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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Facite ammuina

faciteammuina«All’ordine Facite Ammuina:
tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa
e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora:
chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra
e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta:
tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa
e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio
passann’ tutti p’o stesso pertuso:
chi nun tene nient’ a ffà, s’ aremeni a ‘cca e a ‘ll à”.
N.B.: da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno.»

traduzione in lingua italiana:

All’ordine Facite Ammuina
tutti coloro che stanno a prua vadano a poppa
e quelli a poppa vadano a prua;
quelli a dritta vadano a sinistra
e quelli a sinistra vadano a dritta;
tutti quelli sottocoperta salgano sul ponte,
e quelli sul ponte scendano sottocoperta,
passando tutti per lo stesso boccaporto;
chi non ha niente da fare, si dia da fare qua e là.

La fragilità pedagogica

Dopo il post sulla fragilità farmaceutica di oggi sono uscite analisi e commenti interessanti sia sui social (cercherò di condensarli in un post nei prossimi giorni) che nel web. Già il fatto che se ne discuta è un ottimo passo in avanti su un tema che vive spesso di certezze assolute, di qualche complottista e di interessanti dubitatori. Vale la pena ripartire dal post del blog di pedagogia Ponti e Derive:

Purtroppo la deriva di una reazione sana e legittima di una disciplina che sta ricercando una nuova ed ulteriore identità in un clima di trasformazione culturale epocale (rivoluzione web – globalizzazione ) rischia di negare il valore dell’alterità: pedagogia versus tutti, che può portare ad una poco proficua azione da Don Chiscotte,  esistere contro i mulini a vento.

Eppure educazione e pedagogia sono una struttura fondamentale della civiltà umana, irresistibilmente carsiche, irresistibilmente simili ad una araba fenice che rinasce dalle proprie ceneri ad ogni svolta epocale, e questo è uno di quei momenti di rinascita, in cui l’essere Don Chiscotte non serve.

La stessa natura del cambiamento epocale dichiara che la dimensione educativa e pedagogica non può resistere in una identità “muscolare”, che si dichiara onnipotente mentre che le altre professioni e gli altri saperi sono solo feccia, ma in una esistenza liquida e capace di mostrarsi nella complessità.

Probabilmente una critica al paradigma scientifico prevalente va posta, di default, con tutta le serietà professionale che nasce dal non farne una crociata, ponendo tutta la potenza argomentativa e disciplinare laddove la medicina e la psicologia non trovano confini ed errano nell’errore e negli eccessi, e nell’eccesso di risposta farmaceutica.

Ma ogni bambino gioverà oltre che un buon supporto educativo, anche dun eventuale sostegno di musicoterapia, arteterapia, musicoterapia, psicomotricità, logopedia, consentiti e raggiungibili solo attraverso un percorso diagnostico fatto in un servizio di neuropsichiatria infantile; che per mia personale esperienza non sempre così necessariamente improntate alla scelta farmacologica quanto più spesso a scelte multidisciplinari, integrative volte al benessere complessivo del bambino.

Questa dimensione va colta e pensata da parte di chi, occupandosi di educazione, è consapevole di dovere dare significato alla dimensione complessiva del bambino, alle percezioni sociali e culturali che si creano attorno a lui, alla visione che la sua famiglia ha di lui, e di ogni suo eventuale problema, sanitario, emotivo, o altro.

Come si vadano a collocare l’educazione professionale e la pedagogia in questo scenario è sicuramente una esplorazione che va fatta, anzi che deve essere fatta.

Il post completo è qui.

 

La fragilità farmaceutica

Su Doppiozero Gianluca Solla scrive un articolo intelligente e pieno sul preoccupante approccio sempre più farmacologico riguardo i bambini e le loro diverse irrequietezze. C’è un confine sottilissimo tra un sistema sanitario che preservi l’umanizzazione del paziente e un freddo meccanismo di utenti, disposizioni e ricerca del farmaco per intervenire. Il mercato psichiatrico dei bambini in sostituzione di interventi didattici e sociali meriterebbe qualche chilo di attenzione in più.

