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Conflitto di interessi permanente per vanità

Per contestualizzare la notizia si potrebbe partir da un episodio raccontato ieri da Stefano Menichini. Matteo Renzi, ai tempi presidente della Provincia di Firenze, partecipò a un evento promosso dal giornale Europa di cui Menichini era direttore. Racconta Menichini: «Renzi prende una copia, la guarda appena, si gira al vicino e chiede: “Ma un giornale vero non c’è?”». Dieci anni dopo Renzi segretario del Partito Democratico ordinò la chiusura di quel giornale.

Per avere un’idea del senso per la stampa di Matteo Renzi bisogna tornare a L’Unità, che Renzi chiuse per ben due volte. Come scrive Andrea Carugati per Il Manifesto «la prima nel 2014, quando da neo segretario del Pd favorì la liquidazione della società editrice per costituirne una nuova di zecca in cui la fondazione del partito – Eyu – era socia di minoranza insieme al gruppo Pessina. La seconda nel 2017: quando l’Unità renziana tracollò a causa di una linea turboriformista sdraiata sul “caro leader”, lui battezzò una nuova testata di partito, Democratica, diretta da Andrea Romano, solo online e presto affondata».

Forte del suo curriculum ieri Matteo Renzi è tornato sul luogo del delitto annunciando con una recita di famiglia in sala Stampa estera di essere il nuovo direttore de Il Riformista che ora dovrà decidere che redazione avere, visto che gran parte passerà in blocco proprio a l’Unità che l’editore Romeo ha resuscitato per affidarla alla direzione di Piero Sansonetti. Dal punto di vista giornalistico per ora siamo nel campo della mera speculazione pubblicitaria e politica (lo scrive in un suo comunicato anche la Fnsi). Dal punto di vista politico siamo al giornale di partito di un partito senza elettori e presumibilmente senza lettori. Al solito.

Quando qualche giorno fa scrissi proprio qui che Renzi avrebbe lasciato Calenda a spalare macerie qualche terzopolista si è incupito. Forse non sapeva o forse non capiva. Siamo di fronte all’ennesimo “conflitto di interessi” per vanità. Solo che ogni volta diventa più raggelante. Un senatore direttore di un giornale edito da un editore coimputato di suo padre per traffico di influenze (insieme a Italo Bocchino, altro direttore) dice tutto quello che c’è da dire sullo stato dell’editoria italiana, dove le testate sono un orpello da indossare per oliare gli ingressi di certi salotti e un tubetto di stagno per saldare amicizie. Da parte sua Renzi aggiunge all’elenco di attività extraparlamentari un altro tassello che stride parecchio con il senso per il giornalismo del suo amico bin Salman, coautore con il senatore fiorentino di quel Rinascimento saudita che vorrebbe lavarsi dal sangue di Kashoggi.

C’è un ultimo particolare interessante. Dice Renzi di avere avvisato il suo compare Calenda (che raccontano furioso nella giornata di ieri) e Giorgia Meloni. Cosa c’entri la presidente del Consiglio in un affare del genere non si capisce. Meglio: si capisce benissimo. Se si trattava di cortesia istituzionale Renzi avrebbe dovuto avvisare il presidente del Senato, non certo la capa del governo. Il direttore del Corriere Luciano Fontana dice quello che pensano tutti: «Mi stupisce che voglia fare tremila mestieri e non l’unico per cui è stato eletto dal popolo italiano». E Calenda mette subito le mani avanti: «Non sarà il nostro giornale».

Buon giovedì.

Nella foto: frame del video della conferenza stampa di Matteo Renzi alla Stampa estera

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