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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Bilancio, Bologna, Roma, Massa Carrara: cosa e dove si va questa settimana

In Consiglio ci si occupa dell’assestamento di bilancio. Un bilancio tutto formigoniano nelle priorità. Ne parleremo.

Giovedì 12 luglio ci si vede a Bologna, ore 18 per la presentazione del bel libro DOVE ERAVAMO, ci si vede in Sala Armi – Facoltà di Giurisprudenza – Via Zamboni, 22 con l’editore Alessandro Gallo, il curatore Massimiliano Perna e direttore del giornale Dieci&Venticinque e redattore de i Siciliani Giovani Salvo Ognibene.

Venerdì 13 luglio a Roma, alle 18.30 Roma Fringe Festival organizza Il Fatto Quotidiano – Giuliano Girlando presenta:”I volti della bellezza contro le mafie”
ospiti: Giulio Cavalli, Danilo Chirico, Antonio Turri e Giovanni Tizian. Ci si vede a Villa Mercede San Lorenzo Via Tiburtina 115.

Domenica 15 luglio alle 21presentazione de “L’innocenza di Giulio”, Ed. Chiarelettere. Interviene Il Prof. Alessandro Volpi, Docente di Storia contemporanea e di Geografia politica ed economica della Facoltà di Scienze politiche dell’università di Pisa. Coordina Emanuela Ferrari Associazione InMovimento. Piazzetta dei Ronchi, Ronchi Marina di Massa (Ms).

Per vedere tutti gli impegni (inclusi quelli istituzionali) potete andare alla pagina appuntamenti.

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Sono orfano e non so cosa dire sulla ‘ruota’ alla Mangiagalli

Questo dovrebbe essere uno di quegli articoli che uno li legge e pensa, wow, pensa da solo con il suo essere solo, wow, che bell’articolo. Pubblicato così tardi, quasi notte, perché si è sicuri che giri comunque. Virale nonostante l’orario. Insomma.

E’ che ci sono rimasto due giorni, due, duegiornidue, su questa storia di Mario, che hanno lasciato nella ruota degli orfani della Mangiagalli a Milano. Depositato come un figlio spurio in contrassegno. Una cosa del genere. E voi già pensate che questo articolo è un articolo irrispettoso e duro, sono sicuro, che lo pensate. Ma adesso ci arriviamo. E vedete.

Il bambino dentro la ruota nel Medioevo (ce lo insegnano i libri del Medioevo, quelli scritti di quegli anni lì, mica sappiamo se sono stati i servi dell’informazione dell’epoca e allora li riprendiamo subito per buoni) è una pratica che dobbiamo storicamente accettare. Ci dicono che bisogna “storicamente” accettare quando ci presentano un vassoio impresentabile ma con cent’anni di motivazioni dietro. Abitudini, mica valori. Ma cent’anni di valori. Mica noccioline.

E’ che mi chiedo come si possa raccontare una storia di un orfano lasciato sulla ruota degli orfani. Perchè poi anche i giornali ci hanno messo del loro e hanno affilato le penne. Scrive il Corriere che: L’ultimo gesto d’amore della mamma in difficoltà è un biberon di latte materno e qualche vestitino lasciati al suo fianco. Prima di abbandonarlo. Sono le sei e mezza del pomeriggio di ieri quando una donna, probabilmente europea, schiaccia il pulsante rosso della «Culla per la vita» della clinica Mangiagalli, la saracinesca si alza per chiudersi quindici secondi dopo, dentro rimane il neonato, un ciuffo di capelli scuri e una tutina azzurra.

Sotto c’è una canzone soul troppo ubriaca per essere musicalmente credibile. Troppo.

E ora, per essere pronti allo sprint sempiterno delle primarie in tutti questi penultimatum politici, bisognerebbe anche capire bene come declinarla questa cosa. Del bambino lasciato solo come si lasciano soli i bambini lasciati.

Trovare un senso per scrivere il pretesto di un ordine del giorno, una mozione o un progetto di legge se sei un geniale legislatore del marketing politico.

Invece è solo dolore. Inadeguatezza. Senza parole senza, senza nemmeno una parola da dire.

E’ che sono stato adottato. Incredibile, direte voi, adottato. Lui. Giulio Cavalli che combatte la mafia. Pure adottato. Scortato e adottato. Che tristezza buona per farci la fascetta di un libro. Urrà, dicono  distributori di malinconia da scaffale.

