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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Favoreggiamento culturale alla mafia: il portacocaina esposto al Salone del Mobile di Milano

Si chiama Mela Tiro e in un Italia che in tanti sogniamo sarebbe segnalato da tutti i quotidiani, i blog e recluso nelle cazzate di marketing di qualche imprenditore smandrappato che lucra (anche solo idealmente) sull’illegalità. Non so se sia reato, (anzi no, ma lo vorrei tanto il reato di concorso culturale esterno alla mafia) ma meriterebbero la gogna. Almeno quella. Tirata addosso.

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La scatoletta é prodotta da un nuovo brand torinese, Snow White. É un piccolo portaoggetti a forma di mezza mela, proposto in varie versioni ed in dimensioni ridotte (sta in tasca o in una piccola borsetta). La proposta di Snow White é provocatoria ed ironica, tanto che hanno anche messo in commercio una linea di abbigliamento contraddistinta dal motto “Mela Tiro”.

L’idea pare sia nata durante il salone nautico di Cannes, dove oltre ai mega-yacht la cosa che saltava all’occhio di più era il consumo di cocaina. Rifacendosi alle storie che si raccontano sulle famose feste moscovite, in cui sui tavoli sono appoggiati vassoi carichi di neve che i partecipanti sniffano senza pudore, ai due imprenditori torinesi è venuto in mente di produrre un contenitore per un consumo più “stiloso” ed ordinato. E da lì in breve tempo una semplice idea è diventata un vero e proprio prodotto ironico, e dagli usi più disparati.

Insomma dagli eccessi dei mega-party russi alle feste in giro per l’Italia, grazie anche al successo immediato che la scatoletta sta riscuotendo al Fuori Salone di Milano, dove lo stand di Snow White é letteralmente preso d’assalto dai curiosi di ogni genere e tipo (si dice che persino una suora non abbia resistito alla curiosità ed abbia voluto chiedere candidamente di cosa si trattasse).

Dal 19 aprile la Exciting Box sarà in vendita su www.SnowWhiteLuxe.com 

 

Lea Garofalo, Carlo Cosco in Aula: l’ho uccisa così (e non ci crede quasi nessuno)

DUE PUGNI. ”Non l’ho strangolata, dopo che le ho dato due pugni aveva gia’ perso conoscenza, quando ha picchiato la testa per terra secondo me era gia’ morta e ha iniziato a perdere sangue”.

LA SCUSA. “Era verso le sette e qualcosa io, Venturino e Lea siamo saliti, abbiamo visto la stanza del letto e abbiamo parlato del bagno che era tutto vecchio, da rifare. Man mano che parlavamo sono successe delle parole (testuale, ndr). ‘Non ti faccio piu’ vedere Denise. Sei sempre uno str…, hai la testa che avevi prima, dicevi che la casa non ce l’avevi e invece ce l’hai’, mi ha detto lei. ‘Ma la casa non e’ mia’, ho risposto e lei mi ha detto che non se ne voleva andare piu’ e non mi avrebbe piu’ fatto vedere Denise”.

DOPO L’OMICIDIO… ”sono andato a casa a rilassarmi un po’, ero ancora tutto agitato, poi sono andato in via Montello, ricordo che c’era la partita… C’era mio fratello Sergio, gli ho detto e’ successo questo, cosi’ e cosi’, l’ho uccisa. Vedete come dovete fare per fare sparire il corpo. Lui mi ha detto: vai a consegnarti. Io non sono andato a consegnarmi perche’ non volevo perdere mia figlia Denise”.

LA SCOPERTA. ”Se organizzavo l’omicidio come dice la procura io adesso non sarei qui”.

(fonte AGI)

L’errore di Umberto (Ambrosoli)

Non so se siano già confermate e quindi ufficiali e spero tanto di no per avere ancora tutto il tempo per rifletterne ma le nomine nella nascitura Commissione Antimafia del Consiglio Regionale Lombardia sono un punto politico su cui tutti (tutti) ci giochiamo la faccia. Lasciamo perdere che la Commissione sia stata ripetutamente richiesta e accolta sempre con sorrisi nell’epoca formigoniana per poi tornare alla ribalta nel kit pubblicitario del Maroni 2.0 ex Ministro dell’Interno dell’antimafia del fare (e qui mi sarebbe piaciuto un dibattito, cazzo, perché sulla Commissione antimafia del Comune abbiamo fatto le pulci a Pisapia, abbiamo contato i peli nell’uovo, un eufemismo eh, e poi senza colpo ferire permettiamo al nuovo governatore della Lombardia di fregiarsi impunemente di una composizione liscia e accordata senza colpo ferire) ma la campagna elettorale aveva il dovere, in Lombardia, di raccontare la gravità delle accuse di ‘ndrangheta a carico di Domenico Zambetti e più in generali in diversi settori economici e politici. L’avevo consigliato anche qui, un bel po’ di tempo fa.

