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Commissione Antimafia, tra scontri interni e piste scomode

C’era un tempo in questo Paese in cui l’antimafia era una cosa seria, serissima, che infiammava le discussioni e gli editoriali. Poi è arrivata la normalizzazione della mafia e, di conseguenza, dell’antimafia. Così “fare antimafia” è diventato qualcosa di diverso dal lottare contro la criminalità organizzata, riducendosi a una liturgia di commemorazioni.

La normalizzazione dell’antimafia: tra commemorazioni e silenzi

Il 23 maggio si ricorda Giovanni Falcone, il 19 luglio Paolo Borsellino, e così via, in una stanca sequela di anniversari sempre uguali, accompagnati da dichiarazioni fotocopia dell’anno precedente. La mafia diventa così un “fatto storico”, qualcosa da studiare – o peggio, da evocare vagamente – senza alcun legame con il presente.

Il risultato è che in questa legislatura la Commissione parlamentare Antimafia sembra concentrare tutte le sue energie in uno scontro interno contro l’ex magistrato e senatore del Movimento 5 Stelle, Roberto Scarpinato, sotto attacco da parte dei suoi colleghi della maggioranza, che ne chiedono la rimozione. Stupefacente è il disinteresse funzionale verso la vicenda.

La Commissione: lotte interne e attacchi mirati

Partiamo dall’inizio. La Commissione (guidata dalla meloniana Chiara Colosimo) a maggioranza di centrodestra sta dedicando particolare attenzione a una determinata pista processuale sulla strage di via d’Amelio, in cui perse la vita il giudice Borsellino: la cosiddetta indagine “mafia-appalti”. Da anni, la destra cerca di dimostrare che Borsellino sarebbe stato ucciso per una vecchia inchiesta su Nino Buscemi e Franco Bonura, mafiosi del settore edilizio vicini a Totò Riina e soci della Ferruzzi di Raul Gardini.

L’indagine, archiviata nel giugno 1992, era partita dalla Procura di Massa Carrara, che aveva messo in luce le infiltrazioni mafiose nelle cave di marmo in Toscana. Il ragionamento politico è semplice: se Borsellino fosse stato ucciso per questioni legate agli appalti, decadrebbero improvvisamente tutti gli interessi sui rapporti – comprovati – tra Cosa Nostra e lo Stato. Così svanirebbero anche le responsabilità politiche e il collegamento con la fondazione di Forza Italia di Silvio Berlusconi, riducendo la morte di Borsellino a una questione di “mafia minore”. Ciò ridimensionerebbe le piste battute da altri magistrati come Nino Di Matteo e Luca Tescaroli, che da anni denunciano una pericolosa trattativa tra i vertici dello Stato.

Per questo la Commissione antimafia ha puntato il dito contro Gioacchino Natoli, già Presidente della Corte d’Appello di Palermo ed ex membro del pool antimafia a fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Natoli è indagato dalla Procura di Caltanissetta per favoreggiamento alla mafia e calunnia. La prova principale sarebbe un provvedimento del giugno 1992, quando Natoli, allora sostituto procuratore di Palermo, ordinò la “smagnetizzazione” dei nastri con le registrazioni telefoniche dell’inchiesta e aggiunse a penna l’ordine di “distruggere i brogliacci”.

C’è un piccolo particolare: si è scoperto che in quel periodo in Procura a Palermo quella prassi – anche con aggiunte a penna – era consuetudine. Non solo: fu proprio Natoli a denunciare che le bobine con le intercettazioni dei Buscemi non erano mai state cancellate e si trovano ancora negli archivi del Palazzo di Giustizia di Palermo.

Nei giorni scorsi, il quotidiano La Verità ha accusato il senatore del M5S Scarpinato di essersi accordato con Natoli prima della sua audizione in Commissione antimafia su alcune domande relative a quell’indagine. Peccato che non ci sia stato alcun riscontro.

In compenso, la presidente della Commissione, Colosimo, ha promesso una modifica alla legge che regola l’istituzione della Commissione antimafia, prevedendo una disciplina specifica per i casi di incompatibilità dei singoli commissari rispetto a indagini particolari dell’organo parlamentare. Ma l’antimafia sembra interessare a pochi, quasi a nessuno.

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