Vai al contenuto

Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Con l’arte l’Italia fa le fusa al Vaticano

Per riflettere e per chiedersi perché in Italia sembri sempre così difficile pensare ad una serena ma reale battaglia per la laicità nel suo senso più pieno che passa per una libertà più consistente della Chiesa senza strane e sgradevoli garanzie. Lo segnala Tomaso Montanari.

Ma che senso ha prendere un quadro degli Uffizi e spedirlo in una cittadina della provincia di Milano per ‘impreziosire’ la visita del papa, che vi si reca a celebrare la Giornata della Famiglia? Per la nostra classe politica (affetta da congenito e inguaribile analfabetismo figurativo) i musei sono ormai depositi di attrezzeria scenica di lusso, da tirar fuori a comando per abbellire i mitici ‘eventi’.
In un primo tempo era stato il celeste Formigoni a chiedere al pio Ornaghi di estrarre da Brera nientemeno che lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. Ma una funzionaria coscienziosa aveva fatto notare all’ignaro ministro che si trattava di una tavola assai delicata, a cui forse non era il caso di far correre rischi inutili. Così il ministro aveva eroicamente ripiegato su un Correggio (nientemeno), che sarebbe dovuto andare alla Regione: poi lo yacht di Daccò deve aver fatto il miracolo che la Costituzione non era riuscita a fare, e nessuno aveva più osato attentare alla tutela dei quadri di Brera.
Ma lo spirito del tempo evidentemente esiste davvero, e qualche altro genio deve aver detto che era scandaloso accogliere il papa senza tirar fuori almeno una ‘chicca’. E qui (ma vado per congetture) immagino che il direttore degli Uffizi Antonio Natali (uno dei pochi funzionari Mibac con le idee chiare) sia riuscito ad evitare che partissero Giotto, Raffaello o Leonardo e abbia tirato fuori dal cappello la meravigliosa e da poco splendidamente restaurata Madonna della Gatta di Federico Barocci. Con una generosa lettura iconografica, dagli Uffizi spiegano che il tema del quadro è perfettamente consono al tema della giornata (“La famiglia, il lavoro, la festa”): Giuseppe che lascia gli strumenti del falegname per accogliere Elisabetta e Zaccaria che portano il piccolo Giovanni a trovare il cuginetto Gesù, nato da poco. Al centro del dipinto c’è poi la famosa gatta, intenta ad allattare i suoi piccoli. Sul web non si manca di far notare che Benedetto XVI ama particolarmente i gatti: e certo fargli trovare un quadro con San Paolo primo Eremita nutrito dal corvo sarebbe stata una vera cattiveria, vista la fauna attuale dei Sacri Palazzi.
In questo deprimente aneddoto dell’Italia della decadenza ci sono almeno due morali, una culturale e una costituzionale.
La prima è che i quadri non sono soprammobili. Pochi mesi fa uno storico della chiesa e un prelato hanno usato una Madonna di Giotto per «impreziosire l’anno Italia/Russia» (parole loro): in un incredibile misto di arroganza e ignoranza si trattano i testi sacri della storia culturale occidentale alla stregua di bigiotteria. Si suggerisce che forse Barocci dipinse la Madonna della Gatta in occasione della visita di Clemente VIII ad Urbino: e allora? Barocci era intimamente legato alla sua Urbino, che lasciava assai malvolentieri e il cui Palazzo Ducale ritrae in moltissimi dei suoi quadri. Che senso ha collegare quell’episodio (vero o falso che sia) all’idea di spedire oggi il quadro a Bresso? Quella storiella non avrebbe dovuto (semmai) suggerire che non bisognava spogliare gli Uffizi (che col papa a Bresso c’entrano come il cavolo a merenda), ma rivolgersi ad opere e tradizioni di quella terra (se proprio era necessario tirar fuori un quadro da un museo: e non lo era)?
La seconda è che, entrando nei musei, le opere del passato hanno perso la loro funzione originaria (politica, religiosa, familiare…) acquistandone una puramente culturale (forse più alta, forse più libera: certo diversa). Esse sono uscite dal flusso degli scambi economici: ora non sono più in vendita, e grazie alla Costituzione appartengono a tutti i cittadini italiani, e in maniera più lata a tutta l’umanità. Un cittadino italiano di fede musulmana, o semplicemente ateo, ha tutto il diritto di disapprovare il fatto che un ‘suo’ dipinto venga piegato e strumentalizzato nei rapporti tra il potere politico italiano attuale e il Vaticano. Oltre al fatto che avrebbe tutto il diritto di trovare quel quadro appeso al suo chiodo, agli Uffizi.
Lo giudicherei comunque culturalmente insensato, ma perché non è la Pinacoteca Vaticana a far dono ai cittadini italiani dell’esposizione di qualche sua poco visibile opera? Perché l’Italia non perde occasione per autorappresentarsi come una grande periferia della Città del Vaticano?
Come in questi giorni ci ricordano le tragiche immagini dell’Emilia, il nostro patrimonio è il tessuto vivo e indifeso della nostra identità: ed è su questo che dovrebbero concentrarsi le poche energie economiche e mentali. E invece preferiamo baloccarci con musei ridotti a location di sfilate di moda, o a forzieri da cui estrarre gemme per compiacere i piccoli e grandi potenti del momento.

