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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Fare l’infame. In Veneto.

"O Dottò" e il suo Veneto: Crisci, il boss del Nord-Est

La sua primavera è iniziata due anni fa, quando ha trovato la forza di denunciare i camorristi che volevano impossessarsi della sua azienda. Ha coraggio da vendere Antonio, origini meridionali e viso sorridente nonostante la vita blindata che gli è stata imposta: è il titolare di una delle oltre 100 aziende venete finite nella mani del clan dei casalesi. Gli altri imprenditori hanno accettato passivamente gli ordini dei boss che tra Padova, Treviso, Rimini e Milano, gestivano un giro di usura camuffato dalla società finanziaria “Aspide”. Lui invece, non solo è corso dai magistrati appena intuito che il prestito concessogli era solo una scusa per acquisire l’azienda, ma è stato infiltrato nelle file del clan.

E così ogni sera, per otto lunghi mesi, dopo la giornata vissuta al fianco dei boss, scriveva il rapporto su affari, pestaggi, donne, droga e umiliazioni a cui aveva assistito. Un teatro dell’orrore in cui Antonio recitava la parte dell’impresario amico dei Casalesi, diventando il punto di riferimento economico del clan. Il cantiere della sua ditta era diventato il palcoscenico dove il boss Mario Crisci e suoi uomini mettevano in scena i peggiori abusi sugli imprenditori vittime dell’usura. 

“Utilizzavano il marchio del clan in franchising”, scherza in tono amaro Antonio che del Veneto ha visto il benessere ma anche la crisi economica che spinge molti imprenditori togliersi la vita e a tuffarsi nelle mani degli strozzini mafiosi. “Le due cose non sono slegate”, fa notare. A mettere in contatto l’imprenditore infiltrato con la società dei camorristi è un suo collega, già debitore del clan. “Sapeva che stavo cercando un prestito, e mi suggerì di andare all’Aspide, che senza troppe domande e garanzie mi avrebbe concesso tutti i soldi che chiedevo”.

Un pezzo tutto da leggere e conservare del bravo Giovanni Tizian per Repubblica che racconta come le mafie si sentano impunite in Veneto. Impunite non solo dal punto di vista imprenditoriale e giudiziario ma (e questo è l’aspetto terrificante) nei modi e nei costumi: nella superbia di “apparire” mafiosi, nella violenza esibita, nella retorica mafiosa utilizzata come materiale didattico.

Per lui la libertà è più forte della burocrazia, del pericolo, dell’indifferenza di tanti suoi colleghi che a testa bassa preferiscono non sentire, non vedere e non parlare di quel mostro criminale che divora pezzi interi di economia.

 

Brescia che si incarta sulla discarica di amianto

La situazione di Brescia dal punto di vista ambientale e di gestione del territorio è un bigino indispensabile per una modello di gestione regionale credibile (e possibilmente vincente) del dopo Formigoni. Brescia ha le carte in regola per essere la summa di tutto ciò che non si deve fare e per ridefinire il termine di saturazione ambientale. Ne avevamo già discusso qui e in commissione ambiente con il Comitato contro le nocività che ha dimostrato come ormai i cittadini abbiano gli strumenti e la voglia per essere più tecnici dei tecnici nelle analisi delle criticità. La discarica di amianto di via Brocchi sarebbe il colpo al cuore di una situazione che era già insostenibile anni fa. Eppure le soluzioni nel breve termine sono possibili: ieri sono stato in Piazza della Loggia con i membri del comitato e la stampa per provare una volta per tutte a fare chiarezza e richiamare tutti alla responsabilità. Ne ha scritto bene Alessandra Troncana sul Corriere della Sera:

In gergo si chiama ordinanza contingibile urgente. In pratica si tratta di un escamotage con cui il sindaco Adriano Paroli, cui spetta tutelare la salute pubblica, potrebbe ottenere dalla Regione la sospensione dell’autorizzazione alla discarica di via Brocchi, giusto il tempo di appurare l’accumulo di criticità dell’area. E’ la proposta che i vertici del Sel hanno lanciato giovedì 24 maggio sotto la Loggia, nel corso di un incontro con cittadini e membri del Comitato contro le nocività. Come ha detto il consigliere regionale Giulio Cavalli, «Mentre aspettiamo gli esiti delle analisi sulla quantità di Pcb e diossina che infestano San Polo (questione di giorni e l’Arpa le renderà note, ndr) è l’unica cosa che si potrebbe fare per fermare, anche solo poche settimane, questo scempio ambientale». La Giunta non potrebbe fare nulla di più, dal momento che l’autorizzazione alla costruzione del sito spetta al Pirellone. Intanto, la questione sarà discussa nel prossimo consiglio comunale, previsto mercoledì 30 maggio. Lidia Bontempi, del Comitato, non esclude che si riprenda lo sciopero della fame: «Già, perché il problema di via Brocchi figura al sedicesimo posto nell’ordine del giorno. Niente di più facile che della discarica non si parli nemmeno mercoledì. Vedremo che fare».

Sonia Alfano e l’IDV, per l’ultima volta

Poiché qualcuno si è agitato (un po’ troppo forse, no?) per la mia semplice ripresa del comunicato di Massimo Donadi sul “ruolo” (uso un eufemismo, va) di Sonia Alfano in IDV, accolgo con piacere la spiegazione e la cronologia degli eventi che Sonia ha deciso di scrivere sul suo sito. Resta inteso poi che ognuno può tirare le proprie conclusioni e avere le proprie idee. Ma almeno si smette di millantare altro perché in politica non c’è niente di più salutare delle proprie prese di posizione.

Il manuale antimafia di Giuseppina Pesce

Le parole sono importanti. E forse ci perdiamo sui convegni e le analisi mentre qualcuno serve elementi che semplificano la visione, devastanti nella loro semplicità, mentre ci dicono cosa sta succedendo e quali sono i lati della storia che non riusciamo o non vogliamo vedere. E che comunque sono sempre difficili da raccontare. Giuseppina Pesce ha deposto durante un’udienza del processo “All Inside” che ha portato alla sbarra la cosca Pesce proprio grazie alle sue dichiarazioni. Le frasi sono lame affilate. Lo racconta un articolo di net1news:

«I contatti con Carnevale – ha detto la pentita – avvenivano tramite mio suocero, Gaetano Palaia, che era suo amico».  Il giudice Carnevale, il quale in alcune intercettazioni proferiva insulti contro il defunto giudice Giovanni Falcone,  veniva definito “l’ammazzasentenze”: era stato il pentito Gaspare Mutolo a dichiarare che Carnevale era “avvicinabile”. Dopo di lui altri 11 pentiti hanno fatto il nome del magistrato. Nel 2002, però, la Cassazione lo ha assolto con formula piena perché “il fatto non sussiste”, constatando prove insufficienti a sostenere tali accuse e respingendo anche le deposizioni dei colleghi di Carnevale, magistrati di cassazione, che denunciavano le sue pressioni per influire sui processi: secondo i giudici le loro dichiarazioni erano inutilizzabili in giudizio. Successivamente la deposizione di Pina Pesce ha avuto come oggetto la descrizione degli affari della cosca Pesce. Questa, secondo quanto ha affermato la pentita rispondendo alle domande del pm, Alessandra Cerreti, trae enormi guadagni dal controllo degli appalti per l’ammodernamento dell’A3 nel tratto che attraversa la Piana di Gioia Tauro per quanto riguarda, in particolare, i lavori di movimento terra. In più, ha riferito ancora la pentita, ci sono le estorsioni:  « Non c’è un negozio o un’impresa di Rosarno – ha detto Giuseppina Pesce – che non paga il pizzo. A meno che non sia di proprietà di nostri parenti».   La pentita ha riferito delle disposizioni che vengono dettate dai capi della cosca detenuti attraverso colloqui con parenti che si spacciano come loro familiari grazie a falsi certificati di parentela che sono stati rilasciati dal 2006 e fino al 2011 dal Comune di Rosarno. Giuseppina Pesce ha parlato anche di come la cosca riuscisse a nascondere i cadaveri delle persone uccise e fatte sparire nel cimitero di Rosarno minacciando i dipendenti. «I corpi di mio nonno Angelo e di mia zia Annunziata – ha detto la pentita -, uccisi entrambi per punizione perchè avevano relazioni extraconiugali, in realtà non sono stati portati lontano da Rosarno. Si sono sempre trovati nel cimitero del paese in loculi senza nome dove venivano tumulati di notte».   Un ultimo riferimento la pentita l’ha fatto al giro di carte di credito clonate gestito dalla cosca. «Carte – ha detto – intestate a clienti statunitensi che le hanno utilizzate in alberghi e ristoranti della Lombardia. Ne ho avuto una anch’io e l’ho usata un paio di volte prima che il titolare la revocasse dopo avere notato spese che non aveva effettuato».

