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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

#save194 ora applichiamola

La Corte Costituzionale al termine della camera di consiglio svoltasi oggi, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 194/1978 sull’aborto, sollevata dal Giudice Tutelare del Tribunale di Spoleto. La 194 regola da oltre trent’anni l’interruzione volontaria della gravidanza.

La questione di legittimità costituzionale della legge sull’aborto era stata sollevata in seguito alla richiesta di una ragazza minorenne di Spoleto di ricorrere all’aborto senza informare i suoi genitori. A parere del giudice a quo la norma contrastava con gli articoli 2 e 32 della Costituzione, rispettivamente sui diritti inviolabili dell’uomo e sulla tutela alla salute, e citava a sostegno della sua tesi una sentenza della Corte di Giustizia Ue sul tema dell’embrione umano.

Attese adesso le motivazioni della sentenza, che saranno scritte dal giudice Mario Rosario Morelli.

Ora applichiamola. Sarebbe questa la rivoluzione. Magari facendo in modo che anche gli uomini si prendano la responsabilità di non relegare la legge ad una “legge di genere” per delega di responsabilità. Grazie.

‘ndranghetisti, condannati, confiscati e riaprono comunque: lo schiaffo della mafia alla Lombardia

Scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

Giuseppe Antonio Medici è cugino di Salvatore Muscatello, originario di Sant’Agata del Bianco e emigrato al nord nel 1994. Era già stato implicato nell’indagine”La notte dei Fiori di San Vito”in quanto ritenuto affiliato al locale di Mariano Comense; tuttavia in relazione a tale procedimento fondato sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia è stato assolto.

Oggi invece è in carcere, a Opera, dove sconta la condanna dopo l’ultima operazione Crimine-Infinito. E’ uno che conta Medici: secondo la sentenza di primo grado emessa dal giudice Arnaldi per la locale di Mariano Comense (coordinata dal cugino Salvatore Muscatello) Giuseppe Antonio Medici è il custode di armi e esplosivi n un box di via Rossini a Seregno e vicino a gente di elevato spessore criminale come Cosimo Barranca, Giuseppe Salvatore e Vincenzo Mandalari. Medici era anche amico di quel Carmelo Novella, capo del distaccamento ‘ndranghetista in Lombardia (chiamato, con un eccesso di fantasia appunto “Lombardia”) che verrà ammazzato per il sogno di una ‘ndrangheta lombarda federalista che cercasse la secessione dalla Calabria. Morto ammazzato Carmelo Novella, Giuseppe Medici è comunque rimasto amico del figlio. Insomma, uno che ci tiene ai rapporti. Niente da dire. E tra ‘ndranghetisti le relazioni sono importanti per essere considerati e aggiungere spessore, non è un caso infatti che ci sia anche lui al summit di Cardano al Campo il 3 maggio 2008 dove vengono “battezzati” Alessandro Manno e Roberto Malgeri, in quel gioco di riti e conviti mafiosi che si intrufola tra le pieghe dell’operosa e indifferente Lombardia. Anche i famigliari di Medici sono “battezzati”, secondo il Tribunale di Milano.

Ma la passione vera di Medici era il suo ristorante: il Re Nove, con uno di quei bei nomi frugali e rustici come succede spesso per i ristoranti di mafia. Ristorante in stile medievale, pizze grandi e ben cotte, tavoli in legno con re e principesse alle pareti e qualche problema di parcheggio da risolvere arraggiandosi lungo la provinciale. Appena Medici sente odore di confisca del suo amato ristorante, il Re Nove viene ceduto in affitto alla New Re IX srl (quando si dice la fantasia, eh) originariamente di Giuseppe Zoccoli (cugino di Giuseppe Medici) e successivamente con odio unico e amministratore Adelio Riva: noto prestanome al quale sono state intestate numerose autovetture da parte dei clan (secondo l’annotazione di polizia giudiziaria riportata nelle motivazioni sono arrivate ad essere addirittura 29 (tra le quali Ferrari, Lamborghini, Bentley, Aston Martin) compresa una Audi A3 in uso (quando si dice il caso) proprio a Medici.

Medici sparisce dalle carte come proprietario ma non cambia gli atteggiamenti: si preoccupa delle aperture, delle chiusure, dei conti, fissa appuntamenti nel grande salone e si preoccupa dei lavori di ristrutturazione. Riciclaggio, pizze e prestanomi: la faccia pulita della mafia qui su al Nord. La Procura ascolta, trascrive, indaga e ne decide la confisca: dietro al ristorante Re 9, dicono, c’è sempre il boss.

Fino a qui potrebbe essere una storia a lieto fine di indagini e magistrature. Succede, invece, che come i cani che segnano il territorio di fronte al Re 9, oggi, di fronte al ristorante confiscato, dall’altra parte della strada come uno schiaffo a mano aperta in pieno viso, i prestanome hanno aperto un nuovo ristorante. Esattamente di fronte. Con dentro le stesse persone. Come a volersi imporre nonostante le sentenze e il tempo.

E allora la sfida oggi esce dalle carte giudiziarie e diventa civile. Di formazione e informazione, di consapevolezza e curiosità per tutto quello che si costruisce e apre intorno ai nostri luoghi. Nella disarmante semplicità di una Regione che ha l’obbligo di sapere, isolare e scegliere. Perché il senso di impunità che sta dietro all’apertura di un ristorante della stessa “compagnia di giro” in faccia a quello confiscato dice che oggi, in Lombardia, i boss contano ancora su cittadini poco vigili. E le sentinelle, nelle battaglie di mafia, sono importanti.

Buon appetito.

