Va a sempre finire così, ogni tornata elettorale, qualche mese prima delle elezioni politiche. Si candidano tutti incendiari, pronti a rovesciare gli equilibri e i poteri e mentre passano i mesi i due poli che si erano promessi lotta dura senza paura cominciano a sanguinare profughi attratti dal centro. Accade ai partiti di destra, a quelli di sinistra e orta accade anche a quelli che non erano «né di destra né di sinistra».
Lo chiamano centro ma non è che terrore di affrontare le elezioni
Luigi di Maio non ha avuto un’idea originale, intravedere nel placido stagno del centro – che in Italia è diventato il luogo politico dei conservatori – la garanzia della propria autopreservazione, del mantenimento delle proprie posizioni e del proprio effimero potere è quasi naturale per i parlamentari di casa nostra. Lo chiamano centro ma in fondo altro non è che il terrore quasi fanciullesco di attraversare nuove elezioni, viste come un terremoto delle proprie abitudini e approcciate con il terrore di chi quei cinque anni li ha vissuti sotto una campana di vetro dove sviluppare una crescente idiosincrasia vero gli elettori.
I cantori delo status quo
Accade sempre così: qualche mese prime delle elezioni, come grilli cominciano a cantare gli intellettuali del grande centro, soluzione a tutti i mali. Il loro sogno recondito, che non possono permettersi di svelare genuinamente, è tagliare i “lati” del Parlamento per non incorrere nel rischio di ribaltamenti troppo repentini che non sarebbero capaci di sopportare. A ogni elezione ci sono i soliti noti – sono sempre gli stessi – che si improvvisano spin doctor dello status quo, che si chiami Mario Monti o che si chiami Mario Draghi non porta: l’importante per loro è raccontare quanto sarebbe bello rendere le prossime elezioni omeopatiche come goccine utili a fingere di “avere fatto” con la rassicurante certezza di risvegliarsi l’indomani esattamente come ieri.
Il centro è sempre grande nonostante i sondaggi
Il centro, se ci fate caso, è sempre ‘grande’ nella narrazione. Non è raccontato come grande per le aspirazioni (legittime): il centro è grande nonostante i sondaggi lo indichino come una pozzanghera che bagna le suole di quegli altri che grandi lo sono davvero nei numeri. Gli editorialisti del centro sono quelli che dicono che se saremmo in grado di evitare scossoni i problemi ci sembreranno più morbidi. Non propongono soluzioni, aspirano a un mondo che non crei problemi. Sono gli stessi che vergano articoli focosi che dicono tutti la stessa cosa: «Non c’è alternativa», «non vorrete mica rischiare di finire peggio di così» e «guardate com’è bella la politica quando diventa impolitica, senza idealismi che sfociano in lotte che sgualciscono il colletto, una politica fatta solo di spartizione senza troppi sussulti». Per questo amano i governi tecnici: un presidente del Consiglio che ha come promessa elettorale quella di essere una persona autorevole (senza nemmeno decidere “autorevole” per chi?) È il sogno di tutti. In fondo non è diverso dal «buon senso» che reclama Salvini: scegli una linea politica più rarefatta possibile e ti sarà facile non risultare mai incoerente.
Il Pd e la sindrome della grande madre
Accade sempre così, qualche mese prima delle elezioni politiche. Il centro si riempie di generali senza eserciti, ognuno con il proprio partito che è poco più di un marchio pronto a sciogliersi sognando l’acquisizione della vita. Partiti senza voti che hanno più parlamentari che elettori, truppe raccolte tra chi non sa dove sbattere la testa per ritagliarsi almeno una ricandidatura e bussa al brefotrofio dei partiti, il “grande centro”. Sullo sfondo, anche questo ormai è un classico, c’è il Partito democratico che ogni volta viene colto dallo spirito della “grande madre” e vorrebbe adottarli tutti, gli orfani che giocano nel recinto del grande cerchio. Li approccia paternalistico chiedendo loro di smettere di litigare, li alletta con la prospettiva di una famiglia larghissima in cui non mancherà mai il pane in tavola. Li lusinga concimando il loro narcisismo. Poi arriva come sempre la realtà. Quelli scoprono di essere tutt’altro che rivoluzionari e, sconsolati e malinconici, se ne vanno con il loro misero bottino elettorale. Solo che il periodo di derealizzazione è stato talmente bello che sono pronti a rifare tutto al prossimo giro.
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