Ecco, per chi voleva una lezione di mafia (e antimafia) qui gli elementi ci sono tutti.

Umberto Ambrosoli e Giulio Cavalli si tuffano nell’epopea di Andreotti

da ILCITTADINO

«Il processo Andreotti racconta che, in questo Paese, ripetere una bugia infinite volte funziona»: questa l’amara tesi di fondo di Giulio Cavalli, attore e regista teatrale, nonché scrittore e consigliere della Regione Lombardia nelle file di Sinistra ecologia e libertà, che ha presentato mercoledì sera a San Giuliano la sua ultima fatica, il libro “L’innocenza di Giulio”. In una serata organizzata dalla sezione locale di Sel e moderata da Valentina Draghi, esponente locale del partito di Nichi Vendola, il poliedrico autore lodigiano è intervenuto insieme a Umberto Ambrosoli, figlio dell’avvocato e giudice Giorgio Ambrosoli, ucciso nel 1979 mentre operava come liquidatore della banca di Michele Sindona, personaggio legato allo storico esponente della Dc.Argomento del libro, l’irrazionale normalità con cui il processo Andreotti, giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa e dichiarato nel 2003 prescritto per aver commesso il reato fino alla primavera del 1980, è stato mediaticamente celebrato alla stregua di un’assoluzione, senza lasciare strascichi degni di nota nell’opinione pubblica del nostro paese. Tutto questo nonostante, come affermato da Cavalli, «una lettura politica della vicenda ci dice che egli ha usato la mafia per motivi di consenso elettorale». Tuttavia il testo, e la sua presentazione, non si sviluppa tanto sul terreno storico, ma rimane invece ancorato ad una prospettiva di tipo politico: posto che «il metodo Andreotti è un metodo in cui poche persone si mettono d’accordo per perseguire il proprio guadagno personale ai danni di quello pubblico», ne deriva che «è importante raccontare la vicenda Andreotti per riconoscere gli “andreottismi” contemporanei, per capire le dinamiche andreottiane che vengono usate quotidianamente ancora oggi». Solo in questo modo si può porre rimedio al grande vulnus che ha permesso il passaggio sotto silenzio delle vicissitudini giudiziarie dell’anziano senatore a vita, ovvero «l’aver dimenticato di insegnare alle giovani generazioni ad essere curiose, a porre le domande giuste». Il provocatorio auspicio di Cavalli è che, per facilitare la presa di coscienza della responsabilità collettiva verso il bene comune, gli argomenti legati alla vita politica diventino “pop”, abituale oggetto delle usuali conversazioni quotidiane. «L’analisi di quegli anni – è l’auspicio di Umberto Ambrosoli – non deve procurare un senso di ingiustizia e frustrazione, ma bensì farci aprire gli occhi, renderci più partecipi. Questa è la sfida che Giulio Andreotti ci consegna. Perché storie come questa siano mattoni con i quali poter costruire un argine che permetta di tenere fuori una simile concezione del potere dal futuro del Paese».

Riccardo Schiavo

Economia e comunità

Una riflessione economica senza fronzoli, senza utopie e che proviene dalle pagine di un quotidiano nazionale (a indicare che l’urgenza di un alternativa economica è generalizzata). Mark Twain diceva che non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma di ciò che si crede vero e invece non lo è per intendersi. L’articolo è lungo ma non complicato e, del resto, come diceva ieri sera con me Umberto Ambrosoli la ‘curiosità costa fatica’.