Se la sinistra riparte da Atene

Gad Lerner su Repubblica, oggi, per una sfida che SEL non può perdere:

CO­STRET­TA a for­ni­re il suo ap­pog­gio de­ter­mi­nan­te a un go­ver­no di “uni­tà in­ter­na­zio­na­le”, cioè au­spi­ca­to dai ver­ti­ci del­l’e­co­no­mia mon­dia­le, la si­ni­stra ri­for­mi­sta in Gre­cia ap­pa­re or­mai pros­si­ma al­la can­cel­la­zio­ne.
Eco­sì, di fron­te al­la tec­ni­ca fi­nan­zia­ria che fa­go­ci­ta la si­ni­stra “re­spon­sa­bi­le”, a noi vie­ne da chie­der­ci: po­treb­be suc­ce­de­re an­che in Ita­lia? Trop­pi in­te­res­sa­ti so­spi­ri di sol­lie­vo han­no of­fu­sca­to l’e­si­to del vo­to gre­co. Sup­pon­go ne ab­bia ti­ra­to uno in­con­fes­sa­bi­le pu­re Ale­xis Tsi­pras, il lea­der del­la si­ni­stra ra­di­ca­le Sy­ri­za che ha qua­si rad­dop­pia­to i suoi vo­ti re­stan­do pe­rò al­l’op­po­si­zio­ne, co­me le è più con­ge­nia­le. Me­glio per Tsi­pras che go­ver­ni una coa­li­zio­ne gui­da­ta dal­la de­stra che pri­ma truc­cò i con­ti pub­bli­ci e poi ha as­se­con­da­to le ri­cet­te di­sa­stro­se im­po­ste dal­l’e­ste­ro a una po­po­la­zio­ne che in mag­gio­ran­za (con­tan­do gli aste­nu­ti) le ri­fiu­ta. Una po­la­riz­za­zio­ne che ha ri­dot­to al­l’ir­ri­le­van­za il Pa­sok, cioè il par­ti­to del so­cia­li­smo eu­ro­peo. Li­qui­dan­do co­me vel­lei­ta­ria l’a­spi­ra­zio­ne a una ri­for­ma de­mo­cra­ti­ca del­l’ar­chi­tet­tu­ra del­l’U­nio­ne, fon­da­ta sul­la sal­va­guar­dia dei di­rit­ti e de­gli in­te­res­si dei ce­ti po­po­la­ri.
Il dub­bio si è af­fac­cia­to ie­ri sul­la pri­ma pa­gi­na del­l’U­ni­tà: “Gioi­re per­ché vin­ce la de­stra?”. Ma for­se è trop­po tar­di: i cit­ta­di­ni ate­nie­si che fan­no la fi­la al­le men­se dei po­ve­ri e de­vo­no ri­nun­cia­re al­l’ac­qui­sto di far­ma­ci per i lo­ro fi­gli, non han­no ri­ce­vu­to nei me­si scor­si nes­su­na vi­si­ta di Hol­lan­de, Ga­briel, Ber­sa­ni, Pé­rez Ru­bal­ca­ba. So­spin­ti da un ec­ces­so di pru­den­za, i lea­der del­la si­ni­stra eu­ro­pea han­no pre­fe­ri­to la la­ti­tan­za, evi­tan­do di por­re la que­stio­ne gre­ca fra le prio­ri­tà di una po­li­ti­ca ri­for­mi­sta uni­ta­ria. Qua­si che la ban­ca­rot­ta di cui i gre­ci so­no vit­ti­me, ma, cer­to, an­che cor­re­spon­sa­bi­li, fos­se una di­sgra­zia pe­ri­fe­ri­ca da igno­ra­re in as­sen­za di so­lu­zio­ni rea­li­sti­che; e dun­que non ri­ma­nes­se che tra­smet­te­re la più mio­pe del­le ras­si­cu­ra­zio­ni: noi non cor­ria­mo il ri­schio di fi­ni­re co­me lo­ro. Ve­ro è che Ber­sa­ni ha di­chia­ra­to di ver­go­gnar­si per co­me l’Eu­ro­pa trat­ta la Gre­cia; ma quel sen­ti­men­to non si è an­co­ra tra­dot­to in mo­bi­li­ta­zio­ne po­li­ti­ca.
Non va di­men­ti­ca­to che pri­ma di ca­pi­to­la­re di fron­te al dik­tat emer­gen­zia­le del go­ver­no tec­ni­co di Pa­pa­de­mos, nel no­vem­bre 2011 il pre­mier so­cia­li­sta Geor­ge Pa­pan­dreou ave­va com­piu­to un estre­mo ten­ta­ti­vo: la con­vo­ca­zio­ne di un re­fe­ren­dum che suf­fra­gas­se at­tra­ver­so il re­spon­so del­la so­vra­ni­tà po­po­la­re la scel­ta di re­sta­re nel­l’eu­ro­zo­na, di­spo­sti a pa­gar­ne il prez­zo do­lo­ro­so. Quel­la pro­ce­du­ra de­mo­cra­ti­ca, che ave­va buo­ne chan­ces di ri­scuo­te­re il con­sen­so del­la cit­ta­di­nan­za, fu bloc­ca­ta nel vol­ge­re di po­che ore dal­la rea­zio­ne in­di­spet­ti­ta del­l’e­sta­blish­ment fi­nan­zia­rio e dei più au­to­re­vo­li sta­ti­sti eu­ro­pei. Con­fer­man­do la più spia­ce­vo­le del­le im­pres­sio­ni: l’in­com­pa­ti­bi­li­tà fra le re­go­le do­mi­nan­ti del­l’e­co­no­mia e le re­go­le, ad es­sa sot­to­mes­se, del­la de­mo­cra­zia. I teo­ri­ci del­l’e­stre­ma si­ni­stra (ma an­che del­la de­stra po­pu­li­sta) eb­be­ro co­sì mo­do di de­nun­cia­re che, sia pu­re con il gio­go del de­bi­to al po­sto de­gli eser­ci­ti, stia­mo vi­ven­do una nuo­va epo­ca co­lo­nia­le. Cioè che ab­bia­mo già su­bi­to la li­qui­da­zio­ne an­ti­ci­pa­ta del­l’u­nio­ne po­li­ti­ca con­fe­de­ra­le dei po­po­li eu­ro­pei. Quel ve­to, im­po­sto nel­la più to­ta­le la­ti­tan­za del­la si­ni­stra ri­for­mi­sta eu­ro­pea, se­gnò l’i­ni­zio del­la fi­ne del Pa­sok e spia­nò la stra­da al suc­ces­so di Sy­ri­za: una coa­li­zio­ne di for­ze del­la si­ni­stra ra­di­ca­le fa­vo­re­vo­le a in­fran­ge­re le nor­ma­ti­ve co­mu­ni­ta­rie; le cui com­po­nen­ti nei pros­si­mi gior­ni si scio­glie­ran­no per da­re vi­ta a un ine­di­to par­ti­to-mo­vi­men­to sot­to l’a­bi­le gui­da di Ale­xis Tsi­pras.
In ap­pa­ren­za un ta­le sce­na­rio ri­sul­ta dif­fi­cil­men­te re­pli­ca­bi­le in Ita­lia. Qui il di­sfa­ci­men­to del­la de­stra ber­lu­sco­nia­na e le­ghi­sta sem­bra fa­vo­ri­re una su­pre­ma­zia elet­to­ra­le del Par­ti­to De­mo­cra­ti­co e, al­la sua si­ni­stra, Ni­chi Ven­do­la non pa­re in­ten­zio­na­to per il mo­men­to a rom­pe­re l’u­ni­tà del cen­tro­si­ni­stra. Ta­le qua­dro pe­rò è re­so as­sai sdruc­cio­le­vo­le dal­l’ex­ploit del Mo­vi­men­to 5 Stel­le e dal­le ten­ta­zio­ni po­pu­li­ste no eu­ro che al­li­gna­no tra­sver­sa­li, ali­men­ta­te dal­la cri­si. Se in Gre­cia è An­to­nis Sa­ma­ràs di Nea De­mo­kra­tia a pren­de­re da de­stra le re­di­ni del go­ver­no con il Pa­sok e Si­ni­stra De­mo­cra­ti­ca in po­si­zio­ne su­bal­ter­na, il pro­ba­bi­le ter­re­mo­to elet­to­ra­le ita­lia­no po­treb­be de­ter­mi­na­re ri­sul­ta­ti ta­li da co­strin­ge­re an­che il no­stro Pae­se a ri­pro­por­re un al­tro go­ver­no di “uni­tà in­ter­na­zio­na­le” co­me scel­ta ob­bli­ga­ta. “Au­spi­ca­ta” dal­l’al­to. Co­me te­sti­mo­nia an­che la ri­for­ma del mer­ca­to del la­vo­ro che la si­ni­stra par­la­men­ta­re si ac­cin­ge a vo­ta­re con­tro­vo­glia — qua­si fos­se im­pos­si­bi­le pro­muo­ve­re un nuo­vo eu­ro­pei­smo d’im­pron­ta so­cia­le — i ri­for­mi­sti co­stret­ti a muo­ver­si sot­to det­ta­tu­ra tec­ni­ca non rie­sco­no da tem­po a rom­pe­re uno sche­ma che li pe­na­liz­za. Ma la po­li­ti­ca ob­bli­ga­ta a de­ro­ga­re dal­le pro­prie am­bi­zio­ni, sa­cri­fi­can­do i va­lo­ri in cui cre­de e i le­ga­mi so­cia­li che la vi­vi­fi­ca­no, fi­ni­sce per sof­fo­ca­re. L’e­sem­pio del so­cia­li­smo gre­co in­ca­pa­ce di rea­gi­re al­la sof­fe­ren­za del suo po­po­lo è lì a di­mo­strar­ce­lo. Co­sì, nel me­dio pe­rio­do, an­che nel no­stro Pae­se si ri­pro­por­reb­be­ro le spac­ca­tu­re in­ter­ne del­la si­ni­stra, a sca­pi­to del­le for­ze ri­for­mi­ste.
I lea­der del­la si­ni­stra te­de­sca, fran­ce­se, spa­gno­la e ita­lia­na che han­no di­ser­ta­to di fron­te al­la tra­ge­dia gre­ca, in­con­tra­no ogni gior­no nuo­vi osta­co­li sul­la via di una po­li­ti­ca dav­ve­ro eu­ro­pei­sta. Lo te­sti­mo­nia il re­cen­te con­gres­so del­la Spd che ha de­ci­so di pro­ce­de­re su­bi­to, d’in­te­sa con la Mer­kel, al­la ra­ti­fi­ca del Fi­scal Com­pact nel Par­la­men­to di Ber­li­no: un trat­ta­to che co­sì com’è esclu­de pos­si­bi­li­tà di de­ro­ghe per i Pae­si in­de­bi­ta­ti; né più né me­no “stu­pi­do” co­me già lo fu­ro­no i pa­ra­me­tri di Maa­stri­cht vio­la­ti tran­quil­la­men­te dai più for­ti ma im­po­sti ai de­bo­li in no­me di una con­ve­nien­za spac­cia­ta per vir­tù. Del re­sto, per pau­ra di per­de­re con­sen­si, i so­cial­de­mo­cra­ti­ci te­de­schi con­fer­ma­no an­co­ra og­gi il lo­ro ri­fiu­to de­gli eu­ro­bond. Co­me in tem­po di guer­ra, gli in­te­res­si pa­triot­ti­ci l’han­no vin­ta sul­l’in­ter­na­zio­na­li­smo pro­le­ta­rio.
Chi di fron­te al­l’in­co­gni­ta di un’e­co­no­mia al col­las­so vuo­le ali­men­ta­re di nuo­va lin­fa gli idea­li del­l’u­ni­tà eu­ro­pea e del­la giu­sti­zia so­cia­le, non può igno­ra­re più a lun­go l’a­go­nia del­la Gre­cia. O la si­ni­stra ri­co­min­cia da Ate­ne ca­pi­ta­le, o ri­schia di per­der­si.