‘Siamo stanchi, Signor Presidente, di essere disincantati’: la lettera degli studenti per salvare Telejato

Questa lettera sta circolando ora nei licei bolognesi, e via via in molte altre scuole. La trovate anche su diecieventicinque.it, la testata bolognese della rete dei Siciliani. “Dieci e venticinque”, il nome del sito, a Bologna vuol dire qualcosa. Bologna che resiste, Bologna allegra e dura, Bologna di tutti noi.

Riccardo Orioles la rilancia e ne ha tutti i motivi. La legga, Signor Presidente. Qua dentro c’è l’Italia che vogliamo.

Egregio Signor Presidente,

ragazzi di tutt’Italia si rivolgono direttamente a Lei, quale massimo rappresentante dello Stato, per trovare una voce all’onda di rancore che sta seppellendo la nostra generazione.

Per l’importanza del documento che Le sottoponiamo, ci auguriamo caldamente che riterrà di renderne note alla Nazione le parole più significative.

Il cuore della presente lettera consiste senza dubbio di un proposito di natura pratica. D’altro canto, la sua causa profonda sta nell’impotenza in cui siamo costretti dalle attuali democrazie rappresentative, sta nell’angoscia di agire, e nella consapevolezza di vivere, proprio per quei principi di progresso che, sebbene continuamente negati da squallore e ottusità, trainano la civiltà europea da che si aprì la ricerca per un criterio di giustizia. E, in verità, il cuore amaro della nostra lettera sta proprio nel valore dell’educazione, della scuola, modello di vita e di politica.

In principio vorremmo tuttavia parlarLe dell’episodio che è stato l’innesco del nostro movimento, e degli interventi che ci siamo auspicati sarebbero seguiti all’appello. Nel corso di un viaggio d’istruzione in Sicilia, all’interno di un itinerario organizzato dall’associazione “Addiopizzo“, alcuni di noi, tra cui i redattori della presente, hanno conosciuto la piccola realtà di Telejato, una rete televisiva comunitaria totalmente dedita all’erosione del potere mafioso. Attraverso lo scherno dei miti e dei bassi modelli dell’illegalità, Telejato ci ha stupiti per determinazione, costanza, per la volontà ferma di migliorare il territorio, e di essere efficace. Valore, l’efficacia, che stiamo lentamente dimenticando, essendo ormai i cittadini italiani abituati a delegare le responsabilità, a lasciare il proprio dovere civico in eredità ad anonime reti amministrative.

Il confronto con Pino Maniaci, proprietario di Telejato, curiosamente, anzichè vertere su temi riguardanti la Mafia in modo specifico, si è concentrato proprio su questo, cioè sulla possibilità dell’individuo di partecipare al bene comune.

Certamente non tutti possono gestire televisioni antimafia, ma l’antimafia vera e propria è forse quella che si crea a partire dall’onestà e dall’interesse per il territorio dei singoli: questa la conclusione cui eravamo insieme giunti, e che, in parte, aveva placato l’insoddisfazione di vederci come al solito disincantati spettatori degli equilibri di potere.