MAU­RO MA­GAT­TI (da Repubblica)
Con la cri­si del 2008 sia­mo en­tra­ti nel­la “se­con­da glo­ba­liz­za­zio­ne”: la fa­se espan­si­va è ter­mi­na­ta, co­me sap­pia­mo be­ne, e si av­via una nuo­va sta­gio­ne in cui la que­stio­ne del­la cre­sci­ta va ri­pen­sa­ta, a par­ti­re dal­la ri­de­fi­ni­zio­ne del rap­por­to tra eco­no­mia e po­li­ti­ca.
Co­me ad una va­sca a cui è sta­to tol­to il tap­po, le eco­no­mie con­tem­po­ra­nee, in­te­gra­te nei mer­ca­ti e nel si­ste­ma tec­ni­co pla­ne­ta­rio, ri­schia­no di gi­ra­re a vuo­to, bru­cian­do in un bat­ter d’oc­chio quan­to fa­ti­co­sa­men­te rie­sco­no a pro­dur­re. Èque­sto il no­do che strut­tu­ra og­gi i rap­por­ti tra eco­no­mia e po­li­ti­ca. Ed è ri­spet­to a que­sto no­do che i di­bat­ti­ti di que­sti me­si – tan­to quel­li sul­l’Eu­ro­pa quan­to quel­li sul­la cre­sci­ta – deb­bo­no es­se­re ri­de­fi­ni­ti.
Nel­la sua teo­ria po­li­ti­ca, Sch­mitt con­trap­po­ne­va il ma­re al­la ter­ra: il pri­mo è il re­gno del­l’in­sta­bi­li­tà, del mo­vi­men­to, del­la li­ber­tà; la se­con­da in­di­ca sta­bi­li­tà, or­di­ne, di­stin­zio­ne. In que­sta pro­spet­ti­va, si ca­pi­sce per­ché, dal mo­men­to in cui l’or­di­ne ter­ra­neo eu­ro­peo col­las­sa a se­gui­to del­la sco­per­ta del­l’A­me­ri­ca, l’in­te­ra vi­cen­da mo­der­na si tro­va a fa­re i con­ti con il te­ma del­la tec­ni­ca: «il pas­so ver­so un’e­si­sten­za pu­ra­men­te ma­rit­ti­ma pro­vo­ca la crea­zio­ne del­la tec­ni­ca in quan­to for­za do­ta­ta di leg­gi pro­prie. (…) lo sca­te­na­men­to del pro­gres­so tec­ni­co è com­pren­si­bi­le so­la­men­te da un’e­si­sten­za ma­rit­ti­ma (…) tut­to ciò che si la­scia rias­su­me­re nel­l’e­spres­sio­ne “tec­ni­ca sca­te­na­ta”, si svi­lup­pa so­la­men­te… sul ter­re­no di col­tu­ra e nel cli­ma di un’e­si­sten­za ma­rit­ti­ma».
Ora, do­po gli an­ni ram­pan­ti del­la “pri­ma glo­ba­liz­za­zio­ne”, la cri­si apre una nuo­va fa­se ri­por­tan­do in pri­mo pia­no la que­stio­ne “po­li­ti­ca”, cioè la ri­de­fi­ni­zio­ne di con­fi­ni e rap­por­ti di for­za: nel nuo­vo “ma­re tec­ni­co” che av­vol­ge or­mai l’in­te­ro pia­ne­ta – e de­fi­ni­to da quel­l’in­sie­me diin­fra­strut­tu­re, co­di­ci, pro­to­col­li, stan­dard in gra­do di pre­scin­de­re da qual­sia­si con­no­ta­zio­ne spa­zia­le o cul­tu­ra­le – che si­gni­fi­ca­to ha la “ter­ra”? Ov­ve­ro, com’è pos­si­bi­le, nel­le nuo­ve con­di­zio­ni, la ri­co­stru­zio­ne di co­mu­ni­tà di mu­tuo ri­co­no­sci­men­to di na­tu­ra fon­da­men­tal­men­te po­li­ti­ca?
Eti­mo­lo­gi­ca­men­te, il ter­mi­ne “ter­ra” si­gni­fi­ca sec­co, non umi­do, in con­trap­po­si­zio­ne al ma­re, am­bien­te li­qui­do e in­fi­do e co­me ta­le dif­fi­ci­le da do­mi­na­re. Dan­te usa l’e­spres­sio­ne “gran sec­ca” per di­re che la ter­ra, per esi­ste­re, de­ve emer­ge­re dal ma­re – ri­spet­to al qua­le sta in re­la­zio­ne, sen­za es­ser­ne som­mer­sa. La ter­ra dà dun­que il sen­so di una so­li­di­tà e di una per­ma­nen­za, cioè di una sto­ria, di un la­vo­ro, di un fu­tu­ro. Ma an­che di un ser­vi­zio.