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Antonino Bonura, sestese reggente del clan di Alcamo: una storia (antica) di Sesto San Giovanni che parte nel 2008

Abitava a Sesto San Giovanni. E convocava summit tra i clan di Alcamo, Castellammare e Calatafimi in aperta campagna per appianare le divergenze tra le famiglie. Come un buon mediatore agricolo.

Gli arrestati sono Antonino Bonura, imprenditore alcamese 49 anni residente a Sesto San Giovanni (Milano), pregiudicato per mafia, Antonino Bosco, pregiudicato mafioso di Castellammare del Golfo, 58 anni, detenuto all’ergastolo, Vincenzo Bosco, operaio di 49 anni, Sebastiano Bussa, pregiudicato di 38 anni,Vincenzo Campo, procacciatore d’affari pregiudicato di 45 anni, Salvatore Giordano, 54 anni, imprenditore pregiudicato di Ravanusa (Agrigento) e residente a Milano, Rosario Tommaso Leo, 44 a nni, imprenditore agricolo pregiudicato, Salvatore Mercadante, 28 anni, allevatore, Nicolo’ Pidone, 50 anni, dipendente stagionale del Corpo Forestale di Calatafimi, Diego Rugeri, 33 anni, pregiudicato, Giuseppe Sanfilippo, 30 anni, operaio pregiudicato, Michele Sottile, 50 anni, pregiudicato.