E un po’ mi stupisce (mica io, mi stupisco, anche se sarebbe una bella frase ad effetto), mi stupisce che sono stato adottato e credo che la legge 194 sia da conservare, custodire e difendere a mani giunte come si giungono le mani laiche pronte a immolarsi per una valore con religioso coraggio.

E non so proprio cosa dire su Mario lasciato nella ruota. Un silenzio con dentro tutto un mondo di bene. Mica solidale. Inadeguato come ci si sente inadeguati davanti all’amore che si ha paura di perdere e di solito è l’amore della vita.

Però almeno sulla storia di Mario ho deciso di scrivere e confessare questo pezzo del mito da sgretolare. Anche perché sono finito a chiedere l’amicizia su facebook a mio fratello Giuseppe che non sa nemmeno di essere mio fratello. Perché il cognome è diverso e mi ha scritto “chi sei?”, così mi ha scritto. E io non gli ho risposto mai. Mai.

Buona notte Mario. Domani ti sveglierai e capirai (un pezzo, non troppo, con parsimonia) che tutto è terribilmente complicato da essere troppo affascinante per lasciare perdere.

Anche senza sofismi e conclusioni come quelle che ci si aspetterebbe da un aspirante statista.

In piedi signori, davanti a una donna

” Per tutte le violenze consumate su di Lei, per tutte le umiliazioni che ha subìto, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: in piedi Signori, davanti a una Donna!” ( W. Shakespeare )

Il paradiso ai piedi delle donne

Il libro è di Francesca Caferri. E vale la pena leggerlo per capire che forse tutto quello che crediamo vero non lo è.

«Eravamo cinque donne. Sedute intorno a un tavolo, in una sera di primavera, a mangiare all’aperto: abbiamo riso e scherzato su tutto. Le calorie e la golosità, le prossime vacanze, le richieste dei figli, la difficoltà di conciliare vita privata e lavoro, i vestiti e le scarpe. Poi siamo passate ai discorsi seri: un divorzio, un marito troppo geloso ma amatissimo, la politica. Non la finivamo più. A un certo punto il cameriere, divertito, ci ha portato una seconda porzione di dolci, omaggio della casa: sul vassoio non ne abbiamo lasciato uno. La serata si è conclusa con una foto ricordo che conservo ancora. Cinque volti sorridenti. Tre con i capelli appena coperti da un velo nero, gli altri due scoperti: sfacciatamente simili nell’allegria di quel momento.

Questo libro è nato lì, nel febbraio 2010, sulla terrazza del Ristorante O a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. Dalla cena con le tre amiche saudite che ci avevano aperto i loro cuori e le loro vite, io e la collega americana che mi accompagnava tornammo incredule. Entrambe, senza incontrarci prima, avevamo percorso in lungo e in largo il Medio Oriente e i paesi dell’Islam, raccontando di guerre e violenze. Ma anche di studentesse testarde, decise contro tutto e contro tutti a studiare per costruirsi un futuro, di donne che andavano al lavoro ogni giorno anche se minacciate di morte per questo, di rivoluzionarie, di madri di famiglia indomite. Eppure mai come quella sera ci sembrava di avere scoperto un mondo. Come se l’ironia delle tre amiche e le loro battute sulle abaye, le lunghe tuniche nere che – come noi visitatrici – erano costrette a indossare ogni volta che mettevano il piede fuori di casa, avessero acceso un raggio di luce sulle decine di storie che ciascuna di noi aveva raccolto nei suoi viaggi.

Di viaggi in questi anni ne ho fatti parecchi. Sono una giornalista. Ho sempre voluto occuparmi di altri mondi, parlare di come si vive là fuori: circa dieci anni fa il mio sogno si è realizzato. Ho lasciato l’arido ma istruttivo mondo del giornalismo finanziario e sono approdata alla mia vera passione: gli esteri. Era il 2001, l’anno che ha cambiato tutto. Frotte di reporter si precipitarono a raccontare il mondo da cui il disastro dell’11 settembre aveva preso origine: l’Arabia Saudita dei severi wahabiti, l’Egitto degli ambigui Fratelli musulmani, il Pakistan culla dell’estremismo. E, su tutti, l’Afghanistan dei barbari talebani, un paese che dal 1996 viveva nella stessa disastrosa condizione economica e sociale, e che per anni la stampa aveva – con qualche lodevole eccezione – ignorato. Il risultato furono fiumi di inchiostro e ore di trasmissioni radio e tv: alcuni notevolissimi, altri francamente da dimenticare.