L’“utente” dell’istituzione medica avrà anche diritto ai suoi diritti, ma per definizione non parla. Altri lo fanno al posto suo; in realtà anche questi ultimi a loro volta parlano una lingua standardizzata e preventivamente approvata: parlano una lingua in cui i significanti sono stati già fissati senza rischio di smentita. Una lingua in cui, in definitiva, nulla deve accadere. Dentro questo cerchio magico non sarà più questione di sintomi, ma sempre e solo di disturbi e di handicap. Sono pochi quelli che conservano a questo punto la capacità di accorgersi di cosa succede: questa trasformazione linguistica del “disagio” in “handicap”, questa cancellazione del sintomo in quanto sintomo, segnala un passaggio importante.

Un sintomo rappresenta una verità, l’apparire di qualcosa altrimenti nascosto: magari una verità che riguarda la famiglia o i genitori e che non ha trovato altro modo di emergere che attraverso il sintomo. Un handicap non ha ovviamente alcuna verità; l’unica verità è quella riconosciuta alle pratiche terapeutiche che intendono estirpare il male. Se il sintomo era ancora una parte del corpo che parlava, l’handicap è un disturbo con cui il paziente finisce per venir identificato in questa lingua diagnostica. Il passaggio espressivo da “l’enuresi è un handicap” a “è un handicappato a causa della sua enuresi” è da questo punto di vista esemplare: quella di handicappato è una condizione inventata da un’istituzione, laddove il sintomo è comunque uno stratagemma del soggetto per dire il suo disagio ad accettare il ruolo che gli è stato attribuito. La constatazione si trasforma in un’identità che cattura il soggetto: dentro la gabbia d’acciaio dell’“utente” il soggetto che vi è rinchiuso fatica a farsi sentire; fatica a trovare la via verso quella parola che è sua e di nessun altro.

Se in effetti emerge un conflitto tra la dimensione farmaceutica e quella linguistica, è forse perché, come gli antichi greci sapevano bene, la parola ambisce, sin dalla sua prima ora, a essere riconosciuta come farmaco. Quando la lingua torna a essere la parola che si fa in ciascuno per salti, invenzioni, balbettii – la parola fragile, fragile come la vita che la porta; la parola che deve essere cercata, presa in prestito, trasformata ogni volta da capo – allora riconosciamo in lei il suo potere di pharmakon. Rispetto alle parole sottratte ci viene incontro quanto diceva una poetessa di lingua tedesca, il fatto cioè che abbiamo bisogno di frasi vere. Mai come oggi questa frase sembra assumere a distanza di tempo un valore profetico che gli sviluppi della nostra epoca non hanno fatto che confermare.

La ristrettezza della neolingua psico-medico-terapeutica che non parla più con i pazienti, né è più capace di ascoltarli, perché sono per lei solo “utenti”, questa ristrettezza è spazio sottratto alle vite, spazio-di-vita per riguadagnare il quale a questo punto non basta più affidarsi al ritornello rassicurante della protezione della vita, ma occorre inventare un’altra narrazione di sé, che parta forse proprio dalla fragilità come luogo necessario e prezioso della nostra personale sperimentazione nel mondo.

Rispetto a questa gabbia in cui veniamo rinchiusi come soggetti sofferenti, ma trattati come “utenti”, l’allargamento della noseologia dei disturbi psichiatrici operata dalle successive edizioni dei DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, in italiano: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) lascia sconcertati. Per non fare che pochi esempi, nell’ultimo DSM vengono introdotte sindromi dalla definizione incerta e dai confini sfumati, che permettono tuttavia proprio per queste loro caratteristiche una più ampia applicazione casistica. Per esempio: la “sindrome di rischio psicotico” (corsivo mio); il “disturbo composito ansio-depressivo”; il “disturbo di ansietà sociale”… La timidezza, la tristezza a seguito di un lutto, le difficoltà scolastiche o esistenziali, diventano malattie che hanno il loro corrispettivo in altrettanti prodotti farmaceutici.