Nel ma­re tec­ni­co, la ter­ra “emer­ge” là do­ve si ren­de di nuo­vo pos­si­bi­le la vi­ta uma­na as­so­cia­ta, met­ten­do la tec­ni­ca al ser­vi­zio dei suoi abi­tan­ti. Ma af­fin­ché­ciò sia pos­si­bi­le, so­no ri­chie­sti im­pe­gno e in­ve­sti­men­to: an­che og­gi, per por­ta­re frut­to, la ter­ra va la­vo­ra­ta e cu­ra­ta. Par­la­re di ter­ra, nel­l’e­ra tec­ni­ca, è, dun­que, una scel­ta emi­nen­te­men­te po­li­ti­ca. Lo di­mo­stra la ri­cer­ca sul­le “glo­bal re­gion”: ad af­fer­mar­si so­no quei ter­ri­to­ri (cit­tà, re­gio­ni o sta­ti) che rie­sco­no a ri­com­por­re la tec­ni­ca con il sen­so, la mo­bi­li­tà con la vi­vi­bi­li­tà, l’ef­fi­cien­za con l’af­fet­ti­vi­tà, la cre­sci­ta con il li­mi­te. Ma, so­prat­tut­to, lo di­mo­stra la cri­si eu­ro­pea: sen­za un’in­te­gra­zio­ne po­li­ti­ca ca­pa­ce di de­ter­mi­na­re una in­ter­ru­zio­ne, una dif­fe­ren­za, la so­la in­fra­strut­tu­ra­zio­ne “tec­ni­ca” espo­ne al­la for­za di un ma­re im­per­scru­ta­bi­le, fi­nen­do per pro­vo­ca­re la som­mer­sio­ne di un in­te­ro con­ti­nen­te.
Ma se, in­fat­ti, non si dà “ter­ra” sen­za emer­sio­ne, al tem­po stes­so nes­su­na ter­ra può vi­ve­re in­di­pen­den­te­men­te dal ma­re – che, fuor di me­ta­fo­ra, è og­gi il si­ste­ma tec­ni­co pla­ne­ta­rio, con i suoi co­di­ci, i suoi lin­guag­gi, i suoi­stan­dard.
Da que­ste con­si­de­ra­zio­ni de­ri­va­no di­ver­se pro­po­si­zio­ni di or­di­ne po­li­ti­co. La pri­ma è che, og­gi, la ter­ra si ri­de­fi­ni­sce co­me con­te­ni­to­re di un va­lo­re che, in­ve­ce di di­sper­der­si, si se­di­men­ta. Es­sa, cioè, esi­ste so­lo là do­ve si com­pie que­sta ca­pa­ci­tà di crea­zio­ne e di de­po­si­to. Lo scri­vo­no ef­fi­ca­ce­men­te Por­ter e Kra­mer: per reg­ge­re le sfi­de del­la “se­con­da glo­ba­liz­za­zio­ne” – quel­la che si de­li­nea con la cri­si e le sue con­se­guen­ze – oc­cor­re pro­dur­re – sen­za li­mi­tar­si a con­su­ma­re – “va­lo­re con­di­vi­so”, lad­do­ve la no­zio­ne di “va­lo­re” non è ri­du­ci­bi­le ad una de­cli­na­zio­ne me­ra­men­te eco­no­mi­ci­sti­ca.
In un mon­do aper­to e in mo­vi­men­to, il va­lo­re, che fa emer­ge­re la ter­ra, è il ri­co­no­sci­men­to di un in­te­res­se co­mu­ne – che pos­sia­mo chia­ma­re an­che be­ne co­mu­ne – e che, pro­prio per que­sto, si co­sti­tui­sce co­me dif­fe­ren­za ri­spet­to al­l’am­bien­te cir­co­stan­te.
Da que­sto pun­to di vi­sta, nel­ma­re del­la tec­ni­ca la ter­ra è il luo­go po­li­ti­co del­la cu­ra del­l’u­ma­no che fa la dif­fe­ren­za. E que­sto non so­lo per­ché, in un mon­do do­ve tut­to è mo­bi­le e in­ter­scam­bia­bi­le, i con­fi­ni ten­do­no a es­se­re sta­bi­li­ti più che dal po­te­re di coer­ci­zio­ne – a cui i flus­si sfug­go­no – dal­la ca­pa­ci­tà di una par­ti­co­la­re co­mu­ni­tà di crea­re con­di­zio­ni qua­li­ta­ti­va­men­te dif­fe­ren­zia­li, di or­di­ne eco­no­mi­co e non so­lo. Non si può più pun­ta­re sul­la me­ra espan­sio­ne quan­ti­ta­ti­va, ma bi­so­gna scom­met­te­re sul­la ca­pa­ci­ta in­no­va­ti­va e crea­ti­va. Pren­den­do­si cu­ra del­le per­so­ne e del­l’am­bien­te in cui vi­vo­no.