Da allora e per anni, ho avuto l’impressione che la maggior parte dei giornalisti raccontasse la stessa storia, come un disco rotto: l’estremismo fanatico, le scuole religiose che incitano all’odio, la sottomissione del sesso femminile, le poche eroine controcorrente. Così, un po’ per spirito di contraddizione, un po’ per rabbia sono arrivata a occuparmi di mondo musulmano e di donne.

Da tempo viaggiavo in Medio Oriente e in Asia per interesse personale: eppure, quando ne leggevo sui giornali, mi sembrava che di alcuni paesi non ci arrivasse che un ritratto parziale, che non coincideva, se non in parte, con la mia esperienza. Continuavo a chiedermi come mai non ci fosse qualcosa di più da dire, un passo avanti da fare: come poteva l’Islam che aveva nutrito il genio medico e filosofico di Averroè, creato quella meraviglia assoluta che è la moschea di Cordoba, dato vita ai tesori di conoscenza ancora oggi nascosti fra le sabbie di Timbuctu essere diventato solo terrore e minaccia? Come era possibile che le eredi di Khadja e Aisha, le amatissime moglie del Profeta, si fossero trasformate negli esseri miseri e passivi di cui leggevamo sui giornali? Davvero quello stesso Corano che lodava la saggezza di Bilqis, regina di Saba, al cospetto del re Salomone, imponeva la sottomissione delle donne? Interrogativi come questi negli anni hanno guidato i miei viaggi: alla ricerca delle risposte, ho conosciuto persone da cui ho appreso enormi lezioni di vita e di dignità.

Molte di loro sono donne. Giovani o anziane, che percorrono le strade del mondo a modo loro, non come vorremmo noi. Che spesso non rientrano nei nostri schemi e per questo non sempre ci piacciono: persone come Nadia Yassine, figlia dello sceicco Abdessalam Yassine, oggi alla testa di Giustizia e Carità, il più popolare movimento politico marocchino, messo al bando perché di stampo islamico e critico nei confronti della monarchia. Nadia – a cui è stato più volte negato il visto per l’Europa, a causa delle sue idee controverse – è la figura femminile più popolare del paese, molto più della principessa Lalla Salma, moglie del re Mohammed VI, idolatrata dai magazine. È a lei e, sul fronte opposto, alle giornaliste scomode di “Femmes du Maroc”, il settimanale che nel 2009 ha messo in copertina per la prima volta nel mondo arabo una donna nuda e incinta, che dobbiamo guardare per provare a capire dove va il Marocco. 

Oppure ragazze come l’egiziana Asma Mahfouz, l’eroina – velata – del 25 gennaio 2011, un’impiegata ventiseienne che, con un video girato da sola e messo su YouTube, ha spinto in strada migliaia di compatrioti contro il regime del presidente Mubarak. E che in piazza si è ritrovata fianco a fianco con Nawal al-Sa’dawi, 80 anni, psichiatra, laica, femminista, per anni esiliata per aver affiancato nei suoi scritti parole come donna e sessualità. O, infine, donne come Tawakkol Karman, la giornalista yemenita che ha guidato in maniera pacifica la rivolta del 2011 in uno dei paesi con il maggior numero di armi pro capite al mondo: per il suo ruolo nella Primavera di Sana’a, Karman ha ottenuto il premio Nobel per la Pace, prima araba a ricevere questo riconoscimento. 

È di loro che questo libro vuole parlare. Donne come Nadia, Asma e Tawakkol negli ultimi dieci anni le ho incontrate in Pakistan, in Yemen, sotto le abaye dell’Arabia Saudita e in tanti altri paesi. Sono l’avanguardia di un movimento che con molta fatica, ma con successo, sta cambiando la faccia del mondo musulmano e che ancora di più lo farà nel futuro. Lo sta facendo negli uffici e nelle università, nelle piazze dove manifesta e nei Parlamenti ai quali è riuscito a imporre leggi più favorevoli alle donne; non tutte vengono applicate, ma oggi sono scritte sulla carta. E rispetto al passato è già un passo avanti.