Su Salvatore Giordano di Ravanusa, dopo oggi, forse si spiega un antico articolo del 2008 di Repubblica:

18 gennaio 2008 — pagina 6 sezione: PALERMO

UNA misteriosa estorsione da un milione di euro a un ingegnere milanese di origini siciliane, Salvatore Giordano, nato a Ravanusa. Una storia che la polizia ascolta in diretta durante le indagini dell’ operazione Gotha ma i cui protagonisti sono i due uomini del racket fermati a Milano e sui quali si erano concentrate da qualche tempo anche le indagini della squadra mobile milanese coordinate dal pm Ilda Boccassini, piombata a Palermo qualche giorno fa dopo aver saputo per caso che l’ imminente fermo disposto dai colleghi palermitani avrebbe finito con il guastare la sua indagine su Luigi Bonanno, il rampollo della nota famiglia palermitana che agiva in territorio lombardo. Che l’ estorsione milionaria ai danni dell’ ingegnere ci sia stata, con il versamento in due tranche da 500 mila euro e con un “pensiero” anche per la famiglia di Ravanusa, competente per le origini del facoltoso professionista, sembra accertato. Quello che gli inquirenti non sono ancora riusciti a chiarire, neanche con l’ ausilio dei collaboratori, è quali sono «gli interessi di Giordano che potrebbero aver spinto l’ organizzazione a contattarlo per una richiesta di denaro per circa un milione di euro». Una richiesta che, per altro, avrebbe visto spartirsi la cifra tra famiglie mafiose diverse. «Lo abbiamo sotto contratto», si sente dire ad un esponente della famiglia di Pierino Di Napoli. «Ora appena l’ ingegnere scende a Palermo ci facciamo una camminata, uno, due, tre e l’ ingegnere». I mafiosi vengono intercettati mentre fanno i conteggi di come la grossa cifra verrà divisa: «Cinquecento milioni di lire a quelli là sopra (probabilmente – scrivono i magistrati – i soggetti che nel territorio milanese avevano curato il contatto con l’ imprenditore) e cinquecento milioni sono i nostri». Centossessanta milioni di lire, erano già stati riscossi «dai picciutteddi del paese che avevano il discorso nelle mani». Parte attiva nella trattativa avrebbero avuto “Angelino” e lo “zio Luigi”, Angelo Chianello e Luigi Bonanno, i due arrestati del blitz dell’ altra notte. Ma da altre intercettazioni, la polizia scopre che il misterioso ingegnere è stato attenzionato anche da un’ altra famiglia mafiosa, quella dei Mandalà di Villabate. E proprio Nicola Mandalà, andato personalmente a Milano, avrebbe chiesto all’ ingegnere Giordano altri quattrocentomila euro. Preoccupato però che la vittima predestinata si rivolgesse al fratello, finanziere, e denunciasse tutto. Resta misterioso, dunque, come e perché Salvatore Giordano fosse finito nel mirino del racket. L’ ingegnere risulta presidente del consiglio di amministrazione della ditta Hi-Tech Speciality srl con sede a Sesto San Giovanni ma che cosa rendesse giustificabile una tangente così alta e un interesse così trasversale nelle famiglie mafiose palermitane non si è ancora capito. a. z.

Salerno – Reggio Calabria, la talpa e le ‘ndrine

Un gran bel pezzo di Federico Pignalberi per gli amici di Agoravox:

La procura di Reggio Calabria ha aperto un fascicolo d’indagine per favoreggiamento alla cosca Nasone da parte di almeno un infiltrato nelle forze dell’ordine che ha informato il clan di Scilla sulle indagini in corso per le estorsioni nei cantieri stradali. Lo dimostrano alcune intercettazioni ambientali inedite che AgoraVox pubblica per la prima volta. Intanto, tre giorni fa, il ministro Passera ha presentato il suo rivoluzionario piano per lo sviluppo: la Salerno-Reggio Calabria. “Pronta entro il 2013, ci metto la faccia”, ha detto. Ma su come affrontare le infiltrazioni criminali, nemmeno una parola. Per completare l’ammodernamento dell’autostrada mancano ancora all’appello quasi la metà dei lavori. E la ‘ndrangheta continua a comandare sui cantieri.

L’autostrada A3 non è solo il simbolo dell’inefficienza italiana nel realizzare le opere pubbliche: è l’esempio migliore di cosa vuol dire subire la tirannide delle organizzazioni mafiose e adeguarsi alla loro legge; 495 chilometri di asfalto e cantieri che collegano Napoli a Reggio Calabria, attraversando tre delle regioni più violentate dalle mafie nell’Italia meridionale. È il secondo tronco di quella che chiamano Autostrada del Sole, ma è solo una strada di morte. Dal 1997 al 2002 ha ucciso 47 persone in 2382 incidenti automobilistici. E poi gli operai: ne sono morti sei solo da maggio del 2008 a giugno del 2011. Tutti mentre lavoravano. Alcuni sono caduti dalle impalcature e sono morti per l’impatto col terreno o, nel caso di Salvatore Pagliaro, soffocati in una colata di cemento. Altri hanno avuto un destino non meno orribile. Valerio Vessuti, 21 anni, lavorava per un’impresa di Genova, la Carena, ma era originario di Potenza. Il 24 settembre 2009 stava lavorando alla costruzione di una galleria. Mentre era sul cestello elevatore, un blocco di argilla si è staccato dal fronte di scavo e lo ha colpito alla testa. È morto sul colpo. Un suo collega napoletano meno giovane, Vincenzo Gargiulo, è morto folgorato dalla stessa gru su cui stava lavorando. E tantissimi altri operai sono rimasti feriti, anche in modo grave.

