. Poi alle due di notte lo stampatore ha chiamato in redazione dicendo che c’era un guasto alla rotativa e il giornale non sarebbe uscito».

E gli altri? Qualcun altro ha pubblicato questa notizia?
«Solo il sito de “Il Corriere della Calabria”. Il “Quotidiano” non ha pubblicato nulla e la Gazzetta del Sud ha dedicato ad Andrea Gentile solo un passaggio sfumato. D’altronde lo stampatore diceva che Gentile “aveva avuto la certezza al cento per cento che nessuno sarebbe uscito”».

Lo stampatore nega, Gentile si dice totalmente estraneo al tentativo di censura e minaccia querele.
«Ripeto, spero che mi chiamino in Procura. Ho tutte le prove. È un’azione intollerabile in un paese libero. E credo che un senatore dovrebbe difendere la libertà di stampa. O no?».

(click)

La cultura

Direi che è quella dimensione astratta (nel senso che astrae dagli individui) ma al tempo stesso molto concreta nella quale tutti noi ci riconosciamo. La cultura dà una risposta alla domanda: come riusciamo a costruire una società fra migliaia, fra milioni, di individui che non si sono mai incontrati in vita loro? Come si fa a “far società” senza neppure conoscersi? Formiamo una società perché, pur non “conoscendosi”, ci si “riconosce” in una dimensione ideale, simbolica, in qualche cosa di più generale che fa convergere le forze. Questo non vuol dire che la cultura sia olista: ci sono culture aperte e altre meno, oppure chiuse. La cultura esiste in quanto un certo numero di individui pensa che abbia un senso lavorare per una dimensione di vita comune. Che non esula dalla dialettica e dal conflitto.

Gustavo Zagrebelsky, qui.