Questo movimento rivendica le sue origini, le sue tradizioni, la sua religione; e non si limita a scimmiottare il modello occidentale. Nella Sunna, la tradizione che raccoglie gli hadith, i detti di Maometto, ovvero gli episodi della sua vita e i pareri che diede a chi andava a parlare con lui, c’è la storia di un giovane che si recò dal Profeta per chiedergli consiglio prima di unirsi a una spedizione militare: “E la sua risposta fu: ‘Tua madre è viva?’. ‘Sì’ disse il giovane. ‘E allora resta con lei, perché il Paradiso è ai suoi piedi.’”. La visione dell’Islam a cui le protagoniste del mio libro si ispirano è questa».

Qui un’intervista all’autrice.

Se l’albero è parte lesa

Una riflessione (che sembra così ardita di questi tempi in cui già il consumo di suolo è eversivo nel suo significato politico) di Corman Cullinan sul Corriere della Sera che apre uno scenario di pensiero che può solo portare buoni frutti. Appunto.

C’è una Magna Carta universale che gli umani faticano a riconoscere e però sovrasta qualsiasi Costituzione scritta dagli umani stessi. Cormac Cullinan, socio fondatore della Cullinan&Associates Inc., studio legale di Città del Capo, in Sud Africa, la chiama Wild Law (guarda i dieci punti caldi del pianeta), o legge della natura: «Siamo così abituati a conformarci a un diritto che punta al controllo e allo sfruttamento della natura, che la sola idea che la legge debba piuttosto essere al servizio delle forze naturali ci pare assurda, una contraddizione. Invece, dovremmo riflettere sul fatto che gran parte delle nostre leggi contribuisce alla soppressione della wildness, l’ambiente incontaminato». Insomma, è tempo di ribaltare la filosofia antropocentrica che ha forgiato la giurisprudenza moderna e recuperare quei principi universali che governano l’esistenza di tutti i membri della comunità terrestre.

E per chi già pensa che si uno squilibrio troppo laico rispetto al liberismo che deve crescere senza moralismi Cullinan mostra di avere pesato con attenzione e intelligenza la misura:

Negli ultimi anni, anche grazie alla spinta delle convenzioni internazionali, si è ampliato il campo della cosiddetta «giurisprudenza ambientale». Eppure Cormac mette subito in chiaro che la Wild Law è un’altra cosa: «Le leggi ambientali modificano i sistemi legali esistenti proibendo o limitando la possibilità di danni all’ambiente, per esempio attraverso l’introduzione di permessi per l’attività mineraria, il disboscamento, l’edilizia, l’inquinamento ». Leggi che non contrastano, però, la concezione di base della nostra giurisprudenza, e cioè che il mondo è una collezione di «oggetti» (o risorse naturali) a disposizione dell’uomo. «Le leggi ambientali impongono alcune restrizioni al diritto di proprietà ma continuano a considerare il mondo naturale come una proprietà. In base alla Wild Law, invece, lo scopo del sistema legale non è di permettere agli uomini di dominare e sfruttare gli altri membri della comunità terrestre, con un’attitudine coloniale, ma di mantenere un equilibrio fra gli interessi degli uni e degli altri, garantendo l’integrità dell’intero ecosistema. «Le leggi ambientali sono l’equivalente delle leggi che limitavano il diritto di punizione di un possidente sul proprio schiavo, mentre la Wild Law vuole abolire la schiavitù, cioè impedire all’uomo di trattare la Natura come uno schiavo», sostiene Cormac. Un passo in più anche rispetto ai cosiddetti «diritti animali», perché secondo la Wild Law sono soggetti legali, e quindi detentori di diritti, anche fiumi, montagne, mari, piante… «Il diritto umano alla vita, all’acqua, al cibo, perde ogni significato se l’ecosistema che produce quell’acqua e quel cibo non ha diritti e se la popolazione non può far causa contro chi quei diritti non rispetta». Realtà o utopia? La maggior parte delle attività umane emette CO2. Nel mondo ideale di Cormac, sarebbero tutte illecite? «L’intenzione non è di proibire qualsiasi attività umana che impatti sulla natura. Significherebbe che non potremmo neppure mangiare. Il punto è come impedire agli umani di danneggiare la natura per motivi futili o egoistici. Se riusciamo a costruire auto che non impattano sui sistemi ecologici, non è necessario rinunciare alla guida. Se invece l’industria automobilistica mette a repentaglio la vita delle generazioni future, è meglio spegnere i motori».