Per questo la nomina di Umberto Ambrosoli come membro nella Commissione Antimafia lombarda è un atto imprescindibile di continuità con i temi che abbiamo sostenuto in campagna elettorale e allo stesso modo deve avere una rappresentanza di punta da parte del Partito Democratico: perché sarebbe ora di smettere di essere tromboni antimafiosi in campagna elettorale e poi ritenere l’antimafia come tema minore nell’amministrazione della cosa pubblica. Gli elettori non lo perdonerebbero e io (perché valgo uno, no?) nemmeno.

Siamo stati Capaci solo vent’anni dopo

Ci abbiamo messo vent’anni a trovare il commando della strage di Capaci. Venti anni per avere il quadro di una delle stragi che ha disegnato la geografi sociale e politica di questo tempo. Ma siamo stati abbastanza curiosi in questi vent’anni? Noi, le istituzioni?

Le parole di Spatuzza:

“Ricordo che un mese e mezzo prima della strage di Capaci, Fifetto Cannella mi chiese di procurargli una macchina voluminosa, per recuperare delle cose. Ci recammo pertanto con l’autovettura di mio fratello nella piazza Sant’Erasmo di Palermo, dove incontrammo Peppe Barranca e Cosimo Lo Nigro, e dove avremmo dovuto incontrare Renzino Tinnirello, il quale però tardò ad arrivare. Ci recammo quindi a Porticello, ove trovammo un certo Cosimo, ed assieme a lui ci recammo su un peschereccio attraccato al molo, da dove recuperammo dei cilindri delle dimensioni di 50 centimetri per un metro legati con delle funi sulle paratie della barca. Al loro interno vi erano delle bombe”. Durante il tragitto verso Palermo, i mafiosi trovarono un posto di blocco dei carabinieri, ma non furono fermati. Così ricorda ancora Spatuzza: “Una volta arrivati a casa di mia madre, in cortile Castellaccio, scaricammo i bidoni all’interno di una casa diroccata di mia zia, che si trova a fianco”. Il giorno dopo, i “cilindri” furono spostati in un magazzino di Brancaccio: “Lì cominciammo la procedura – spiega il pentito – tagliando la lamiera dei cilindri con scalpello e martello ed estraendo il contenuto”. Ma quell’operazione era troppo rumorosa: “Mi resi conto che eravamo all’interno di un condominio, quel posto non era adatto al lavoro”, ricorda Spatuzza davanti ai magistrati di Caltanissetta. Così, l’esplosivo fu trasferito ancora: in un magazzino della zona industriale di Brancaccio dove aveva sede la ditta di trasporti “Val. Trans.”, lì Spatuzza lavorava come autista.

“L’esplosivo che macinavamo era solido, di colore tra giallo chiaro e panna. Lo macinavamo schiacciandolo con un mazzuolo, lo setacciavamo con lo scolapasta sino a portarlo allo stato di sabbia”. Quell’esplosivo prelevato a Porticello non bastò: “Ci recammo a prelevare altri due bidoni alla Cala, sempre legati a un peschereccio”, prosegue Spatuzza. Una parte di quella micidiale carica fu consegnata poi a Giuseppe Graviano per la strage di Capaci, una parte servì per la strage Borsellino.

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Cosa non insegna la storia: le crisi e gli errori che si ripetono

Marriner S. Eccles fu nominato presidente della Federal Reserve da Franklin D. Roosevelt e ricoprì la carica dal novembre 1934 al febbraio 1948. In questo brano, tratto dal suo libro di memorie “Beckoning Frontiers” (New York, Alfred A. Knopf, 1951) illustra il rapporto tra la distribuzione del reddito e la “Grande Depressione”. Le analogie con la crisi attuale sono numerose. E’ legittimo chiedersi come sia possibile ripetere errori simili ad 80 anni di distanza.

di Marriner S. Eccles

Così come la produzione di massa deve essere accompagnata dal consumo di massa, il consumo di massa, a sua volta, implica una distribuzione della ricchezza – non della ricchezza già esistente, ma della ricchezza corrente prodotta – al fine di fornire alle persone un potere d’acquisto pari alla quantità di beni e servizi offerti dalla macchina economica della nazione.