La pelle d’oca su Pippo Fava

L’ha scritta Claudio, il figlio, ed è stupenda:

Quella sera eravamo in quattro. Noi quattro, come al solito, attorno al tavo­lo della cucina a casa della signora Roc­cuzzo. Riccardo scelse i gialli, che non vo­leva mai nessuno. Antonio e Miki rossi e neri, una vecchia sfida di colori domina­ti che non si risolveva mai. Io mi presi i ver­di, colore fesso, tiepido, di quelli che non la­sciano traccia.

Giocammo con candore e accanimen­to, come sempre, improvvi­sando allean­ze, atacchi e ripiegamenti, sacrifici, tradi­menti: tutto.

Il canovaccio prevedeva ruoli immutabi­li. Miki con la sua bella fac­cia da guappo dava la scala­ta al mon­do spostand­o armate attraverso oceani imma­ginari. Antonio, prudente come un segre­tario di sezione, puntava alla Cina, cuore immobil­e di un’Asia at­traversata da straordi­narie mito­logie, la Yacuzia, la Kamchat­ca, il Siam… Ric­cardo intanto s’ammas­sava da qualche parte e lì aspetta­va la guerra, sag­gio im­mobile, come se quell’unico territor­io pos­seduto fosse l’isola di Strom­boli, pro­tetta dal mare e dagli dei.

Di me non so, non ricordo: ap­plicavo le regole del gio­co, attaccavo, ar­retravo, pas­savo la mano. Pensavo che le guerre si vincono provando a non perder­le, facendo i ragio­nieri sulle baionette. Avevo ancora un’età onesta, mi era con­sentito non capi­re un cazzo.Insomma la partita fu come altre cento prima di quella sera: lunga, sfacciata, rio­tosa. Nessuno vinceva, nessuno vin­se.

Non so chi, alle tre del mattino, prese il logoro cartone del risiko e lo fece sal­tare in aria mescolando definitivamente carri armati, territori, ambizioni. Per la prima volta scegliemmo di non arrivare fino in fondo: ci mandammo allegramen­te affan­clo e ce ne andammo a dormire strippati di amaro averna, sazi e giusti come chi crede di essere immortale.

Il giorno dopo ammazzarono mio pa­dre.

Dopo trent’anni, se dovessi portare con me una cartolina di quei giorni e degli anni che vennero dopo, sarebbe questa. Il tavolo della signora Roccuzzo, il cartone slabbrato del risiko, la faccia ancora im­macolata di quattro ragazzi che si stanno gio­cando l’ultima partita, prima che la vita gli precipiti addosso.

[Claudio Fava per I Siciliani Giovani]

Immigrati armati

Il ministro Mauro: “cittadinanza a chi presta servizio nelle forze armate“.

Commenta Mao Valpiana:

Il Ministro con l’elemetto, Mauro, propone agli immigrati il servizio militare in cambio della cittadinanza italiana; la ministra smemorata, Kyenge, che si era dimenticata di aprire il servizio civile agli stranieri, lo sostiene. Un governo allo sbando confonde i diritti con i ricatti (e dimostra che il servizio militare volontario non ha consenso, a differenza del servizio civile volontario). Due ministri che farebbero bene a ripassare l’idea costituzionale della “difesa della patria” (civile, non armata, nonviolenta)“.

Le lettere di Provenzano partono da Reggio (Calabria)

BERNARDO-PROVENZANO-facebookA proposito dei rapporti di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta nell’era Provenzano Pasquale Violi per Il Quotidiano della Calabria ha scritto un pezzo da ritagliare e tenere nella cartelletta degli articoli importanti:

di Pasquale Violi – 28 dicembre 2013

Nel lungo periodo della sua latitanza , il super boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, spedì alcune lettere risultate imbucate a Reggio. E i pentiti parlano dei suoi rapporti con i calabresi.