Siamo stanchi, Signor Presidente, di essere disincantati. La conoscenza degli istinti meschini che sembrano dirigere la storia oramai non può più rassicurarci. Quello che le generazioni che ci hanno preceduto ignorano, è che il nostro disimpegno non è stato dovuto a stupidità o leggerezza, ma piuttosto al cinismo nato dalla lucida osservazione della realtà, e dall’abitudine alla sconfitta. Tuttavia, per l’improvvisa incombenza di un disastro sul nostro futuro, quello della crisi, quello di un’inadeguatezza di tutte le istituzioni vigenti – da quelle ideali a quelle concrete – a fronteggiare un passaggio di epoca, guardarvi serenamente non ci è più possibile.

Quando al termine dell’incontro siamo venuti a sapere che Telejato avrebbe chiuso il 30 giugno, al momento dell’entrata in vigore del digitale terrestre in Sicilia, nuovamente siamo rimasti a bocca aperta: nuovamente, le maglie della burocrazia, addirittura le leggi dello Stato sembravano soffocare l’impegno civile da cui esse stesse erano nate. Proprio allora la figlia di Maniaci, Letizia, coraggiosa, rinomata giornalista, è sgattaiolata tra di noi per uscire dallo studio televisivo, a capo chino, come cercando di non farsi notare. Proprio lei che, così giovane, riprende gli scoop e rende possibile il servizio di informazione di Telejato, incurante del rischio che grava sulla famiglia. Per quell’esempio di modestia e di abnegazione in quel momento siamo esplosi in un applauso, ritenendo d’altra parte che null’altro avremmo potuto fare, che le nostre azioni corrette non sarebbero bastate, che Telejato avrebbe chiuso, qualunque cosa ne pensassimo: che il fatto sia giusto o che non lo sia.

Ora, la riflessione che vogliamo proporre alla Nazione è in merito al significato della parola “politica”. In fondo, l’antimafia è politica. Poichè, se si considera la Mafia come quel fenomeno sociale di affidamento del territorio a interessi esclusivamente patrimoniali, l’antimafia è quel dovere di amore per il territorio, per la Nazione, per la propria comunità, che va ben oltre gli egoismi di parte. E se un certo amore per il bene comune è un dovere civico, allora certamente l’antimafia è politica: perchè non dimentichiamo che “politica” non significa insieme di partiti, lotta di classi o di capitali, ma “questioni della vita cittadina”, e che un tempo aveva traduzione “Res Publica”, e che ora, estesisi i nostri Stati da città a popoli interi, trova significato come “vita comunitaria”. Questa la nostra convinzione.

Quale comunità giovanile avremmo potuto chiederLe in merito a giustizia, meritocrazia, rottura delle briglie della finanza, Unione Europea, e a tante delle idee che animano i nostri dibattiti. Invece, La preghiamo di garantire una qualche forma di sopravvivenza a Telejato.

Da atti concreti, mirati vorremo ripartire, e fatti significativi. Riteniamo che dare vita a Telejato, come emittente di diverso genere oppure riservando una percentuale di frequenze alle reti comunitarie, sia oggi, proprio oggi, una priorità. Riteniamo sia questo il momento giusto – il momento di scarse risorse – per investire sullo spirito comunitario, e che solo in questo modo avremo un’occasione per salvare l’Italia, armonizzare l’Europa e governarla.

Infine, per lo meno, La preghiamo di tutelare la famiglia che di Telejato costituisce l’esistenza.

Noi siamo nati da quella famiglia. Se l’Italia ha come nucleo fondamentale la famiglia, allora è in una famiglia che costruisce i valori civici dell’Italia che la Nazione trova le proprie radici. Siamo cresciuti in un sistema di principi tipicamente familiari, nonchè nella nozione di lavoro come riscatto dell’uomo dall’assoggettamento alla sua fame, e alla sua voracità, per i simili che ama. Purtroppo, questi capisaldi della nostra società civile, abbandonati da molte famiglie, li hanno raccolti soltanto le scuole, realtà che sono state volutamente avulse dal potere ma che, lo si voglia o meno, hanno formato i nostri ideali. E noi riteniamo sia maturato il tempo per cui quegli ideali, dalle famiglie che resistono all’istruzione che li alimenta, passino finalmente al potere effettivo, al potere politico.