I lavori per l’ammodernamento di questo inferno stradale sono iniziati quindici anni fa. Nel ’98 Enrico Micheli, allora ministro dei lavori pubblici del governo Prodi, prometteva deciso: «Nel 2003 siamo sicuri di completare l’aggiornamento di questa arteria fondamentale». Poi, insediatosi il governo Berlusconi, il Cipe spostava la data di fine lavori al 2005, mentreLunardi, più pessimista, prospettava il 2008, ma nel 2007 l’allora ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro prometteva che i lavori sarebbero stati completati entro il 2009. Nel 2009 i lavori continuavano ancora. Il ministro era Matteoli, che posticipava la loro conclusione al 2012, ma l’Anas lo correggeva: 2013. L’8 giugno scorso l’Anas ha confermato che, almeno in Basilicata, i lavori finiranno entro il 2013, ma c’è chi sostiene che per vedere davvero chiudere l’ultimo cantiere bisognerà aspettare addirittura il 2020.Intanto i costi sono quasi raddoppiati: da 5,8 miliardi di euro previsti nel 2002 a 10,2 miliardi nel 2010. Sergio Rizzo sul Corriere della Sera ha calcolato che per costruire ex-novo la Salerno-Reggio Calabria negli anni sessanta furono spesi 5 milioni di euro a chilometro. Oggi ammodernarla ci verrà a costare 22 milioni al chilometro.I risultati sono sotto gli occhi degli automobilisti: code continue, pochissime corsie di emergenza, cantieri infiniti che riducono la strada a una sequenza di strettoie, aree di servizio inesistenti. E voragini: basta un po’ di pioggia perché si aprano e impediscano ai viaggiatori di attraversare l’autostrada per ore. La protezione civile è di casa sulla Salerno-Reggio. Quasi tutto il territorio attraversato dall’A3 è a forte rischio idrogeologico. Quando piove, le frane sono all’ordine del giorno e le corsie si allagano.

Le responsabilità di questo disastro sono molte. Ci sono i rallentamenti sugli appalti e i subappalti, le gare truccate, i certificati antimafia che vengono revocati. C’è l’Anas che non paga le imprese. C’è un terreno argilloso che costringe a consolidare le gallerie di continuo metro per metro, via via che si scava, per arginare le infiltrazioni d’acqua. E soprattutto ci sono i clan che controllano ogni goccia di calcestruzzo versata. Chilometro dopo chilometro, per tutto il tragitto.

Lungo tutta l’autostrada, la ‘ndrangheta controlla appalti e subappalti. Persino il lavaggio delle lenzuola degli operai delle ditte del nord e del centro Italia che stanno eseguendo i lavori: anche quello finisce in mano alle aziende dei clan. E se una ditta vicino a una famiglia perde la certificazione antimafia e, quindi, il lavoro, subentra al suo posto quella di un’altra famiglia, che lascia i subappalti in mano alle stesse società di ‘ndrangheta che li avevano ottenuti prima.

Per gestire un controllo efficace su un’opera che attraversa confini criminali così diversi, c’è bisogno di mettersi d’accordo. Una sera a cavallo tra il 1999 e il 2000 le ‘ndrine si sono riunite in una contrada semideserta di Rosarno e hanno deciso: su ogni appalto avrebbero avuto diritto a una tassa ambientale, cioè a un pizzo, del 3 per centro. È una regola ferrea, che vale per tutti: appalti, subappalti, forniture. E gli imprenditori pagano. Quasi senza eccezioni. Il 3 per cento è il pizzo equo per tutti: dalle imprese più piccole ai colossi dell’edilizia come Impregilo Condotte. Sono stati proprio questi due giganti imprenditoriali a trovare il modo per pagare le ‘ndrine senza dover ricorrere a fondi neri.

Sulla Salerno-Reggio Calabria il pizzo viene iscritto a bilancio. Si chiama «costo sicurezza». Il dirigente di Condotte che ha inventato questa «strategia aziendale» (testuale) si chiama Giovanni D’Alessandro. «Io su quei margini che escono dai costi di gara, che sono stati forzati, ho inserito una nuova riga, cioè… in cui ho messo un costo fittizio di stima di un tre per cento sui ricavi e l’ho chiamato costo sicurezza Condotte-Impregilo».

Anche Impregilo pagava la ‘ndrangheta. Oggi è il general contractor che ha vinto la gara per il Ponte sullo Stretto di Messina, in altre parole l’azienda che dovrà materialmente costruirlo. E anche per il Ponte ha replicato l’alleanza con Condotte, un colosso delle costruzioni che nel bilancio consolidato del 2010 ha dichiarato un giro d’affari di oltre 740 milioni di euro e un utile netto di 7,6 milioni. Il prefetto di Roma gli avevarevocato il certificato antimafia proprio per le infiltrazioni mafiose nei lavori per la A3. Poi, però, Condotte ha vinto il ricorso al Tar, e oggi ha tutte le carte in regola per continuare a occuparsi dei più grandi appalti pubblici del Paese, Salerno-Reggio inclusa.

Nell’incontro di Rosarno i clan si accordarono anche su come spartirsi il bottino. Ogni ‘ndrina riscuote nel suo territorio di competenza. In provincia di Cosenza se ne occupano le famiglie di Sibari Ai clan del Capoluogo spetta la tratta che va da Tarsia fino a Falerna, all’altezza di Catanzaro. Poi subentrano i clan locali della zona di Lamezia, tra cui gli Iannazzo. Continuando a scendere, l’autostrada si riavvicina al mare all’altezza di Pizzo, dove comanda la cosca Mancuso.Quando si arriva nella piana di Gioia Tauro, si entra in un groviglio di interessi criminali e famiglie di ‘ndrangheta in cui la fanno da padroni i Pesce e i Bellocco di Rosarno, e i Piromalli, una delle più grandi cosche mafiose di tutta l’Europa occidentale. Ma è permesso prendere parte ai lavori anche a clan “minori”, come i Polistena.Da Villa San Giovanni in giù le famiglie locali dividono il loro 3 per cento con i gruppi di Reggio per evitare dissidi. Poco più a nord, invece, sotto Palmi, la spartizione dei soldi delle estorsioni ha causato molto più di qualche disputa. Ha scatenato una guerra di mafia. Una faida che ha visto da una parte i Bruzzise, dall’altra i Gallico che, insieme ai Morgante e agli Sciglitano, non accettavano che i loro avversari fossero stati autorizzati dal boss di Rosarno, Umberto Bellocco, a riscuotere il pizzo sui lavori nella zona di Seminara. Perché controllare i lavori dell’A3 a Palmi è più redditizio che in ogni altro luogo: ci sono ponti, gallerie, più lavori da fare. Un giorno qualcuno, forse il boss Antonino Pesce, disse a Giuseppe Gallico che alla sua famiglia era andata bene, che con l’autostrada a Palmi si sarebbero potuti «sistemare».

Furono gli Sciglitano a subire i primi attacchi, i primi due omicidi, nel 2004. Poi però reagirono, e i Bruzzise ebbero la peggio: cinque morti ammazzati in quattro anni. Solo per due di questi omicidi si è riusciti a dare un nome al mandante: il boss Giuseppe Gallico, oggi sotto processo a Palmi per concorso in omicidio.