Invece di realizzare questo tipo di redistribuzione, una gigantesca pompa aspiratrice dal 1929-1930 ha concentrato in poche mani una parte crescente della ricchezza corrente prodotta. Questo è servito all’accumulazione del capitale. Ma sottraendo potere d’acquisto dalle mani della massa dei consumatori, i risparmiatori hanno negato a se stessi l’ammontare di domanda effettiva per i loro prodotti che poteva giustificare il reinvestimento dei loro capitali accumulati in nuovi impianti. Di conseguenza, come in un gioco di poker in cui le fiches sono concentrate poche mani, gli altri partecipanti hanno potuto restare in gioco solo indebitandosi. Quando il loro credito si è esaurito, il gioco si è fermato.

Questo è ciò che è successo da noi negli anni Venti. Abbiamo sostenuto elevati livelli di occupazione in quel periodo, con l’aiuto di un’espansione eccezionale del debito al di fuori del sistema bancario. Tale debito è stato finanziato dalla crescita consistente del risparmio delle imprese così come degli individui, in particolare nelle fasce ad alto reddito, sulle quali le tasse erano relativamente basse. Il debito privato al di fuori del sistema bancario è aumentato del cinquanta per cento circa. Tale debito, a tassi di interesse elevati, in gran parte ha preso la forma di debito ipotecario su case, uffici e strutture alberghiere, credito al consumo, prestiti concessi ai broker e debito estero. Lo stimolo di spendere attraverso la creazione di debiti di questo tipo fu di breve durata e non poteva contare sul sostegno di elevati livelli di occupazione per lunghi periodi di tempo. Se ci fosse stata una migliore distribuzione del reddito corrente – in altre parole, se ci fosse stato meno risparmio da parte delle imprese e delle fasce di popolazione ad alto reddito e più disponibilità per le fasce a basso reddito – avremmo avuto una stabilità di gran lunga maggiore nella nostra economia. Se i sei miliardi di dollari, per esempio, che sono stati concessi in prestito da società e individui ricchi per la speculazione in borsa, fossero stati distribuiti al pubblico in forma di prezzi più convenienti o più alti salari e meno profitti per le imprese e i benestanti, ciò avrebbe impedito o fortemente moderato il collasso economico che ha avuto inizio alla fine del 1929.

Arrivò quindi il momento in cui non c’erano più fiches da dare in prestito. I debitori furono costretti allora a ridurre il proprio consumo, nel tentativo di creare un margine necessario alla riduzione dei debiti in sospeso. Questo, naturalmente, ridusse la domanda di beni di ogni genere e portò a quella che sembrava essere sovrapproduzione, ma era in realtà sottoconsumo, se valutata in termini reali e non monetari. Ciò, a sua volta, determinò un calo dei prezzi e dell’occupazione.

La disoccupazione aggravò ulteriormente la riduzione dei consumi, che aumentò ulteriormente la disoccupazione, chiudendo così il cerchio in un continuo declino dei prezzi. I guadagni cominciarono a scomparire, richiedendo economie a tutti i tipi di salari, stipendi, e tempo degli occupati. E così ancora una volta il circolo vizioso della deflazione si è chiuso fino a che un terzo della popolazione lavoratrice si è trovata disoccupata, con il nostro reddito nazionale ridotto del cinquanta per cento, e con l’onere del debito aggregato più grande che mai, non in dollari, ma misurato in valore corrente e in termini di redditi che rappresentavano la possibilità di ripagarli. Le spese fisse, come le imposte, le tariffe ferroviarie e di altri servizi, le assicurazioni e le spese per interessi, si mantennero vicine al livello del 1929 e richiesero una parte del reddito nazionale tale che l’importo lasciato per il consumo di beni non fu sufficiente a sostenere la popolazione.

Questa, dunque, è stata la mia lettura di ciò che ha portato alla depressione.

(Via Keynes Blog)

Stefano Rodotà

Mentre si continua a parlare di “quirinarie” e presidenti (e D’Alema continua a d’alemare come quando portavo le brachette corte), provavo a pensare in questi giorni di cosa avrebbe bisogno questa nostra Repubblica, di quali competenze.
Rimane l’irrisolto problema del conflitto d’interessi e dell’informazione (alla fine, il Parlamento, anche questa volta, si incaglia, stai a vedere), rimane una becera ignoranza sulla Costituzione e sulle materie costituzionali (l’uscita della Lombardi sul l’età del Presidente della Repubblica fa venire la pelle d’oca) e soprattutto una credibilità internazionale che dovrebbe essere discontinua. Forse davvero la discontinuità ci chiede oggi la forza di un pensiero originale ma profondo.
Per questo ho deciso di firmare l’appello per Stefano Rodotà Presidente:

Il ruolo del Presidente della Repubblica è una fondamentale garanzia costituzionale e, proprio in quanto tale, è sempre più importante in un contesto politico incerto.