TRATTATIVA STATO – MAFIA Da latitante il super boss di Cosa Nostra spediva missive dalla città di Reggio

Provenzano, lettere dalla Calabria I collaboratori: “Rapporti con LamonteDe Stefano e un ricercato di San Luca

Reggio Calabria – Il 3 Aprile del 1994 Simone Castello, uomo fidato di Bernardo Provenzano, imbucò la prima delle due lettere che lo “zio Binnu” gli aveva chiesto di spedire da Reggio Calabria. Aprile ’94 e Luglio ’94, date che nel panorama della criminalità che viaggia sull’asse Sicilia-Calabria indicano il rapporto stretto che c’era e c’è tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta. Il boss dei boss Bernardo Provenzano aveva le idee chiare sulla sua latitanza, sul fatto che non dovesse avere rapporti con nessuno e che la tecnologia lo avrebbe fatto cadere nelle mani delle forze dell’ordine. E’ rimasto latitante dal settembre del 1963 fino all’aprile del 2006 quando venne scovato in una masseria di Corleone, il suo regno. Per 43 anni è stato un’ombra che ha guidato il vertice della mafia siciliana insieme a Totò Riina. Oggi le sue lettere, i suoi pizzini, sono legate al fascicolo del processo sulla trattativa “stato mafia”, tra quelle missive anche quelle spedite da Reggio Calabria da Simone Castello, l’insospettabile uomo di “zio Binnu”. Ma perché spedire delle lettere indirizzate ai suoi generali da oltre lo stretto?
I motivi, che spiegheranno i pentiti, sono due: il depistaggio creato per far credere che Provenzano non fosse in Sicilia, e i contatti con gli uomini del clan della ‘ndrangheta che pure erano in affari con i corleonesi. E di questi contatti tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta ne parlano due pentiti chiave della mafia siciliana: Angelo Siino e Luigi Ilardo. Il primo parla proprio del permesso chiesto a Bernardo Provenzano di poter andare a trattare con i calabresi. <<Io avevo chiesto a Giuseppe Madonia di poter incontrare questi calabresi – racconta il super pentito Angelo Siino ai magistrati della Dda di Palermo – siamo intorno al 1991. Dovevo incontrare tale Natale Iamonte che era il capo della mafia di Melito Porto Salvo e Piddu Madonia mi disse di sì ma che dovevamo informare anche lo “zio Binnu” che poi arrivò l’autorizzazione che mi ricordo dovevamo andare per sistemare un’impresa, sono certo di questo>>. Ma il pentito Siino ai magistrati dell’antimafia siciliana fa anche un’altra confidenza: <<Io avevo chiesto un incontro con i calabresi – riferisce il collaboratore di giustizia – e sapevo che Giuseppe Madonia aveva amicizie importanti in Calabria, le mie si erano essiccate con la morte di Paolo De Stefano>>.

A confermare i rapporti tra gli uomini della ‘ndrangheta e i corleonesi ci ha pensato anche Luigi Illardo, fidatissimo di Provenzano e persona a cui il super boss, che per 43 anni è rimasto latitante, ha inviato diverse lettere in codice. <<C’erano stati degli omicidi lì a Catania ma anche dopo a Gela – ha detto il pentito Luigi Ilardo – poi da me vennero Franco Romeo e Nitto Santapaola e Santapaola mi disse che dovevo stare attento perché Calderone (ndr il boss Giuseppe Calderone) voleva fottere me e mio cognato, allora facemmo arrivare degli amici calabresi, erano tre, uno lo conoscevo, tale Ciccio “Turro”, gli altri no, erano tutti di Reggio Calabria e stavano con me sempre, avevano sempre la pistola. Allora io quando c’erano questi iniziai a girare per cercare Calderone, era chiaro che se io guidavo la motocicletta allora avrebbe dovuto sparare Ciccio “Turru”, il calabrese. Poi seppi che tutto era iniziato perché mio zio era contrario alla droga e invece c’era stato un accordo tra Badalamenti, Bontate e Inzerillo>>. Ma è nell’azione di fuoco che Luigi Ilardo racconta dell’intervento dei calabresi. <<Tramite Santapaola riuscimmo ad avere un appuntamento con Calderone dalle parti di Acireale – riferisce il collaboratore di giustizia – allora organizzammo due gruppi e in uno c’erano i calabresi, Ciccio “Turro” e un latitante della zona di San Luca che io chiamavo Mico. Fu Turro a sparare a Calderone con una 38>>. Poi più volte ancora i due collaboratori di giustizia fanno riferimento ai legami con la Calabria e Luigi Ilardo racconta di quando fu lui, per comunicare con il super boss Bernardo Provenzano, incaricò Simone Castello di spedire una lettera, nel luglio 1994, da Reggio Calabria.