Poco più a Sud, appena sotto Sinopoli, l’autostrada passa per Scilla, un paese di cinquemila anime di fronte allo Stretto di Messina. Lì a comandare è la famiglia Nasone. La loro specialità: le estorsioni. E la pirotecnica. Negli anni ottanta misero in piedi più di cento attentati dinamitardi: dopo ogni esplosione arrivava la richiesta estorsiva. E hanno continuato a farlo, anche per i lavori di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria.

Niente a Scilla deve sfuggire al loro controllo. Nemmeno i furgoncini dei panini. Rocco Callore voleva spostare il suo in una zona del porto dove i Nasone volevano mettere il loro. L’imprenditore aveva chiesto e ottenuto il permesso del Comune, ma non il loro. E la notte tra il 18 e il 19 febbraio scorsi i Nasone gli hanno bruciato il furgone.

Davanti alle forze dell’ordine Callore si è guardato bene dall’indicare sospetti su chi potesse essere stato. Ma suo figlio doveva saperlo bene, visto che pochi giorni dopo è andato a incontrare Francesco Nasone al bar della cosca nella piazza centrale del paese per «sistemare la situazione». In fondo suo padre e lui sono compari. Ma, per Nasone, Rocco Callore è uno di quelli che i legami di «comparato li usa al momento del bisogno». Nasone bussa tre volte per fare il verso a Callore: «Caro compare ho bisogno di questo! Ma poi il compare si dimentica». E minaccia: «Che non si senta che io brucio camion, o brucio macchine, o brucio porte o brucio cose: io affronto le cose faccia a faccia, fino a quando campo io! Fino a che campiamo noi, noi ragioniamo così!».

A fare le spese più pesanti del racket dei Nasone, però, è stata laFondazioni Speciali S.p.A., che ha ottenuto un subappalto per eseguire dei lavori di consolidamento per 850 mila euro sulla A3 all’altezza di Scilla. Hanno aperto i cantieri a luglio del 2011 e in meno di due mesi hanno subito tre danneggiamenti. Il 28 agosto a un impiegato della ditta viene danneggiata l’auto privata. Il capocantiere, che ha capito bene cosa sta succedendo, gli consiglia di «non parlare troppo», di non dire in giro che lavora per la Fondazioni Speciali. «Tu devi fare una cosa Salvo, quell’adesivo che gli hai messo cosi bello carino che si vede lì glielo devi togliere». Spiega, il capocantiere, che prima, quando non serviva, di fronte al recinto c’era una postazione dell’esercito, e che ora che servirebbe come protezione l’hanno rimossa.Poi, per diversi mesi, le acque sembrano essersi calmate. Non per merito, però, delle denunce contro ignoti ai carabinieri: pochi giorni dopo quelle intimidazioni, la Fondazioni Speciali ha accettato di rifornirsi dal bar dei Nasone in paese per la colazione degli operai. Fino a dicembre.Il 3 marzo scorso, allora, il giorno dopo avere messo in piedi un’intimidazione a un’altra ditta che lavorava su altri cantieri dell’autostrada, la cosca si riunisce al solito bar per progettare un nuovo attentato alla Fondazioni Speciali. Gli uomini del clan hanno già fatto dei sopralluoghi, hanno studiato i mezzi per scegliere quale danneggiare. Alla fine decidono di togliere i freni a un compressore e lasciarlo cadere giù per un dirupo. «Là ci sono le ruote, ci sono due pietre. Togli quelle pietre; di qua davanti ha una levetta (incomprensibile) freno a mano (incomprensibile) precipitano di sotto nella strada. Che cazzo ce ne fottiamo!».

Poi pianificano una via di fuga coi motorini, semmai qualcuno capitasse nei paraggi. E una scusa nel caso dovessero essere colti in flagrante. E se i carabinieri non dovessero credere loro, nessun problema: «Che mi interessa? Gli faccio scoppiare in aria!». L’obiettivo della missione è costringere l’azienda a trattare. L’intimidazione deve essere abbastanza grande da spingere gli uomini della Fondazioni Speciali a farsi vivi con i boss. «Io voglio almeno che andiamo al fine di farli venire. Non che io vado e loro dicono: sono stati ragazzini di due anni. Dev’essere un lavoro bello, in maniera da scendere», da farli venire a negoziare. «E se non vengono?». «E se non vengono glieli bruciamo».

Quella notte, il compressore liberato dai freni si schianta contro uno spartitraffico in cemento. La mattina dopo, gli operai della ditta lo trovano semidistrutto. Sopra c’è una bottiglia di plastica piena di una sostanza liquida, tutta avvolta da un nastro da imballaggio marrone. Sembra un ordigno pronto a esplodere, ma la miccia è finta. Serve solo a spaventare.Gli uomini della ‘ndrina però non sono soddisfatti. Quel macchinario non doveva finire sul guard rail: secondo i piani sarebbe dovuto cadere di sotto, nella scarpata. «Non valiamo nulla. Anzi, soprattutto tu non vali niente, perché io – ride, spaccone – io sarei andato. Che cazzo me ne sarebbe fottuto? Io non ho problemi con l’altezza. Io se mi devo buttare da una montagna, mi butto, non ho paura di buttarmi. Posso rompermi le gambe qualche volta. Lì sai cos’è stato? Non è caduto di sotto! Se fosse caduto lì sotto mi sarei divertito di più io!».
Quell’intimidazione non basta a ridurre la ditta a farsi viva. Bisogna tornare sul cantiere. La notte tra l’8 e il 9 marzo alla Fondazioni Speciali viene danneggiato un altro macchinario. Un semaforo finisce sotto la scarpata.Da un po’ di giorni, però, una microspia, che la Procura di Reggio Calabria aveva fatto installare nel bar, stava registrando tutti i colloqui dei boss. Gli inquirenti avevano potuto assistere in diretta al lavoro quotidiano di soprusi ed estorsioni della ‘ndrangheta. Potrebbero continuare a registrare per raccogliere altre prove. Ma c’è un imprevisto. Una talpa tra le forze dell’ordine ha avvertito i Nasone delle indagini in corso. A dire il vero, che ci fossero indagini in corso su di loro e che i magistrati fossero intenzionati a farli arrestare, i Nasone lo sapevano già da novembre. Lo era venuto a sapere Domenico Nasone e lo aveva raccontato a sua cugina Annunziatina che aveva avvertito suo fratello, Giuseppe Fulco, in carcere, dov’era andata a fargli visita accompagnata dalla madre.

