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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Immigrati armati

Il ministro Mauro: “cittadinanza a chi presta servizio nelle forze armate“.

Commenta Mao Valpiana:

Il Ministro con l’elemetto, Mauro, propone agli immigrati il servizio militare in cambio della cittadinanza italiana; la ministra smemorata, Kyenge, che si era dimenticata di aprire il servizio civile agli stranieri, lo sostiene. Un governo allo sbando confonde i diritti con i ricatti (e dimostra che il servizio militare volontario non ha consenso, a differenza del servizio civile volontario). Due ministri che farebbero bene a ripassare l’idea costituzionale della “difesa della patria” (civile, non armata, nonviolenta)“.

Le lettere di Provenzano partono da Reggio (Calabria)

BERNARDO-PROVENZANO-facebookA proposito dei rapporti di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta nell’era Provenzano Pasquale Violi per Il Quotidiano della Calabria ha scritto un pezzo da ritagliare e tenere nella cartelletta degli articoli importanti:

di Pasquale Violi – 28 dicembre 2013

Nel lungo periodo della sua latitanza , il super boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, spedì alcune lettere risultate imbucate a Reggio. E i pentiti parlano dei suoi rapporti con i calabresi.

TRATTATIVA STATO – MAFIA Da latitante il super boss di Cosa Nostra spediva missive dalla città di Reggio

Provenzano, lettere dalla Calabria I collaboratori: “Rapporti con LamonteDe Stefano e un ricercato di San Luca

Reggio Calabria – Il 3 Aprile del 1994 Simone Castello, uomo fidato di Bernardo Provenzano, imbucò la prima delle due lettere che lo “zio Binnu” gli aveva chiesto di spedire da Reggio Calabria. Aprile ’94 e Luglio ’94, date che nel panorama della criminalità che viaggia sull’asse Sicilia-Calabria indicano il rapporto stretto che c’era e c’è tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta. Il boss dei boss Bernardo Provenzano aveva le idee chiare sulla sua latitanza, sul fatto che non dovesse avere rapporti con nessuno e che la tecnologia lo avrebbe fatto cadere nelle mani delle forze dell’ordine. E’ rimasto latitante dal settembre del 1963 fino all’aprile del 2006 quando venne scovato in una masseria di Corleone, il suo regno. Per 43 anni è stato un’ombra che ha guidato il vertice della mafia siciliana insieme a Totò Riina. Oggi le sue lettere, i suoi pizzini, sono legate al fascicolo del processo sulla trattativa “stato mafia”, tra quelle missive anche quelle spedite da Reggio Calabria da Simone Castello, l’insospettabile uomo di “zio Binnu”. Ma perché spedire delle lettere indirizzate ai suoi generali da oltre lo stretto?
I motivi, che spiegheranno i pentiti, sono due: il depistaggio creato per far credere che Provenzano non fosse in Sicilia, e i contatti con gli uomini del clan della ‘ndrangheta che pure erano in affari con i corleonesi. E di questi contatti tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta ne parlano due pentiti chiave della mafia siciliana: Angelo Siino e Luigi Ilardo. Il primo parla proprio del permesso chiesto a Bernardo Provenzano di poter andare a trattare con i calabresi. <<Io avevo chiesto a Giuseppe Madonia di poter incontrare questi calabresi – racconta il super pentito Angelo Siino ai magistrati della Dda di Palermo – siamo intorno al 1991. Dovevo incontrare tale Natale Iamonte che era il capo della mafia di Melito Porto Salvo e Piddu Madonia mi disse di sì ma che dovevamo informare anche lo “zio Binnu” che poi arrivò l’autorizzazione che mi ricordo dovevamo andare per sistemare un’impresa, sono certo di questo>>. Ma il pentito Siino ai magistrati dell’antimafia siciliana fa anche un’altra confidenza: <<Io avevo chiesto un incontro con i calabresi – riferisce il collaboratore di giustizia – e sapevo che Giuseppe Madonia aveva amicizie importanti in Calabria, le mie si erano essiccate con la morte di Paolo De Stefano>>.

