Un episodio locale che indica un malessere nazionale. Mercoledì 26 luglio la consigliera comunale di Macerata di Fratelli d’Italia, Lorella Benedetti, ha voluto spiegare in aula il suo sostegno alla proposta del gruppo locale di Forza Italia di intitolare una via a Silvio Berlusconi. Tra i piedi aveva, inevitabilmente, i trascorsi del fedele braccio destro del Cav, Marcello Dell’Utri, e quella pesante condanna per mafia in via definitiva.
Così Benedetti si è lanciata in uno spericolato esercizio di revisionismo mafioso: “Berlusconi? Può aver avuto contatti con la mafia all’epoca in cui in Sicilia si facevano saltare i ripetitori Mediaset. La mafia voleva essere pagata per non farli saltare e forse avrà utilizzato Dell’Utri il quale, da buon siciliano, sapeva a chi rivolgersi per trattare. Se questo si considera reato allora sarebbero dovuti essere rinviati a giudizio un bel po’ di imprenditori italiani, perché tutti sanno che, per quieto vivere, si deve arrivare a compromessi per poter operare in Sicilia”.
Una consigliera comunale di Macerata assolve Dell’Utri. “In Sicilia rapporti di quieto vivere tra imprese e clan”
L’uscita è indicativa. C’è dentro la mafia come intoppo necessario per raggiungere le più alte posizioni imprenditoriali e di potere. È il “male necessario” di andreottiana memoria che prepotentemente ritorna. C’è un po’ di sano e ignorante razzismo secondo cui i “compromessi” con la mafia sono necessari nel Sud, perdendosi gli ultimi 15 anni di inchieste che hanno inchiodato il Nord italia “colonizzato” (secondo la Dia) dalla ‘Ndrangheta.
La consigliera si è scordata anche un po’ di storia locale, con affiliati alla ‘Ndrangheta in quattro provincie nella sua regione e una presenza mafiosa che risale almeno fino al 1991 con la morte di Antonio Domenico Cataldi, il primo vero boss della criminalità organizzata operante nel territorio marchigiano nei segmenti di mercato illegale più redditizi: droga, prostituzione nei locali notturni, rapine per autofinanziamento, bische e racket. Non è un caso isolato.
Il revisionismo degli ultimi 30 anni di mafia e di antimafia diventa ogni giorno di più il tratto distintivo di questo governo che riesce a fare poco più delle abituali commemorazioni di Borsellino e (molto meno) di Falcone. L’antimafia è finita sotto attacco con le lungaggini di insediamento di una Commissione parlamentare che è sembrata fin da subito un peso, con la meloniana Colosimo insediata tra le proteste dei familiari delle vittime in evidente ritardo.
Poi c’è stato l’attacco all’abuso d’ufficio (spesso reato spia di altri reati ben più gravi di criminalità organizzata) e al concorso esterno che per qualche giorno è diventato argomento di discussione generale come un Cosentino o un Dell’Utri non avrebbe mai potuto sperare nei loro sogni più ottimisti. Poi Salvini ha attaccato don Luigi Ciotti, simbolo dell’antimafia di questo Paese che da anni con Libera prova a stare sul tema.
L’ultimo colpo sono i trecento milioni del Pnrr destinati al riuso e alla valorizzazione dei beni confiscati che sono “spariti” dalla revisione del governo. La notizia è ancora più grave perché molti bandi di quei 300 milioni (che sarebbero stati la cifra più alta mai dedicata ai beni sottratti alla mafia) sono già stati chiusi dai comuni che ora si ritrovano in seria difficoltà. È una pericolosa deriva continua. La meloniana Benedetti è l’ennesimo caso, sicuramente non l’ultimo.
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