Nel verbale di questo colloquio, finora inedito, avvenuto nel carcere di Benevento l’11 novembre scorso e filmato a loro insaputa, la madre dice al figlio detenuto che «è tutto registrato». «Pure in cella», aggiunge la sorella. «Non devi aprire né bocca né niente», lo avvertono.

ANNUNZIATINA FULCO: Quel fatto che ti avevo raccontato io!
GIOIA VIRGILIA NASONE: Tutto
GIUSEPPE FULCO: Uhm
ANNUNZIATINA: Quello che ti ho raccontato io! Che fanno … che volevano fare a Scilla?
GIOIA: (coprendosi la bocca con le mani profferisce) È tutto registrato! 
GIUSEPPE: Come cazzo devo fare i colloqui?
ANNUNZIATINA: Che mi arrestano pure a me! (ride)
GIUSEPPE: E chi te l’ha detto a te?
ANNUNZIATINA: Lo sanno tutti! (incomprensibile) a meno che … gliel’ho detto io non c’era niente di quello che abbiamo che… (omissis) Pure in cella! 
GIUSEPPE: Pure?
GIOIA: Sì, di non aprire né bocca e né niente!
GIUSEPPE: Chi te l’ha detto?
GIOIA: (gesticola facendo capire qualcosa al figlio)
ANNUNZIATINA: Tutti … eh … eh … noi non sappiamo!
GIUSEPPE: Chi l’ha detto?
ANNUNZIATINA: (parla vicino all’orecchio di Giuseppe) MIMMO! (omissis)
GIUSEPPE: E quindi c’è (gesticola con le mani come per dire che sono controllati/intercettati in qualsiasi modo e posto)
ANNUNZIATINA: Sì in tutto!

GIOIA: Sì!
ANNUNZIATINA: Completamente!
GIOIA: Dalla A alla Z!
Non è la prima volta che a Reggio Calabria si scoprono infiltrati dei clan nelle istituzioni. Quando nel 2008 fu trovata una microspia nell’ufficio del pm Nicola Gratteri, gli investigatori sospettarono subito che a nasconderla potesse essere stato un altro magistrato. «Di talpe probabilmente ce n’è stata più di una», aveva detto Ilda Boccassini alla conferenza stampa di presentazione dell’inchiesta Crimine. In quell’operazione sull’asse Milano-Reggio Calabria furono arrestati, per questo motivo, Giovanni Zumbo, un commercialista sedicente appartenente ai Servizi, ritenuto attendibile dai pm, e il gip di Palmi Giancarlo Giusti. Proprio il 26 marzo scorso i poliziotti della Squadra Mobile di Reggio Calabria hanno arrestato un loro collega accusato di avere informato un uomo ritenuto vicino alla cosca Caridi della presenza di microspie nascoste nella sua auto.
La conferma dell’esistenza di una talpa che teneva aggiornato il clan Nasone sull’evoluzione delle indagini, gli inquirenti la hanno il 23 febbraio, quando due affiliati, Pietro Puntorieri e Francesco Libro, si incontrano nel bar della cosca. Il primo racconta all’altro che il “capo”, Francesco Nasone, li ha avvertiti che gli inquirenti stanno li stanno indagando e controllando per poi arrestarli alla prima occasione utile. La microspia della Procura registra tutto. Ecco il verbale della loro conversazione, che AgoraVox pubblica integralmente per la prima volta.
PIETRO PUNTORIERI: (… Franco Nasone) mi fa: “Qualche giorno di questi … non uno … erano questo qua … questo di là … questo di qua … e ci menano … associazione. Fanno quell’articolo (incomprensibile) con il 416-bis ci possiamo andare a ricoverare!” (omissis) E ci ha spiegato tutto. Un bordello di cose ci ha spiegato! (…) Un bordello. E noi zitti Non abbiamo detto nemmeno una parola! Ha preso le cartelle … sue!
FRANCESCO LIBRO: Ah?
PUNTORIERI: Ha preso le cartelle sue: “Vedi? Vedi qua? Solo con (incomprensibile) e lettere(incomprensibile) qua … ed hanno scritto! (…) E che facevano? Niente, una parlata! Associazione! (incomprensibile) persone.” Uno (incomprensibile) sedici, uno (incomprensibile)ventidue… il minore è quattro anni! (incomprensibile) “Vi sto dicendo che dobbiamo stare calmi. Non è che non la dobbiamo fare una cosa, la facciamo. Però dobbiamo stare calmi! Non vedete il bordello che c’è?” (incomprensibile) una faccia!
LIBRO: (…) Vanno cercando questo. Vanno cercando questo: la miccia.
PUNTORIERI: “Vedi, che ti sembra, ora, perché non c’è niente, che puoi. Ti sembra che non sono usciti, che non stanno facendo niente? Stanno indagando qua, quattro (incomprensibile)!Questo con questo, questo con questo… e stanno vedendo i movimenti che facciamo. Loro ci vedono, pure che non ci sono (incomprensibile) dove cazzo vai? Poi scrivono… che cazzo se ne fottono! Tanto scrivono… mandato di cattura, e ti fai due anni. E poi lo vediamo se sei assolto o meno!”
A quanto pare, però, non si aspettavano una cimice proprio nel loro quartier generale. Dopo diversi giorni, gli investigatori decidono di sospendere l’ascolto ed entrare in azione. È troppo pericoloso. Gli ‘ndranghetisti potrebbero venire a sapere della cimice nel locale e scappare prima di essere arrestati. Lo scorso 30 maggio i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria hanno arrestato dodici persone del clan, comprese tutte quelle che avevano partecipato alle estorsioni e alle conversazioni nel bar di Scilla. E poi hanno sequestrato i beni della cosca: 32 immobili, conti correnti, polizze assicurative e altri prodotti finanziari per un totale di milioni di euro. I giudici hanno ordinato l’amministrazione giudiziaria anche per il bar della cosca in cui sono avvenute tutte le riunioni e dove è stata nascosta la microspia che le ha registrate.
Secondo le informazioni in possesso di AgoraVox, la Procura di Reggio Calabria ha aperto un fascicolo di indagine top secret per favoreggiamento al clan Nasone da parte di esponenti delle forze dell’ordine. Non è possibile sapere se, ad oggi, ci siano già state iscrizioni nel registro degli indagati o se si stia ancora procedendo contro ignoti. Gli inquirenti stanno conducendo le indagini per identificare l’infiltrato, o gli infiltrati, della ‘ndrina nelle istituzioni con il massimo riserbo e, data la situazione, con un’attenzione particolare alla segretezza, e non lasciano filtrare indiscrezioni.Intanto venerdì scorso, 15 giugno, alla conferenza stampa di presentazione del “decreto sviluppo”, il ministro dello Sviluppo Economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti, Corrado Passera, annunciava giulivo la sua ricetta innovativa per riavviare la crescita economica del Paese: la Salerno-Reggio Calabria. E, per non essere da meno dei suoi predecessori, si è anche avventurato in una promessa: «Entro la fine dell’anno prossimo tutti i cantieri della Salerno-Reggio Calabria saranno completati. Ci metto la faccia». Non una parola su come affrontare le infiltrazioni criminali nei cantieri. E i dati ufficiali dell’Anas promettono meno bene di Passera: in quattordici anni dall’avvio dell’ammodernamento della A3 sono stati terminati appena il 56 per cento dei lavori. Il resto manca ancora all’appello. Più di un cantiere su dieci non è nemmeno stato avviato. E, nonostante le tante inchieste giudiziarie, la ‘ndrangheta continua comandare.