A confermare i rapporti tra gli uomini della ‘ndrangheta e i corleonesi ci ha pensato anche Luigi Illardo, fidatissimo di Provenzano e persona a cui il super boss, che per 43 anni è rimasto latitante, ha inviato diverse lettere in codice. <<C’erano stati degli omicidi lì a Catania ma anche dopo a Gela – ha detto il pentito Luigi Ilardo – poi da me vennero Franco Romeo e Nitto Santapaola e Santapaola mi disse che dovevo stare attento perché Calderone (ndr il boss Giuseppe Calderone) voleva fottere me e mio cognato, allora facemmo arrivare degli amici calabresi, erano tre, uno lo conoscevo, tale Ciccio “Turro”, gli altri no, erano tutti di Reggio Calabria e stavano con me sempre, avevano sempre la pistola. Allora io quando c’erano questi iniziai a girare per cercare Calderone, era chiaro che se io guidavo la motocicletta allora avrebbe dovuto sparare Ciccio “Turru”, il calabrese. Poi seppi che tutto era iniziato perché mio zio era contrario alla droga e invece c’era stato un accordo tra Badalamenti, Bontate e Inzerillo>>. Ma è nell’azione di fuoco che Luigi Ilardo racconta dell’intervento dei calabresi. <<Tramite Santapaola riuscimmo ad avere un appuntamento con Calderone dalle parti di Acireale – riferisce il collaboratore di giustizia – allora organizzammo due gruppi e in uno c’erano i calabresi, Ciccio “Turro” e un latitante della zona di San Luca che io chiamavo Mico. Fu Turro a sparare a Calderone con una 38>>. Poi più volte ancora i due collaboratori di giustizia fanno riferimento ai legami con la Calabria e Luigi Ilardo racconta di quando fu lui, per comunicare con il super boss Bernardo Provenzano, incaricò Simone Castello di spedire una lettera, nel luglio 1994, da Reggio Calabria.

IL CASO 

Favori reciprochi tra siciliani e reggini  

I “killer” scambiati tra clan

Di Pasquale Violi

Reggio Calabria – Se il latitante di San Luca “Mico” è stato al fianco dei siciliani nell’omicidio del boss Calderone a Catania è il segno che cosa nostra e ‘ndrangheta si scambiano i “favori”, si “prestano” anche i killer. Un rapporto quello tra siciliani e calabresi che nel tempo si è cementato anche grazie ai traffici di droga e agli affari milionari fatti tra l’Italia, la Spagna e il Sud America. Ma il rapporto tra i clan della ‘ndrangheta e quelli della mafia ha origine lontane, molto lontane. Probabilmente uno dei primi episodi della letteratura criminale risale al 1967, precisamente al 23 Giugno del 1967, data di inizio della faida di Locri tra i Cordì e i Cataldo in cui morirono tre persone tra cui Domenico Cordì. Si parlò di sgarri per il contrabbando di sigarette come movente dell’agguato, ma quello che più conta è che secondo le informative delle forze dell’ordine tra i killer di quell’azione c’erano Tommaso “Masino” Scaduto, uomo delle famiglie di mafia di Bagheria e Angelo Di Cristina, boss che tra gli anni ’70 e ’80 avrà un peso criminale enorme nelle dinamiche di cosa nostra. Ma a riferire di scambio di favore a suon di calibro 7,65 è anche il pentito di Siderno Giuseppe Costa che ai magistrati di Reggio Calabria racconta di un omicidio commissionato dal boss Badalamenti. << I palermitani di Badalamenti – riferisce il collaboratore – ci chiesero di sparare ad uno scopino che lavorava a Siderno, lo facemmo e così potemmo iniziare un traffico di droga con i siciliani. All’epoca avevo rapporti con Vincenzo Mazzaferro ed insieme organizzammo due rapine ad istituti di credito tra Marina Jonica, io ho procurato armi e appoggio logistico, poi però entrammo in contrasto perché nel caso della seconda rapina mi diede una parte molto esigua del ricavato, mentre nel primo caso avevamo fatto a metà ciascuno. Poi avemmo questioni per un traffico di droga con la Sicilia. Mazzaferro su richiesta dei palermitani parenti di Badalamenti aveva chiesto di sparare ad uno scopino che lavorava a Siderno, la cosa fu fatta, fu usata una 127, ma quel tizio fu solo ferito ma i palermitani furono soddisfatti lo stesso e potemmo per questo iniziare un traffico droga con loro, ma Mazzaferro mi chiese i soldi in anticipo per un carico di droga e allora non se ne fece più niente>>. Infine è Rocco Varacalli, pentito di Natile a confermare i rapporti ‘ndrangheta-cosa nostra. <<Sono a conoscenza – dice il collaboratore – che Bernardo Provenzano e Totò Riina avevano frequentazioni con Cordì detto il “ragioniere”. So anche che Provenzano e Riina erano conoscenti del capo società del locale di San Luca>>.