IL CASO 

Favori reciprochi tra siciliani e reggini  

I “killer” scambiati tra clan

Di Pasquale Violi

Reggio Calabria – Se il latitante di San Luca “Mico” è stato al fianco dei siciliani nell’omicidio del boss Calderone a Catania è il segno che cosa nostra e ‘ndrangheta si scambiano i “favori”, si “prestano” anche i killer. Un rapporto quello tra siciliani e calabresi che nel tempo si è cementato anche grazie ai traffici di droga e agli affari milionari fatti tra l’Italia, la Spagna e il Sud America. Ma il rapporto tra i clan della ‘ndrangheta e quelli della mafia ha origine lontane, molto lontane. Probabilmente uno dei primi episodi della letteratura criminale risale al 1967, precisamente al 23 Giugno del 1967, data di inizio della faida di Locri tra i Cordì e i Cataldo in cui morirono tre persone tra cui Domenico Cordì. Si parlò di sgarri per il contrabbando di sigarette come movente dell’agguato, ma quello che più conta è che secondo le informative delle forze dell’ordine tra i killer di quell’azione c’erano Tommaso “Masino” Scaduto, uomo delle famiglie di mafia di Bagheria e Angelo Di Cristina, boss che tra gli anni ’70 e ’80 avrà un peso criminale enorme nelle dinamiche di cosa nostra. Ma a riferire di scambio di favore a suon di calibro 7,65 è anche il pentito di Siderno Giuseppe Costa che ai magistrati di Reggio Calabria racconta di un omicidio commissionato dal boss Badalamenti. << I palermitani di Badalamenti – riferisce il collaboratore – ci chiesero di sparare ad uno scopino che lavorava a Siderno, lo facemmo e così potemmo iniziare un traffico di droga con i siciliani. All’epoca avevo rapporti con Vincenzo Mazzaferro ed insieme organizzammo due rapine ad istituti di credito tra Marina Jonica, io ho procurato armi e appoggio logistico, poi però entrammo in contrasto perché nel caso della seconda rapina mi diede una parte molto esigua del ricavato, mentre nel primo caso avevamo fatto a metà ciascuno. Poi avemmo questioni per un traffico di droga con la Sicilia. Mazzaferro su richiesta dei palermitani parenti di Badalamenti aveva chiesto di sparare ad uno scopino che lavorava a Siderno, la cosa fu fatta, fu usata una 127, ma quel tizio fu solo ferito ma i palermitani furono soddisfatti lo stesso e potemmo per questo iniziare un traffico droga con loro, ma Mazzaferro mi chiese i soldi in anticipo per un carico di droga e allora non se ne fece più niente>>. Infine è Rocco Varacalli, pentito di Natile a confermare i rapporti ‘ndrangheta-cosa nostra. <<Sono a conoscenza – dice il collaboratore – che Bernardo Provenzano e Totò Riina avevano frequentazioni con Cordì detto il “ragioniere”. So anche che Provenzano e Riina erano conoscenti del capo società del locale di San Luca>>.

Proprio questa frequentazione spiegherebbe il ruolo di pacificatori dei capi indiscussi della mafia siciliana nella guerra di Reggio Calabria tra la famiglia dei De Stefano e quella degli Imerti costata la vita a 966 persone tra il 1985 e il 1991. Poi le dichiarazioni del collaboratore entrano nella leggenda. <<Il citato Riina – racconta Varacalli – vestito da monaco si è recato in San Luca per fermare una faida che stava nascendo tra le famiglie locali>>. Tra il 2005 ed il 2012 almeno tre grosse operazioni antidroga, tra cui “Perseo” e “Dionisio” hanno evidenziato lo stretto rapporto di affari tra i clan calabresi e la mafia siciliana legata a Provenzano e Matteo Messina Denaro.