 


Avevamo ragione: revocato un subappalto Expo

Alle 11.44 esce un’agenzia di stampa:

Expo 2015 Spa ha oggi revocato l’autorizzazione al subappalto nei confronti di un’impresa (Elios srl di Piacenza) attualmente al lavoro nel cantiere per la risoluzione delle interferenze del sito espositivo. Lo comunica una nota. “Tale determinazione è stata presa sulla base di una informativa della Prefettura di Milano che, pur non evidenziando tentativi di infiltrazione mafiosa, ha segnalato elementi suscettibili di valutazione sotto il profilo dei requisiti soggettivi dell’impresa subappaltatrice e tali da pregiudicare il rapporto fiduciario tra Expo 2015 Spa e l’impresa. Infatti la revoca dell’autorizzazione al subappalto è stata assunta avvalendosi della facoltà discrezionale della stazione appaltante prevista dal Protocollo di legalità sottoscritto tra Expo e Prefettura del 15 febbraio 2012. Questa decisione non pregiudicherà in alcun modo la prosecuzione dei lavori secondo i programmi stabiliti. La società Expo 2015 Spa conferma l’impegno a operare e collaborare con le autorità preposte per la prevenzione di ogni tipo di infiltrazione criminale e sottolinea l’efficacia del Protocollo stipulato con la Prefettura e degli altri strumenti adottati a garanzia della corretta esecuzione dei lavori e della tutela della legalità”.

Ahi, ahi: l’avevamo scritto qualche giorno fa in questo post (grazie agli amici di SOS FORNACE). Poi avevamo anche avuto una vivace discussione con EXPO spa (per chi se l’è persa la potete ripescare qui).

La notizia della revoca è una buona notizia, certo. Ma fa sorridere oggi ancora di più l’eccesso di difesa di EXPO spa ogni volta che ci si permette di avanzare dei dubbi. Fa sorridere Formigoni ogni volta che ci rassicura sui passaggi dei subappalti tendendo sempre al negazionismo per tranquillizzare a tutti i costi. E, lasciatemelo dire, ci avevamo visto giusto. Noi allarmisti e visionari.

La migliore commissione antimafia è la trasparenza e la curiosità. Insieme. Senza compromessi.

Qualificarsi squalificando il Movimento 5 Stelle

E’ la moda del momento. E vorrei dire due parole perché si genera un po’ di confusione e in mezzo alla confusione poi va a finire che ci pascolano un po’ tutti, basta alzare bene e forte la voce. Chiariamo subito: se non ti allinei a sputtanare il Movimento 5 Stelle (o meglio, i grillini, come dicono in tanti, e così io sarei vendoliano, gli altri dipietristi, casiniani, bersaniani, come al gioco delle figurine, per dire) allora sei considerato un filopopulista. Ma il Movimento 5 Stelle doveva essere un fenomeno passeggero e invece oggi è il terzo polo (lo dicono i sondaggi) e forse sarebbe il caso di prendersi la responsabilità di provare ad analizzare oltre che impegnarsi nell’indifferenza prolungata. Tra l’altro mentre qualcuno insegue l’altro terzo polo, quello che non esiste più se non nei continui abboccamenti che danno ossigeno a Casini e compagni.

Chiedono le dimissioni di Formigoni (come molti) e lo faranno secondo i propri stili e i propri modi. Intanto hanno rilanciato la nostra campagna Formigoni Go Home senza pretese di originalità. E mi hanno invitato, sabato dalle 17 in Largo Cairoli a Milano. E ho accettato l’invito convinto come sono che la Lombardia si possa ricostruire con un’eversiva visione della sanità, del territorio, dell’economia e della solidarietà di cui SEL è protagonista. Ma senza avere bisogno di qualificarsi squalificando gli altri.

 

Mi date troppa importanza

Il vicepresidente della Regione Lombardia con la solita eleganza che lo contraddistingue dice che «mi date troppa importanza».