Se verrà salvata Telejato e la sua famiglia, si darà un significato alla nostra educazione politica, unica fonte della Nazione stessa. E vedremo fin dove le istituzioni che politiche sono dette, nate per unirci, siano voci della Nazione, e dunque avverse alla Mafia.

1. Liceo Galvani, BO

2. Liceo Minghetti, BO

3. Liceo Fermi, BO

4. Liceo Righi, BO

5. Liceo Copernico, BO

6. Liceo Sabin, BO

7. Istituto Laura Bassi, BO

8. Liceo Manzoni, BO

9. I.I.S. Bartolomeo Scappi, Castel San Pietro Terme (BO)

10. Liceo da Vinci, Casalecchio di Reno (BO)

11. Istituto Giordano Bruno, Budrio (BO)

12. Liceo Mattei, San Lazzaro di Savena (BO)

13. Liceo Tassoni, MO

14. Liceo Parini, MI

15. Liceo Marco Polo, VE

16. Liceo Gioberti, TO

17. Istituto Baldessano-Roccati, Carmagnola (TO)

18. Liceo Cascino, Piazza Armerina (EN)

19. I.I.S. Marzoli, Palazzolo sull’Oglio (BS)

20. Consulta Provinciale Studenti di Brescia

20120603-123153.jpg

Il festival a casa del boss

Pietro Nardiello è un amico con cui ho avuto la fortuna di condividere una giornata significativa e bellissima nella Casla di Principe che profuma di Don Peppe Diana (qui il monologo che ho scritto e recitato per l’occasione). E’ uscito da poco il suo libro. E ve lo consiglio:

IL FESTIVAL A CASA DEL BOSS di Pietro Nardiello Phoebus Edizioni

Il Festival dell’Impegno Civile è l’unica rassegna italiana interamente realizzata nei beni confiscati alla criminalità organizzata. Il giornalista Pietro Nardiello, ideatore del progetto, con questo libro accende un riflettore sulle motivazioni del Festival, i retroscena, le difficoltà, le speranze e le gioie, nate in questi luoghi confiscati, dove si tenta ogni giorno di  costruire un’Italia diversa.

Il progetto del Festival, fortemente voluto dal Comitato don Peppe Diana, si ispira ai valori e ai principi del sacerdote assassinato dai camorristi a Casal di Principe. “Per amore del mio popolo non tacerò”. Il libro, pubblicato dalla Phoebus Edizioni, racconta le voci di questo popolo che continuano a parlare ai giovani, agli anziani, alle donne, ai bambini di questi territori martoriati, anche attraverso un Festival, fatto tutto, a casa del boss.

Una vittoria innanzitutto culturale, psicologia, fisica, concreta, reale: “A casa del boss“ si organizzano spettacoli di teatro, di musica, incontri di letteratura e dibatti sui temi della legalità, dell’antimafia, della politica, della cultura, dell’impegno civile. Il libro Il Festival a casa del boss è il racconto di una utopia concreta, del riscatto culturale di tutti i nostri non luoghi.

Il volume è arricchito da pregevoli considerazioni di importanti testimoni sociali, come il giudice Lello Magi, il procuratore Cafiero de Raho, Isaia Sales, Peppe Barra, don Aniello Manganiello, Antonietta Rozera e un’intervista impossibile di don Peppe Diana.

Interviste:

Francesca Ghidini  intervista il giudice Lello Magi;

Stefano Corradino intervista il procuratore Cafiero De Raho;

Vito Faenza intervista Isaia Sales;

Mariagrazia Poggiagliolmi intervista Peppe Barra,

Armida Parisi intervista don Aniello Manganiello,

Michela Monti  intervista la prof.ssa Antonietta Rozera,

Valeria Palumbo intervista don Peppe Diana

Diritti d’autore: Saranno devoluti in beneficenza all’associazione “Resistenza Anticamorra”, coordinata da Ciro Corona, per la realizzazione a Scampia di un ristorante pizzeria sociale dove lavoreranno giovani del territorio, ragazzi minorenni in attesa di giudizio e condannati a scontare pene alternative al carcere.