Proprio questa frequentazione spiegherebbe il ruolo di pacificatori dei capi indiscussi della mafia siciliana nella guerra di Reggio Calabria tra la famiglia dei De Stefano e quella degli Imerti costata la vita a 966 persone tra il 1985 e il 1991. Poi le dichiarazioni del collaboratore entrano nella leggenda. <<Il citato Riina – racconta Varacalli – vestito da monaco si è recato in San Luca per fermare una faida che stava nascendo tra le famiglie locali>>. Tra il 2005 ed il 2012 almeno tre grosse operazioni antidroga, tra cui “Perseo” e “Dionisio” hanno evidenziato lo stretto rapporto di affari tra i clan calabresi e la mafia siciliana legata a Provenzano e Matteo Messina Denaro.

LO SCRITTO

<< In quelle zone si trattano grosse partite di soldi falsi>>

Di Pasquale Violi

Reggio Calabria – Ecco uno stralcio della lettera che Luigi Ilardo nel luglio del 1994 per il tramite di Simone Castello spedì a Bernardo Provenzano da Reggio Calabria. <<Carissimo zio è con gioia che ti scrivo queste righe, nella speranza che godi di ottima salute …. Abbiamo saputo che in quelle zone, persone vicine a V. stanno trattando delle grosse partite di soldi falsi da 50.000. Se c’è la possibilità saremo propensi ad acquistarne qualche grossa partita purchè ci vengono dati di prima mano, anche perché ci sono nostri amici che hanno avuto fatto delle grosse richieste. Purtroppo la crisi non è solo nel settore produttivo della nazione, bensì in tutti i settori e quindi un po’ tutti ne risentiamo. Se ci fosse la possibilità di far lavorare qualche ragazzo gelese, molte cose potrebbero cambiare. Per quanto concerne gli altri discorsi, tutto sembra andare per il verso, anche se qualche zone di ombra è pur sempre rimasta per quei discorsi che tu sai e riguardano i riesani C. e Decaro. Con la stima e l’affetto di sempre ti abbraccio, rimanendo sempre a tua completa disposizione f/ Gino>>.

Fonte: Il Quotidiano della Calabria” – Sabato 28 Dicembre 2013

Tratto da: 19luglio1992.com

I luoghi ideali di Barca

Un caro amico (e bravo politico) mi racconta spesso come solo dietro una candidatura si riesca a raccogliere entusiasmi e denari. Ora, passata la fase congressuale del Partito Democratico e finita la narrazione del prossimo Presidente del Consiglio possibile, mentre il centrodestra si affanna a ricostruirsi e la “sinistra” appare dormiente vale la pena sottolineare l’immenso lavoro fuori stagione di Fabrizio Barca. Faccio outing: Barca mi ha colpito per serietà è lo spessore di idee e azione già ai tempi in cui fu Ministro del lugubre esecutivo retto da Mario Monti e da lì lo seguo con l’interesse che tengo per le persone dalle belle idee.

Fabrizio Barca ha attraversato l’Italia per saggiare lo stato di salute del Partito Democratico (dopo essersi iscritto) in un viaggio che è diventato un documento politico, un libro e 15 buone proposizioni di un partito di sinistra, non si è candidato durante il congresso limitandosi (come se fosse un limite) a portare il proprio contributo e ora non si ferma e continua con il progetto I luoghi ideali.

Insomma, Fabrizio Barca è la testimonianza di una politica che è possibile fare da cittadini senza cariche o candidature e soprattutto è la prova provata che il finanziamento per i buoni progetti e le buone idee arriva anche in politica: il crowdfunding sta procedendo a gonfie vele.

Poi ogni tanto hai la sensazione che si possa fare veramente la buona politica.