La strada che chiude i ristoranti

Succede in Lombardia. La patria delle infrastrutture che (secondo loro) fanno PIL.

Siamo stati dimenticati da tutti. Siamo stati costretti a chiudere, ma è come se non esistessimo e per giunta non abbiamo ancora preso un euro di indennizzo». 

A parlare così è Corrado Guzzetti, figlio della titolare del ristorante “Ponte di Vedano” di Lozza, costretto dalle circostanze a chiudere i battenti. Tutta colpa delle gravi perdite lamentate in seguito all’apertura del cantiere per la realizzazione del collegamento tra il lotto 1 della tangenziale di Varese e il tratto esistente. Guzzetti, che già in passato non aveva mancato di cercare di difendere l’attività di famiglia, è tornato a parlare dopo l’iniziativa dello scorso sabato, quando i cittadini sono stati invitati a visitare il cantiere alla presenza di politici e dirigenti.

«Si sono dimenticati presto delle promesse fatte e di tutto quello che non va tutto attorno. Nel 2010 sono venuti qui l’assessore Raffaele Cattaneo, il direttore generale di Pedemontana Umberto Regalia e mi hanno assicurato che nella fase esecutiva il cantiere avrebbe occupato meno spazio rispetto a quello che era tracciato sulle carte. Lo hanno detto qui, davanti a me, nel luglio del 2010, quando ho spiegato che un’attività come la mia non poteva stare aperta senza parcheggio. Il parcheggio è tutto occupato dal cantiere, ci staranno una trentina di macchine. Mi spieghino come può un ristorante da mille coperti tenere aperto con soltanto trenta posteggi».

E’ un caso piccolo nell’insieme ma rende bene l’idea delle ricadute delle “grandi opere” che di grande sembrano avere solo la miopia.

«Continuano a dirci che ci risarciranno – spiega infine Guzzetti – ma non sappiamo né come, né quando, né quanto. Intanto la banca chiede gli interessi del fido, Equitalia vuole il pagamento dei bollettini e noi non abbiamo più un’entrata. Non chiedo i soldi subito. Oggi mi accontenterei anche di un documento in cui si attesta che ho dovuto chiudere per via di questa opera pubblica, che tra espropri definitivi e temporanei mi ha portato via il parcheggio. Queste carte potrebbero essere offerte in garanzia alla banca, evitando così di dover pagare ogni mese rate salatissime di interessi».

La Lombardia incapace di costruire infrastrutture sociali. Appunto. Noi adesso glielo chiediamo con un’interrogazione.

Fanno mercato e lo chiamano politica

Corrado Passera, ministro per lo Sviluppo Economico, le Infrastrutture e i Trasporti, è stato ieri in visita e a pranzo in un convento francescano ad Assisi. Andrea Garibaldi racconta oggi sul Corriere della Sera che durante un lungo discorso il ministro ha detto cose che – dette da uomo di banche – fanno sospettare che abbia letto il libro di Michael Sandel da poco pubblicato negli Stati Uniti:

«Dopo la caduta di tutte le ideologie, si è adottata quella del mercato: ma il mercato è uno strumento, non l’unica regola che manda avanti la società»

Forse avrebbe dovuto dirlo durante un Consiglio dei Ministri al Presidente Monti. Però.

Attenzione: la mafia è anche al sud

Mario Portanova per Il Fatto Quotidiano:

Attenti che la mafia è anche al sud. Paradossale vero? E’ il disturbo bipolare dell’informazione, l’illogico alternarsi di euforia e apatia. Un’informazione che per decenni ha taciuto sul radicamento della criminalità organizzata nel Nord Italia, anche se in Lombardia, tanto per dire, tra il 1993 e il 1996 ci sono stati circa tremila (tremila!) arresti per mafia. Poi, soprattutto dopo la grande operazione Crimine Infinito del 13 luglio 2010, ha inondato l’opinione pubblica di inchieste, libri, documentari e trasmissioni televisive sulle attività dei boss trapiantati in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna…

Come evitare di ricascarci in futuro, a tutto vantaggio delle mafie che nelle fasi di silenzio più facilmente prosperano, al Sud come al Nord? Forse dovremmo abituarci a considerare Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra come questioni nazionali – e internazionali – senza troppe distinzioni, dalla Valle d’Aosta alla Valle dei Templi.

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Al binario21 si scende dalla torre per costruire dignità

Oggi Stanislao è sceso dalla torre-faro del binario 21 ponendo fine all’occupazione di protesta per la soppressione dei treni notte (qui trovate tutte le puntate della storia).

E’ una vittoria dell’ostinazione e una lezione di lotta e dignità. Perché quando tutto questo era iniziato nessuna pensava che potesse finire così. Ed è anche una lezione di solidarietà sociale. E forse abbiamo le nostre colpe se le istituzioni non sono state in grado di “sentire” l’urgenza senza il gesto eclatante dei resistenti abbarbicati alla torre-faro.

Ora mancano trenta persone da ricollocare. E noi, certo, non mancheremo di arrivare fino in fondo.