Sentirsi a casa, in teatro, a Milano

Succede che ci sono teatri che in fondo sono come stare a casa. Il Teatro della Cooperativa è il palcoscenico a Milano in cui ritrovo tutte le mie cose. So farci i passi ad occhi chiusi per misurarne i muri, ascoltare le voci dal camerino per intuire la temperatura emotiva della platea e ritrovare le luci come le avevamo lasciate. Renato Sarti è il padrone di casa che ti apre la porta con il sorriso che stacca per un secondo dall’impegno e ti lascia entrare per farti accomodare.
Per questo tornare in scena nei prossimi giorni al Teatro della Cooperativa (dal 6 al 16 giugno, tutte le informazioni e i numeri per prenotare li trovate qui) è un rientro a casa dopo un lungo viaggio. Quando appoggi la valigia e guardi intorno che tutto sia come quando sei partito.
Il 6 giugno Cisco suonerà le musiche in scena dal vivo. Fino al 16 noi siamo lì. Se avete voglia sapete dove trovarci.

(grazie anche a treninellanotte per la bella, umanissima recensione)

20120603-115432.jpg

La politica e la puzza di carogna

Michele Serra, oggi.

È in corso una polemica personale e procedurale, dentro il Pd, a proposito del doppio incarico del nuovo sindaco di Civitavecchia, che è anche deputato. Costui ha definito “carogne” i suoi compagni di partito che (in maggioranza) gli chiedono di dimettersi immediatamente dalla Camera. Ma la sola carogna delle quale si sente l’odore è l’intelligenza della politica, che dev’essere in avanzato stato di decomposizione se esiste ancora qualcuno, là dentro, così ottuso da non capire che ogni gesto meno che limpido, in questo momento, equivale a un suicidio. La domanda è semplice: come è possibile che la stessa persona faccia in modo decente due lavori difficili come il deputato della Repubblica e il sindaco di una città? La risposta è altrettanto semplice: non è possibile, a meno che uno dei due lavori sia interpretato come una carica onorifica. Una prebenda. Un premio alla carriera. È accaduto, in passato, infinite volte. Non si contano i casi di doppi incarichi. Ora, finalmente, è stato deciso (anche dentro i partiti) che non è più il caso, non solo per ragioni di leggi e regole, ma per ragioni di rispettabilità della politica. Che essendo una cosa seria, va fatta seriamente, e a tempo pieno. Non è incredibile che se ne debba ancora discutere?

Da La Repubblica del 02/06/2012.

I mille rivoli del processo Mori

A Palermo si sta sbriciolando un pezzo della storia d’Italia. Giuseppe Pipitone (che segue con attenzione il Processo Mori) ne scrive proprio oggi:

L’elenco degli indagati per la Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra nel periodo 1992 – 93 si allunga. Anche il generale dei carabinieri Antonio Subranni risulta infatti iscritto nel registro delle persone indagate nell’inchiesta della procura di Palermo. La posizione del generale Subranni è stata resa nota questa mattina durante l’udienza del processo che vede imputati davanti la quarta sezione penale di Palermo l’ex generale del Ros Mario Mori e il colonnello dei carabinieri Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995.

Il presidente della corte Mario Fontana ha infatti chiesto all’accusa se Subranni dovesse essere sentito semplicemente come teste o come persona indagata in procedimento connesso. “Attualmente – ha risposto il pm Di Matteo – Subranni è sottoposto a indagine in procedimento collegato a quello in corso”, ovvero l’inchiesta sul patto sotterraneo tra pezzi delle istituzioni e la mafia, su cui la dda palermitana indaga dal 2007. Subranni, generale dei carabinieri in pensione, si è quindi appellato alla facoltà di non rispondere, limitandosi a sintetizzare brevemente le inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto negli ultimi anni. A capo del Ros dal 1990 al 1993, Subranni era indagato nello stesso procedimento che ha portato alla sbarra Mori e Obinu per la mancata cattura di Provenzano. La sua posizione fu stralciata e la procura palermitana ne richiese l’archiviazione nel 2011. Appena due settimane fa, la sua posizione era stata archiviata per decorrenza dei termini anche dalla procura di Caltanissetta, che nell’ambito della nuova inchiesta sulla strage di via d’Amelio, lo aveva indagato per concorso esterno in associazione mafiosa.