Reggio Calabria: l’ex sindaco è incandidabile ma ora è assessore (regionale!)

demetrio-arena-RIl primato della politica si dovrebbe scorgere nella forza e la capacità di prendere decisioni “prima” della magistratura. Dovrebbe. Appunto:

La Corte d’appello di Reggio Calabria ha sancito l’incandidabilità (c.d. Legge Severino) dell’ex sindaco di Reggio Calabria, Demetrio Arena. Il collegio, nei giorni scorsi, aveva già deciso lo stesso provvedimento nei confronti di Pino Plutino (detenuto per concorso esterno in associazione mafiosa), Luigi Tuccio, Walter Curatola, Giuseppe Eraclini, Giuseppe Martorano, Sebastiano Vecchio e Pasquale Morisani, tutti ex amministratori del Comune sciolto per contiguità mafiose. Arena, attuale assessore regionale alle Attività produttive, era stato eletto sindaco di Reggio il 21 maggio 2011 a capo di una coalizione di centrodestra, dopo le dimissioni di Giuseppe Scopelliti, candidatosi ed eletto nel 2010 presidente della Regione. Il tribunale di primo grado ne aveva dichiarato l’incandidabilità per un turno di elezioni amministrative. “Il Collegio – è stato il commento di Arena – così come per gli altri amministratori, ha censurato però l’operato dei giudici di primo grado che non sono entrati nel merito dei rilievi posti dai ricorrenti. Ha invece introdotto una nuova fattispecie, svincolata totalmente dagli addebiti posti a base della decisione dello scioglimento del Comune di Reggio Calabria, ritenendo che al Sindaco non e’ da ascrivere ‘l’omesso personale adempimento riguardo ai rilievi formulati’, né tanto meno ‘l’omessa vigilanza’, dando atto che la situazione organizzativa e amministrativa del Comune, nella quale il sindaco si e’ trovato ad operare, era tale da non poter pretendersi la ‘minuziosa vigilanza e il dettagliato controllo delle attività amministrative’, poiché ‘ormai compromessa, forse irrimediabilmente’. Il giudizio di incandidabilità – prosegue Arena richiamando la sentenza – si fonda, quindi, esclusivamente sulla carenza di ‘impulso d’indirizzo’ atto a stimolare ‘con l’urgenza dettata dalla gravita’ del caso, percorsi diversi finalizzati all’immediata e determinata, nonché tenace e perseverante bonifica dal malcostume e dal malaffare diffusi dell’intero impianto strutturale della propria organizzazione (poiché ormai compromessa, forse irrimediabilmente) ed al ripristino di una effettiva conformità a legge e Costituzione del suo andamento ordinario, mediante ogni opportuna dotazione normativa e regolamentare”’. “La Corte d’Appello, con sentenza notificatami alla Vigilia di Natale – ha proseguito Arena – ha confermato quindi la mia incandidabilità per le prossime elezioni amministrative. Nel prendere atto della decisione, che rispetto ma non condivido, osservo così come in quello del Tribunale, anche nel provvedimento della Corte non vi è, e d’altronde non vi poteva essere, alcun accenno a miei atti o comportamenti indicativi, nemmeno larvatamente o indirettamente, di contiguità, connivenza o vicinanza alla criminalità organizzata. La Corte d’Appello ha delineato minuziosamente il contesto in cui la mia Amministrazione si e’ trovata ad operare sin dal suo insediamento, rilevando una marcata situazione di inefficienza e degrado della macchina amministrativa comunale, non addebitando pertanto al sottoscritto alcuna responsabilità rispetto ai fatti contestati e alla più complessiva attività di vigilanza; tuttavia la decisione dell’incandidabilità si ‘fonderebbe’ sulla mancanza di una attività di impulso che nei sei mesi di attività amministrativa si sarebbe dovuta espletare per bonificare la macchina organizzativa dal malcostume e dal malaffare diffusi. Prendo atto di ciò, ma rilevo che nessuno fino ad ora mi aveva chiesto di produrre i numerosi atti ed iniziative che nei pochi mesi di mia sindacatura ho adottato per ridare efficienza ai servizi, tutti, e per correggere prassi e comportamenti distorti da parte degli uffici comunali. Credevo, invero, di dovermi difendere, nel giudizio di incandidabilità, da responsabilità mie personali e dirette, rispetto alle cause dello scioglimento per contiguità alla ‘ndrangheta della Amministrazione comunale. Mi si addebita invece una responsabilità oggettiva riguardo alla situazione amministrativa e non rispetto alle cause di scioglimento decretate dal Governo: e’ evidente che chiunque al posto mio sarebbe stato dichiarato incandidabile. Se da un lato ciò mi conforta con riferimento alla mia personale onorabilità, dall’altro non posso accettare che gli elementi utilizzati per decretare lo scioglimento dell’amministrazione comunale siano oggettivamente addebitati a colui che si trovava ad esserne il massimo rappresentante, ma che non li aveva in alcun modo determinati; con la conseguenza che tali elementi comportano la mia incandidabilità per la prossima tornata elettorale (sempre che io ne fossi intenzionato), sottraendo un diritto costituzionalmente garantito al cittadino quale è quello dell’elettorato passivo. Per questo – ha concluso Arena – impugnerò il provvedimento della Corte d’Appello davanti alla Suprema Corte di Cassazione”.