E invece bisogna credere (in modo importante e serio) alla manfrina di una Lega che pubblicamente continua a parlare di 2013 in Lombardia e invece è già stata stoppata da Formigoni mettendo sul piatto la caduta di Piemonte e Veneto. Giocano a fare la Lega 2.0 ma c’è ancora l’odore della Lega 1.0 che salva i mafiosi in Parlamento, intasca i rimborsi elettorali ed è patriarcale come nelle peggiori famiglie. O forse, pensavo, 2 (punto zero) è l’attuale percentuale nei sondaggi. Quella che li terrà inchiodati alla sedia ancora per un bel po’.

G8: dietro al sangue e dietro alla sentenza

Sono definitive tutte le condanne ai 25 poliziotti per l’irruzione della polizia alla scuola Diaz al termine del G8 di Genova la notte dei 21 luglio 2001. Lo hanno deciso i giudici della quinta sezione della Corte di Cassazione. Confermata anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, che dunque colpisce alcuni altissimi gradi degli apparati investigativi italiani: Franco Gratteri, capo della Direzione centrale anticrimine, Gilberto Caldarozzi, capo dello Servizio centrale operativo, Giovanni Luperi, capo del dipartimento analisi dell’Aisi, l’ex Sisde. Tutti condannati per falso aggravato, l’unico reato scampato alla prescrizione dopo 11 anni, in relazione ai verbali di perquisizione e arresto ai carico dei manifestanti, rivelatisi pieni di accuse infondate. ”La sentenza della Corte di Cassazione – ha dichiarato il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri – va rispettata come tutte le decisioni della Magistratura. Il ministero dell’Interno ottempererà a quanto disposto dalla Suprema Corte”.

E fin qui tutto bene. Almeno rimane la sensazione di una giustizia che abbia avuto voglia di andare in fondo. Ma intanto rimane il sangue. Il sangue, la politica e forse il punto vero.

Il sangue della Diaz è la sindone della sospensione della democrazia in Italia. Lo pensavo ieri e lo penso ancora di più questa mattina. In Italia non ci siamo accorti che la comunità internazionale aveva già condannato ciò che era avvenuto. La verità storica da noi viene certificata solo dalle sentenze (quando abbiamo la fortuna di averne una). Prima è troppo difficile.

Poi la politica: il Parlamento non ha voluto l’istituzione di una commissione d’inchiesta. Ricordiamocelo, per favore. Perché oggi chi attacca smodatamente Napolitano per le telefonate di Mancino (e, nel punto, hanno ragione ma i modi lasciano perplesso) è lo stesso che ha affossato la commissione su Genova.

Poi c’è la politica che forse proprio oggi potrebbe riflettere sull’eventualità di introdurre il reato di tortura. Ma ve lo vedete questo governo e questa maggioranza? Niente, si spegnerà anche il dibattito.

E poi c’è forse quello ce è il punto vero. E lo coglie benissimo Matteo Bordone sul suo blog:

Perché quando a Bolzaneto e alla scuola Diaz quei pubblici ufficiali mi facevano vergognare di avere la cittadinanza italiana, non lo stavano facendo nel senso della vergogna, del moto d’orgoglio, ma nella sostanza. Un italiano che pesta a sangue una persona inerme è prima una persona, e poi un italiano. Un agente di polizia che pesta a sangue una persona inerme, e lo fa in servizio, è prima un pezzo dello Stato, e poi una persona. E allora la sua colpa è tre volte più grave. Perché mi rappresenta, e quello che fa lo fa per mio conto; perché a lui sono stati delegati dei poteri legati alla forza e alla violenza che i comuni cittadini non possono giustamente esercitare; perché cercando di prendersi gioco delle indagini e dello Stato dall’interno lo ferisce, lo indebolisce nelle sue fondamenta.

Ma quella di oggi è una buona notizia. Per prima cosa perché la giustizia ha dimostrato di saper essere più moderna e democratica di quella di venti anni fa, e lo Stato è venuto prima della Ragione di Stato. E poi perché così i disfattisti che dicevano che non sarebbe mai successo nulla hanno avuto torto. E quando hanno torto i disfattisti, quelli che tanto non cambia mai niente, ad avere ragione quell’idea di progresso che in questo paese fatica così tanto ad attecchire.

La responsabilità è individuale. Dei poliziotti criminali sono feccia, e forse i primi a volerli fuori dalla polizia dovrebbero essere i poliziotti onesti.