Questa volta il reato ipotizzato per l’ex capo del Ros dagli inquirenti è quello disciplinato dall’articolo 338 del codice penale, ovvero violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato: lo stesso per cui risultano indagati nell’inchiesta sulla Trattativa anche lo stesso Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donnol’ex ministro Calogero Mannino, il medico Antonino Cinà, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Le parole che fanno riflettere sono quelle di Gaspare Mutolo: lì dentro potrebbe esserci il senso di via D’Amelio e della seconda Repubblica.

Gaspare Mutolo, l’ultimo pentito interrogato da Borsellino prima che il giudice venisse assassinato nella strage di via d’Amelio il 19 luglio del 1992. Mutolo ha raccontato che “durante un interrogatorio il dottor Borsellino mentre parlava con delle persone delle istituzioni nel corridoio gridò all’improvviso: questi sono dei pazzi, questi sono dei matti. Era disgustato e arrabbiato, era incazzato nero con personaggi dello Stato e delle istituzioni perché volevano offrire ai mafiosi una eventuale dissociazione. Sapeva che c’erano questi contatti in corso. C’erano persone delle istituzioni che avevano fatto capire di essere d’accordo. Ho capito che c’era un accordo tra i mafiosi che si dovevano dissociare in cambio di una specie di amnistia”.

Il collaboratore di giustizia ha anche ripercorso lo storico interrogatorio del primo luglio ’92. ” Quel giorno, durante il colloquio – ha spiegato – il dottor Borsellino ricevette una telefonata e mi disse che doveva andare al Ministero e che sarebbe tornato dopo poco. Tornato dal ministero il dottor Borsellino era turbato e nervoso: a un certo punto mi misi a ridere perché stava fumando contemporaneamente due sigarette, una la teneva in bocca e l’altra in mano. Dopo Borsellino mi raccontò di aver incontrato il dottor Bruno Contrada che gli aveva detto: dica a Mutolo che se ha bisogno di chiarimenti sono a disposizione. A quel punto ho capito che il mio interrogatorio, che doveva restare segretissimo, era in realtà il segreto di Pulcinella”. Mutolo fu il primo accusatore di Contrada, ex numero tre del Sisde, che sta scontando una condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle Vittime della strage di Via dei Georgofili, coglie il punto con il suo comunicato stampa di oggi:

Gaspare Mutuolo testimonia che il Giudice Borsellino nel 1992, poco prima di morire era sconvolto all’idea che uomini dello Stato volevano la Dissociazione per la mafia. Figuriamoci quanto ci siamo sconvolti noi quando il 3 luglio del 1996 – dalle pagine di riviste quali Famiglia Cristiana, e quotidiani importanti, abbiamo letto le parole di soggetti che invocavano una legge sulla Dissociazione. Infatti , il 12 giugno del 1996 eravamo appena andati all’udienza preliminare per la strage di via dei Georgofili contro “cosa nostra” che aveva massacrato i nostri figli e pensare ad una dissociazione dei mafiosi stragisti come fu per le BR ci sconvolse a tal punto che pensammo al tradimento per vili trenta denari. Secondo alcuni che non vogliamo neppure nominare, senza dire nulla , senza pagare il giusto prezzo in termini di rivelazioni ed economici, “ cosa nostra” poteva semplicemente dire con una norma ad hoc “non appartengo più alla mafia”. Ancora oggi inorridiamo al pensiero di ciò che abbiamo sofferto in quei momenti davanti alla richiesta di una legge che sotto il tritolo non seppelliva solo le nostre vittime, ma anche le nostre speranze di giustizia. Gaspare Mutuolo ha rinnovato oggi tutta la nostra rabbia contro chi della dissociazione concessa alla mafia con una norma, voleva fare una bandiera di garantismo e della confisca dei beni alla mafia, solo un ritorno elettorale e non il sostegno alle vittime di cosa nostra. Quello del 1996 non fu l’unico tentativo di consentire alla mafia la dissociazione, ci hanno provato oltre anche fino al 2002 e chissà quante altre volte ancora. Siamo più vicini che mai alla figura del Giudice Borsellino, che ben conosceva la mafia e così anche la politica , gli siamo riconoscenti per quanto ha cercato di fare per tutti noi. Purtroppo Borsellino ha pagato un prezzo altissimo in quel luglio 1992, come poco dopo pagheranno i nostri figli a maggio del 1993, perché Borsellino non fu ascoltato, ma ucciso.