Il carotaggio antimafia

f0a2793d3438f26915dd8a1bf3983fbaE alla fine a Brescia i rifiuti tossici sostengono l’autostrada A4. La Terra dei Fuochi è a forma di stivale e nasconde il veleno nel suo ventre molle mentre in molti si preoccupano della bella posa e della buona pettinatura. Forse qualche protocollo o commissione antimafia in meno e qualche soldo per un carotaggio in più farebbe meno rumore ma molto “onore”. Perché, in fondo, delle parole in superficie i mafiosi se ne fottono da sempre: la storia ce lo insegna.

dal Corriere della Sera:

L’autostrada A4: la terza corsia è stata realizzata negli anni OttantaIn uno dei territori più inquinati d’Italia mancava solo un’autostrada dei veleni. L’Agenzia regionale per la protezione ha scoperto che la terza corsia della A4 nel tratto di Castegnato (Bs) è nata sopra una montagna di scorie industriali altamente tossiche. Il velenoso regalo di Natale è arrivato durante la realizzazione di un sottopasso per la linea ad alta velocità.

L’IPOTESI DI ALTRE SCORIE, FINO A MILANO – I tecnici dell’Arpa hanno trovato concentrazioni di cancerogeno cromo esavalente 1400 volte oltre i limiti di legge (per la falda il limite è di 5 microgrammi/litro). La scoperta apre ad interrogativi ancora più inquietanti: sotto l’asfalto della Serenissima, da Brescia fino a Milano, si nascondono altri veleni? «Domanda più che lecita» commenta la direttrice dell’Arpa Brescia, Maria Luisa Pastore: «È possibile ma per dirlo si dovrebbero effettuare nuovi carotaggi sotto altri punti dell’infrastruttura mentre ci sono analisi solo su Castegnato».Analisi che a breve potrebbero essere imposte dalla Procura di Brescia, che ha ricevuto una doppia denuncia da parte del Comune di Castegnato e dalla stessa Arpa. Se oggi è possibile utilizzare scorie industriali -opportunamente inertizzate – come sottofondi stradali, il timore di tecnici e amministratori è che nel passato, proprio per risparmiare alla voce «smaltimento rifiuti» delle aziende del territorio abbiano deciso di sbarazzarsi dei propri veleni nascondendoli sotto l’asfalto delle nascenti strade.

Il coraggio di essere vulnerabili

Non bisogna sempre cercare di non far succedere le cose. A volte occorre sentirsi a disagio. A volte occorre essere vulnerabili di fronte agli altri. A volte è necessario, perché serve per compiere un altro passo verso se stessi, verso il domani.