La ter­za pro­po­si­zio­ne è che la ter­ra non si può più pen­sa­re, og­gi, co­me se­pa­ra­zio­ne, ma so­lo co­me re­la­zio­ne. Mai co­me og­gi le si­re­ne del­la “chiu­su­ra for­zo­sa” pos­so­no ap­pa­ri­re sua­den­ti. Ma la ve­ri­tà è che, per­sa l’au­to­suf­fi­cien­za, la ter­ra si co­sti­tui­sce so­lo in rap­por­to al ma­re del­la tec­ni­ca, da un la­to, e ad al­tre ter­re emer­se, dal­l’al­tro. Non ba­sta­più ri­ven­di­ca­re o peg­gio pre­ten­de­re una di­ver­si­tà.
Se­con­do Ri­chard Sen­nett la di­re­zio­ne da se­gui­re si com­pren­de ri­chia­man­do la di­stin­zio­ne bio­lo­gi­ca tra pa­re­te e mem­bra­na cel­lu­la­re: la pri­ma trat­tie­ne tut­to per quan­to può e dà via quan­to me­no pos­si­bi­le; la se­con­da, in­ve­ce, po­ro­sa e re­si­sten­te, per­met­te il flui­re dei va­ri ma­te­ria­li sen­za per que­sto per­de­re la pro­pria strut­tu­ra. In un mon­do com­ples­so e in pe­ren­ne mo­vi­men­to, per con­ti­nua­re a esi­ste­re – cioè emer­ge­re nel ma­re tec­ni­co – oc­cor­re chiu­de­re quel tan­to che è ne­ces­sa­rio per es­se­re ve­ra­men­te aper­ti. La “chiu­su­ra” di cui ab­bia­mo bi­so­gno con­si­ste nel­lo sti­pu­la­re “nuo­ve al­lean­ze” in gra­do di co­strui­re con­fi­ni che non si­gil­la­no, ma che met­to­no in re­la­zio­ne una dif­fe­ren­za con il mon­do in­te­ro.
Co­sì se ri­co­no­scia­mo che il tem­po del­l’e­span­sio­ne in­fi­ni­ta è al­le no­stre spal­le, al­lo­ra pos­sia­mo am­met­te­re che, in fu­tu­ro, per cre­sce­re, qual­sia­si ter­ra do­vrà reim­pa­ra­re a “fa­re eco­no­mia”, cioè a usa­re al me­glio, cioè in mo­do so­ste­ni­bi­le, le ri­sor­se di­spo­ni­bi­li. Sen­za spre­chi, sen­za pri­vi­le­gi, sen­za ec­ces­si. Il che non è ne­ces­sa­ria­men­te un ma­le. Co­me ne­gli an­ni ’30 la Gran­de De­pres­sio­ne co­sì og­gi la Gran­de Con­tra­zio­ne nel­la qua­le sia­mo im­mer­si po­trà es­se­re ri­sol­ta so­lo da una di­ver­sa idea di cre­sci­ta. Al cuo­re del nuo­vo mo­del­lo di cre­sci­ta c’è la que­stio­ne del­la “pro­du­zio­ne del va­lo­re” – ab­ban­do­nan­do la stra­da fa­ci­le ma per­ver­sa del­la spe­cu­la­zio­ne fi­nan­zia­ria. Nel­la “se­con­da glo­ba­liz­za­zio­ne” si af­fer­me­ran­no quei ter­ri­to­ri, quel­le co­mu­ni­tà che sa­pran­no “pro­dur­re va­lo­re”. Un va­lo­re eco­no­mi­co e spi­ri­tua­le in­sie­me, ca­pa­ce di te­ne­re in­sie­me aper­tu­ra e chiu­su­ra, ef­fi­cien­za e sen­so, in­di­vi­dua­li­smo e con­vi­via­li­tà, im­ma­nen­za e tra­scen­den­za.
Al­la po­li­ti­ca il com­pi­to stra­te­gi­co di rian­no­da­re i fi­li di una tra­ma so­cia­le che non esi­ste più nel­le for­me del XX se­co­lo: in un mon­do avan­za­to, tec­ni­ca­men­te e cul­tu­ral­men­te evo­lu­to, la po­li­ti­ca sta­bi­liz­za ciò che è in­sta­bi­le, fa per­ma­ne­re ciò che è con­tin­gen­te, ra­di­ca ciò che è mo­bi­le.
(L’au­to­re è do­cen­te di so­cio­lo­gia al­la Cat­to­li­ca di Mi­la­no)