Stiamoci attenti e prendiamoci cura di questo processo. E’ una lezione di storia.

 

2 giugno

Buona Festa della Repubblica. Quella fondata sul lavoro e che ripudia la guerra.

Il nuovo arrivato nel Consiglio Regionale della Lombardia: Antonio Romeo

E’ Antonio Romeo, ex sindaco di Limbiate. Sostituisce Massimo Ponzoni che è decaduto (mentre si trova ancora in carcere) e che nelle carte dell’inchiesta Infinito viene definito “capitale sociale della ‘ndrangheta”. Sembrerebbe una buona notizia, direte voi. Ecco due righe ben scritte da Il Fatto Quotidiano sul nuovo arrivo:

In favore di Romeo, non indagato, si registra persino una dichiarazione pubblica di voto espressa da Natale Moscato, grosso imprenditore edile di Desio, la cittadina brianzola culla del potere di Ponzoni. Natale Moscato è orignario di Melito Porto Salvo ed è imparentato con la famiglia Iamonte, storica cosca di ‘ndrangheta egemeone nel paese del reggino. Già assessore comunale all’urbanistica per il Psi, fu arrestato per associazione mafiosa nel 1994 e pi assolto. La famiglia Moscato continua a essere citata nei rapporti investigativi sulla criminalità calabrese in Lombardia, e Annunziato, il fratello di Natale, figurava tra i presunti boss da arrestare nell’inchiesta Infinito del luglio 2010, ma era deceduto prima del blitz. In un’intervista al Giornale di Desio del 17 agosto di quello stesso anno, dove nega ogni coinvolgimento con la criminalità, Natale Moscato dice la sua sulle elezioni regionali lombarde svoltesi in primavera: “Massimo Ponzoni non è mai stato presente a Desio né in Brianza e gli stessi brianzoli l’hanno punito. Io non ho fatto la campagna elettorale per nessuno, ma come sa ho una famiglia numerosa e tutti noi alle Regionali abbiamo votato per Antonio Romeo, un sindaco che al suo paese, a Limbiate, è stato premiato con tremila voti. Evidentemente fa bene il suo lavoro e, lui sì, merita la mia stima: Ponzoni non avrebbe neanche dovuto essere eletto”.

Un accenno a questi movimenti elettorali si trova nelle intercettazioni dell’inchiesta monzese condotta dai pm Walter Mapelli (lo stesso che ha inquisito per corruzione il dirigente del Pd Filippo Penati), Giordano Baggio e Donata Costa. Uno sconosciuto parla con Franco Riva, un altro amministratore del Pdl arrestato, spiegando: “Mi hanno detto a Cesano chi ha votato quello di Limbiate, tutto il clan Moscato… Soliman e gli altri tre consiglieri, Giacomini, Mandin… il clan Moscato”. Limbiate è la città dove Romeo era sindaco, ma aveva deciso di dimettersi per tentare la strada del Pirellone. Riva risponde: “Il Ponz mi ha detto che è contento di essersi tolto da quel giro lì”. Ora i destini si intrecciano di nuovo: il candidato preferito dalla famiglia Moscato rischia di entrare in consiglio regionale al posto del “Ponz”. Romeo non è indagato né accusato di nulla, ma anche questa vicenda potrebbe diventare molto imbarazzante per il presidente Formigoni, in caso di sostituzione.

E siccome (fidatevi) ne parleremo a lungo cominciate a tenere da parte questo post.

Tutto bene

A Brescia alla commemorazione per Piazza della Loggia il bilancio finale è di 11 persone denunciate che dovranno rispondere di resistenza a pubblico ufficiale aggravata, lesioni e accensioni pericolose, più  circa venti studenti che sono rimasti feriti in seguito alle colluttazioni e manganellate delle forze dell’ordine. Ne scrive Andrea.