 (Cecelia Ahern)

Tutti gli infami per nomi e cognomi

La recensione dello spettacolo NOMI COGNOMI E INFAMI di Serafina Ignoto per ilcarrettinodelleidee.com:

“Nomi, cognomi e infami”, lo spettacolo (che è anche un libro) di Giulio Cavalli,  ripercorre i troppi anni bui della nostra Repubblica. La parola fa paura, sia essa una narrazione o un testo teatrale, una canzone o un articolo giornalistico: è un’arma bianca più potente di cento pallottole, colpisce  senza spargere sangue, destinata a restare e a farsi Memoria collettiva.  E’ in grado di mettere assieme fatti, persone e situazioni ma, soprattutto, fa pensare. Un peccato imperdonabile per la mafia che, infatti, ha costretto Cavalli a condurre una vita sotto scorta. La conoscono bene i prepotenti di tutto il mondo l’insidia che si annida nella potenza evocativa della parola, anche se poi peccano di ingenuità. Ingenuità si, perché la parola sopravvive alla morte. E se poi questa morte è pure violentemente provocata si ottiene un effetto contrario a quello che tutte le mafie vorrebbero per se stesse: l’invisibilità.

Si vive di segnali, la mafia ne ha sempre fatto largo uso, Falcone docet. Lo stato avrebbe dovuto mandarne uno e uno solo, forte e chiaro: si sarebbe dovuto alzare un urlo istituzionale che facesse da scudo alle vite di Di Matteo e di tutti i magistrati impegnati nel processo sulla trattativa. Si è invece sentito, ahimè, solo un silenzio imbarazzato e imbarazzante la cui logica rimanda al sospetto di complicità preoccupanti fra la mafia e pezzi grossi delle istituzioni. Perché anche i silenzi sono segnali.

E allora c’è da chiedersi qual è il senso di quel messaggio inviato alla Corte d’Assise di Palermo dal Capo dello Stato.  Nel nostro Stato-di-diritto-ancora-per-poco chiunque venga chiamato a testimoniare lascia alle valutazioni della magistratura se le sue conoscenze sono utili e conducenti  a chi indaga. E lo si fa dentro il processo, non fuori cercando escamotage per nascondersi dietro un dito. Ma dev’essere contagiosa questa malattia di credersi al di sopra delle leggi. Siamo un paese con troppi re e reucci, molti dei quali appaiono nudi.

Ma i silenzi parlano. Parlano e fanno pensare amaro, amarissimo le passerelle del Csm venuti a portare la loro solidarietà ai magistrati di Palermo. Un modo davvero singolare di agire non incontrando proprio chi ha subito minacce pesantissime di morte. Come leggere, allora, questo segnale visto che il capo del Csm è anche il capo di quello Stato che i giudici di Palermo  tentano di processare?

Giulio Cavalli ha saputo raccogliere il testimone idealmente lasciato da Peppino Impastato con la sua trasmissione Onda Pazza a Mafiopoli. “L’arma” è la stessa, la parola ironica è precisa e tagliente, fa sorridere facendoci riflettere. E’ bravo Cavalli nel ricostruire non solo le vicende di Cosa Nostra, ma anche di ‘‘ndrangheta e camorra, di legami occulti solo per chi non vuole vedere.

Tocca le corde, pur mantenendo un tocco lieve, quando parla di Lea Garofalo, uccisa e fatta sparire nel cuore della Brianza, patria di un’entità geografica inventata come la Padania. Tremano i polsi quando racconta della figlia, Denise Garofalo, che si toglie di dosso anche il nome paterno per essere la pelle, la carne e la lotta di sua madre; Denise e la sua giovinezza uccisa, costretta a nascondersi per salvarsi la vita, il bene più prezioso. Commuove ancora Cavalli, quando si rivolge al figlio, in una fiaba ideale, per spiegargli tutta l’umanità di un sentimento naturale come la paura per la propria incolumità e, ciononostante, resistere. Caparbiamente continuare a denunciare e a informare. Senza sconti. Anche quando si arriva all’ardire di piazzare una rivoltella carica sotto la finestra della sua abitazione e della sua vita scortata. Segnali davanti a cui non indietreggia, nonostante la paura.

E’ un lucchetto  di carne quella stretta di mano con Di Matteo alla fine dello spettacolo, il senso e il segno di una solidarietà vera e agita, un segnale tangibile che ci sono ancora “Uomini d’onore”. Onore vero, Giulio! Non quello annacquato e mistificato che ci vorrebbero propinare i mafiosi, sia quelli che mangiano cicoria, che quelli in colletto bianco  che manovrano soldi e leggi dai luoghi istituzionali più alti. Hai ragione, ci hanno derubato anche delle parole: riprendiamocele! Loro sono solo Disonorevoli. Siamo noi i veri “uomini d’onore”, quelli che lavorano con “professionalità”, cioè declinando l’etica e il sistema di valori nella propria occupazione. E’ il messaggio della nostra Costituzione e tu ce lo hai ricordato: grazie, di questo.

