Un maglione rosso e una gonna nera. C’è un costume da bagno, un normale costume da bagno. E poi una polo. Una maglietta arancione. «Com’eri vestita» è la domanda velenosa e liquida che si pone alle donne vittime di violenza, il primo senso di colpa si infila proprio lì, sulla colpa di essere “sembrata disponibile” addirittura per gli abiti che indossi.
Così al quarto piano dell’Università del Kansas studenti e professori hanno deciso di metterli in mostra, quegli abiti della vergogna che diventano un’onta per le vittime prima ancora dei carnefici: «vorremmo – ha detto Jen Brockman, direttore del centro – che la gente possa rendersi conto che questa idea dei vestiti che sono causa delle violenze è completamente falsa».
La giornalista Rebecca Gannon ha pubblicato alcune foto dal suo profilo Twitter e basta guardare le immagini per percorrere in pochi istanti l’abisso che c’è tra le mostruose strumentalizzazioni che agitano le bocche marce di certa stampa e di certi politici e la drammatica normalità del dolore e della violenza.
Una mostra che è un manifesto perché “manifesta” le bugie mostrando la verità. E ho pensato che è un atto bellissimo: politico, artistico, culturale e sociale tutto insieme. Come dovremmo essere noi ogni volta che incrociamo una bugia che, anche se ripetuta milioni di volte e infiocchettata con una narrazione irresistibile, abbiamo il dovere di affondarla con l’emersione dei fatti, piuttosto. La cultura, appunto.
Buon lunedì.
Today in Lawrence: 18 innocent outfits symbolize 18 sexual assault victims in ‘What Were You Wearing?’ display. Story on @fox4kc at 6. pic.twitter.com/pIJrYg1SLD
— Rebecca Gannon (@GannonReports) 13 settembre 2017
(continua su Left)