LO SCRITTO

<< In quelle zone si trattano grosse partite di soldi falsi>>

Di Pasquale Violi

Reggio Calabria – Ecco uno stralcio della lettera che Luigi Ilardo nel luglio del 1994 per il tramite di Simone Castello spedì a Bernardo Provenzano da Reggio Calabria. <<Carissimo zio è con gioia che ti scrivo queste righe, nella speranza che godi di ottima salute …. Abbiamo saputo che in quelle zone, persone vicine a V. stanno trattando delle grosse partite di soldi falsi da 50.000. Se c’è la possibilità saremo propensi ad acquistarne qualche grossa partita purchè ci vengono dati di prima mano, anche perché ci sono nostri amici che hanno avuto fatto delle grosse richieste. Purtroppo la crisi non è solo nel settore produttivo della nazione, bensì in tutti i settori e quindi un po’ tutti ne risentiamo. Se ci fosse la possibilità di far lavorare qualche ragazzo gelese, molte cose potrebbero cambiare. Per quanto concerne gli altri discorsi, tutto sembra andare per il verso, anche se qualche zone di ombra è pur sempre rimasta per quei discorsi che tu sai e riguardano i riesani C. e Decaro. Con la stima e l’affetto di sempre ti abbraccio, rimanendo sempre a tua completa disposizione f/ Gino>>.

Fonte: Il Quotidiano della Calabria” – Sabato 28 Dicembre 2013

Tratto da: 19luglio1992.com

I luoghi ideali di Barca

Un caro amico (e bravo politico) mi racconta spesso come solo dietro una candidatura si riesca a raccogliere entusiasmi e denari. Ora, passata la fase congressuale del Partito Democratico e finita la narrazione del prossimo Presidente del Consiglio possibile, mentre il centrodestra si affanna a ricostruirsi e la “sinistra” appare dormiente vale la pena sottolineare l’immenso lavoro fuori stagione di Fabrizio Barca. Faccio outing: Barca mi ha colpito per serietà è lo spessore di idee e azione già ai tempi in cui fu Ministro del lugubre esecutivo retto da Mario Monti e da lì lo seguo con l’interesse che tengo per le persone dalle belle idee.

Fabrizio Barca ha attraversato l’Italia per saggiare lo stato di salute del Partito Democratico (dopo essersi iscritto) in un viaggio che è diventato un documento politico, un libro e 15 buone proposizioni di un partito di sinistra, non si è candidato durante il congresso limitandosi (come se fosse un limite) a portare il proprio contributo e ora non si ferma e continua con il progetto I luoghi ideali.

Insomma, Fabrizio Barca è la testimonianza di una politica che è possibile fare da cittadini senza cariche o candidature e soprattutto è la prova provata che il finanziamento per i buoni progetti e le buone idee arriva anche in politica: il crowdfunding sta procedendo a gonfie vele.

Poi ogni tanto hai la sensazione che si possa fare veramente la buona politica.

Reggio Calabria: l’ex sindaco è incandidabile ma ora è assessore (regionale!)

demetrio-arena-RIl primato della politica si dovrebbe scorgere nella forza e la capacità di prendere decisioni “prima” della magistratura. Dovrebbe. Appunto:

La Corte d’appello di Reggio Calabria ha sancito l’incandidabilità (c.d. Legge Severino) dell’ex sindaco di Reggio Calabria, Demetrio Arena. Il collegio, nei giorni scorsi, aveva già deciso lo stesso provvedimento nei confronti di Pino Plutino (detenuto per concorso esterno in associazione mafiosa), Luigi Tuccio, Walter Curatola, Giuseppe Eraclini, Giuseppe Martorano, Sebastiano Vecchio e Pasquale Morisani, tutti ex amministratori del Comune sciolto per contiguità mafiose. Arena, attuale assessore regionale alle Attività produttive, era stato eletto sindaco di Reggio il 21 maggio 2011 a capo di una coalizione di centrodestra, dopo le dimissioni di Giuseppe Scopelliti, candidatosi ed eletto nel 2010 presidente della Regione. Il tribunale di primo grado ne aveva dichiarato l’incandidabilità per un turno di elezioni amministrative. “Il Collegio – è stato il commento di Arena – così come per gli altri amministratori, ha censurato però l’operato dei giudici di primo grado che non sono entrati nel merito dei rilievi posti dai ricorrenti. Ha invece introdotto una nuova fattispecie, svincolata totalmente dagli addebiti posti a base della decisione dello scioglimento del Comune di Reggio Calabria, ritenendo che al Sindaco non e’ da ascrivere ‘l’omesso personale adempimento riguardo ai rilievi formulati’, né tanto meno ‘l’omessa vigilanza’, dando atto che la situazione organizzativa e amministrativa del Comune, nella quale il sindaco si e’ trovato ad operare, era tale da non poter pretendersi la ‘minuziosa vigilanza e il dettagliato controllo delle attività amministrative’, poiché ‘ormai compromessa, forse irrimediabilmente’. Il giudizio di incandidabilità – prosegue Arena richiamando la sentenza – si fonda, quindi, esclusivamente sulla carenza di ‘impulso d’indirizzo’ atto a stimolare ‘con l’urgenza dettata dalla gravita’ del caso, percorsi diversi finalizzati all’immediata e determinata, nonché tenace e perseverante bonifica dal malcostume e dal malaffare diffusi dell’intero impianto strutturale della propria organizzazione (poiché ormai compromessa, forse irrimediabilmente) ed al ripristino di una effettiva conformità a legge e Costituzione del suo andamento ordinario, mediante ogni opportuna dotazione normativa e regolamentare”’. “La Corte d’Appello, con sentenza notificatami alla Vigilia di Natale – ha proseguito Arena – ha confermato quindi la mia incandidabilità per le prossime elezioni amministrative. Nel prendere atto della decisione, che rispetto ma non condivido, osservo così come in quello del Tribunale, anche nel provvedimento della Corte non vi è, e d’altronde non vi poteva essere, alcun accenno a miei atti o comportamenti indicativi, nemmeno larvatamente o indirettamente, di contiguità, connivenza o vicinanza alla criminalità organizzata. La Corte d’Appello ha delineato minuziosamente il contesto in cui la mia Amministrazione si e’ trovata ad operare sin dal suo insediamento, rilevando una marcata situazione di inefficienza e degrado della macchina amministrativa comunale, non addebitando pertanto al sottoscritto alcuna responsabilità rispetto ai fatti contestati e alla più complessiva attività di vigilanza; tuttavia la decisione dell’incandidabilità si ‘fonderebbe’ sulla mancanza di una attività di impulso che nei sei mesi di attività amministrativa si sarebbe dovuta espletare per bonificare la macchina organizzativa dal malcostume e dal malaffare diffusi. Prendo atto di ciò, ma rilevo che nessuno fino ad ora mi aveva chiesto di produrre i numerosi atti ed iniziative che nei pochi mesi di mia sindacatura ho adottato per ridare efficienza ai servizi, tutti, e per correggere prassi e comportamenti distorti da parte degli uffici comunali. Credevo, invero, di dovermi difendere, nel giudizio di incandidabilità, da responsabilità mie personali e dirette, rispetto alle cause dello scioglimento per contiguità alla ‘ndrangheta della Amministrazione comunale. Mi si addebita invece una responsabilità oggettiva riguardo alla situazione amministrativa e non rispetto alle cause di scioglimento decretate dal Governo: e’ evidente che chiunque al posto mio sarebbe stato dichiarato incandidabile. Se da un lato ciò mi conforta con riferimento alla mia personale onorabilità, dall’altro non posso accettare che gli elementi utilizzati per decretare lo scioglimento dell’amministrazione comunale siano oggettivamente addebitati a colui che si trovava ad esserne il massimo rappresentante, ma che non li aveva in alcun modo determinati; con la conseguenza che tali elementi comportano la mia incandidabilità per la prossima tornata elettorale (sempre che io ne fossi intenzionato), sottraendo un diritto costituzionalmente garantito al cittadino quale è quello dell’elettorato passivo. Per questo – ha concluso Arena – impugnerò il provvedimento della Corte d’Appello davanti alla Suprema Corte di Cassazione”.