Abbiamo ancora bisogno di giullari per ricordarci che abbiamo la Costituzione più bella del mondo!

Serafina Ignoto

 

A Linate non sono morti solo in 118: prima Matteo e ora Paola

strage_linate_548x345Ho dedicato all’incidente di Linate e ai famigliari delle vittime un anno intenso e bellissimo. In fondo avremmo dovuto fare “solo” uno spettacolo teatrale ma l’affetto, il dolore, la voglia di verità e la costanza del Comitato 8 ottobre per non dimenticare hanno reso quel nostro progetto un vero e proprio capitolo della mia vita. Forse viene difficile spiegare quanti sopravvissuti e quanti sopravviventi ci sono con 118 morti: quanti orfani, fratelli spuri,  madre inconsolabili. In fondo le responsabilità dell’incidente (che ci sono e sono gravissime) risultano briciole di fronte ad un lutto di queste proporzioni.

Poi succede che il dolore faccia percorsi inaspettati e che durano anni. La famiglia Rota ha perso nell’incidente il padre Giovanni, la mamma Clara e il fratellino Michele. Della famiglia sono rimasti in tre: Michele, Paola e Clemens. Proprio Matteo aveva accompagnato i genitori ed il fratello all’aeroporto quella disgraziata mattina. Poi Michele non ha resistito al dolore e il novembre di un anno fa ha deciso di farla finita. Ora Paola, proprio sotto il Natale, in una mattina che era cominciata come tutte le altre accompagnando alla fermata dell’autobus il figlio di cinque anni e mezzo, intanto a casa c’era la piccola Olivia, tre mesi ma il dolore, quel dolore, l’ha vinta e ha deciso di raggiungere gli altri.

Ci sono dolori enormi che sembrano letali e invece sono solo l’inizio.

I forconi mi scrivono /2: Solo Dio

I FORCONI PENSIERO

AL PAPA

SOLO DIO PUO’ SCONFIGGERE SATANA. L’EURO E’ OPERA DEL MALE: ARRICCHISCE I RICCHI E IMPOVERISCE I POVERI. SUA SANTITA’ PUO’ INTERCEDERE PRESSO DI LUI E LIBERARCI DAL MALE. AMEN!

Martino Morsello
Presidente
Movimento dei Forconi
3286009880

Per evitare che la cortesia prevalga sul diritto

Ogni tanto incrocio menti e frasi che hanno il dono soprannaturale della sintesi chiarissima. Durante la presentazione del corso per il riutilizzo dei beni confiscati a Caltanissetta promosso dalla Camera di Commercio di Caltanissetta il delegato Salvatore Pasqualetto (in delega al Presidente) ha detto:

La cultura d’impresa non può essere disgiunta dalla legalità, in provincia di Caltanissetta l’accesso al credito e’ problematico: il costo del denaro qui è stimato un punto e mezzo in più rispetto alle province di Catania e Palermo, questo dato da solo pone le imprese del territorio già ai margini del mercato. Per evitare che la cortesia prevalga sul diritto, lo Stato deve scommettere nel nostro territorio.

Se dovessimo analizzare con calma tutte le volte che un diritto ci viene rivenduto come cortesia forse scopriremmo che l’abuso di cortesia è fenomeno (pessimo) diffuso anche nella quotidianità da Nord a Sud: la cortesia di un amico medico che anticipa una visita nonostante la lista d’attesa, la cortesia di un documento preparato in due minuti grazie al parente che lavora all’anagrafe, la cortesia del numero diretto che scavalca il numero verde: sono centinaia le situazioni concrete e semplici che capitano in perfetta normalità. Ebbene la sistematica cortesia diventa inevitabilmente una solidarietà spinta solo tra sodali e benché spesso sia vissuta come “diritto familistico o di affetti” finisce per creare un grumo. Ecco: osservare i grumi e scardinarli sarebbe un bel fioretto. Perché le lobby di cui si parla oggi sui giornali riguardo la Legge di Stabilità poi in fondo sono proprio questa cosa qui.