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La memoria di Falcone secondo Ilda

Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone: bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore di Palermo, bocciato come candidato al CSM e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia se non fosse stato ucciso. Eppure ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito.

Voglio ricordare che la magistratura italiana addirittura scioperò contro Falcone nel 1991. Scioperò contro la legge che creava la Procura nazionale antimafia a lui destinata. Per bloccarne la candidatura, ricordo, un togato del Csm, Gianfranco Viglietta, di Magistratura democratica, esaltò in una lettera al presidente Cossiga l'”assoluta indipendenza” dell’antagonista di Falcone, Agostino Cordova, osservando che “i criteri per la nomina a importantissimi incarichi direttivi non prevedono notorietà o popolarità”. Dunque, Falcone non era indipendente, ma solo “popolare” per Viglietta. Più esplicito in quell’accusa fu Alfonso Amatucci, anch’egli togato al Csm, per la corrente dei Verdi (cui pure Falcone aderiva). Scrisse al Sole-24 ore che Giovanni “in caso di designazione, avrebbe fatto bene ad apparire libero da ogni vincolo di gratitudine politica”. Falcone era più o meno un “venduto” per Amatucci. Ancora un ricordo. Leoluca Orlando nel 1990, sostenne e non fu il solo, soprattutto nella sinistra – che “dentro i cassetti della procura di Palermo ce n’è abbastanza per fare giustizia sui delitti politici”. Quei cassetti, dove si insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna l’accusa di Amatucci e Viglietta: Falcone è un “venduto”. Delle due l’una, allora. O quelle accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza o quelle accuse erano, come sono, calunnie e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda.

In dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola autocritica nella magistratura e nella politica. Fin quando ciò non accadrà, io sentirò il dovere di ricordare. Perché solo ricordare le umiliazioni subite da Giovanni Falcone permette di comprendere il significato del suo sacrificio, il suo indistruttibile senso del dovere e delle istituzioni; di afferrare l’eccentricità “rivoluzionaria” del suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o a fronte dell’idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica. Era questa sua diversità a renderlo inviso a una parte della magistratura e a rendergli diffidente e nemica la politica, tutta la politica, se si esclude la parentesi al ministero dove gli fu possibile.
(Ilda Boccassini, 2002)

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Chi ha ammazzato Falcone e Borsellino

Chi ha la vera responsabilita’ di quelle uccisioni, secondo Scarpinato? “Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della finanza e molti altri”. “Tutte responsabilita’ penali certificate da sentenze definitive -rammenta ancora il procuratore generale di Caltanissetta- costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illumina a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto”. Frammenti di verita’, purtroppo, emergono “solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi custodi di segreti consumatisi in quel ‘fuori scena’ della storia, da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali”. Il sasso nello stagno plumbeo delle commemorazioni di Stato e’ tirato.

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