Questa fase storica è, per la nostra Repubblica, particolarmente complessa, perché il paese attraversa una trasformazione importantissima, densa di difficoltà e di opportunità. A deciderne la direzione saranno le scelte che verranno operate nei prossimi mesi e il prossimo Presidente della Repubblica avrà in questo un’importanza determinante.

Gli italiani si chiedono chi potrà svolgere con adeguata sensibilità questa importante funzione.

Tra i molti candidati citati in questi giorni, noi cittadini del mondo delle professioni, della cultura, dell’associazionismo, dei movimenti, uomini e donne di diversa fede politica, sosteniamo Stefano Rodotà.

Da sempre attento al tema dei diritti della persona e della responsabilità, conosce a fondo il senso politico e sociale delle nuove tecnologie, riflette da tempo sulle loro conseguenze nel campo dei diritti e interpreta le opportunità che offrono per un rinnovamento e uno sviluppo della democrazia. Ma non solo.

In perfetta coerenza con tutto questo, negli ultimi anni si è preoccupato di sottolineare un tema essenziale: quello della giustizia sociale e della gestione pubblica dei beni comuni. Rodotà dimostra una straordinaria consapevolezza intorno al fatto che in un momento di gravissima crisi diventano prioritari i diritti alla sopravvivenza. Per questo ha insistito sulla istituzione di un reddito di cittadinanza per tutti.

Rodotà è un laico che rispetta ogni confessione religiosa. Sempre attento alla differenza del pensiero femminile e ai contributi da esso generati, è uomo del dialogo che rifiuta la violenza come strumento per la risoluzione delle controversie.

Noi riteniamo che Stefano Rodotà incarni fedelmente i valori della nostra carta fondamentale.

E il nostro paese ha bisogno di una persona come lui, indipendente, di grande saggezza ed esperienza e con una visione moderna dei problemi, che sia garante della Costituzione italiana ed europea.

Se come supremo garante del nostro assetto costituzionale avremo una figura adeguata ai tempi, gli italiani potranno avere maggior fiducia nel sistema, sapranno che le pulsioni autoritarie potranno essere fermate, la logica dell'”uomo solo al comando” potrà essere vinta. Vi chiediamo quindi di sottoscrivere questo appello per raccogliere il più ampio consenso intorno a alla candidatura di Stefano Rodotà alla Presidenza della Repubblica e di sollecitare i membri del Parlamento a tenere in conto la voce delle cittadine e dei cittadini italiani.

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Pd-SEL: bam!

Un commento che mi arriva quasi subito sul “mescolarsi” con il PD. E che merita di essere il post successivo:

Bam! Preso in pieno. Un rimescolamento, se ci deve essere, deve essere funzionale ESCLUSIVAMENTE alla creazione di un NUOVO soggetto politico di SINISTRA.
Per far ciò, il PD si DEVE spaccare. Se non lo fa, semplicemente finiremo con l’annullarci nel già affollato orizzonte democratico.
E siccome non si spacca, boh.
Rimarremo senza casa.

E’ di Carlo Lasorsa.

Mescolarsi

E’ il verbo usato da Vendola nei confronti del PD. E detto così è tutto da capire. Abbiamo praticato il PD, una frequentazione, verrebbe da dire. Il risultato si gioca tutto sul prossimo Presidente della Repubblica. Lì vediamo quanto abbiamo pesato: perché i voti si contano e si pesano.

Mescolarsi potrebbe essere un semplice accumulo e questo (lo sappiamo in molti) non ha una sintesi reale nel partito: non ha sbocchi. Nella sua intervista a La Stampa Nichi aveva parlato di un soggetto unico della sinistra, presagendo una scissione democratica che ormai è diventata un mantra e che non accade mai. Il confine sottile tra responsabilità e testimonianza si gioca su una convergenza valoriale e non elettorale e, per come stanno ora le cose nel poliforme PD, sembra un’alchimia rassicurante per i posti più che per gli obbiettivi. Il prossimo congresso si gioca tutto qui, lo sappiamo vero?