Passerà Ferragosto e si avrà il quadro completo delle candidature. Forse, speriamo bene, si smetterà di parlare di alleanze praticate o fallite (anche se Calenda e Renzi sembrano avere come unico punto del loro programma elettorale l’esegesi delle scelte degli altri) e potremo capire quale siano i buoni motivi per cui le cose dovrebbero andare diversamente da come andranno, con Giorgia Meloni preoccupata solo di non compiere errori e con Matteo Salvini che si “accontenta” di andare al Viminale. Tanto per avere l’idea di come stiamo messi.
L’antico adagio “dimmi con chi vai, ti dirò chi sei” è sempre attuale. Su Renzi e Calenda tanto s’è letto e tanto s’è scritto, non serve aggiungere altro. Che certa presunta sinistra (da Rizzo a Ingroia) abbia finito per ritrovarsi in corsa con un pezzo di destra è un classico degli ultimi anni. Dalle parti di Unione popolare (che qualcuno vorrebbe archiviare come esperienza residuale, con il solito trucco) c’è una connessione di esperienze, testimonianze e competenze che forse meriterebbe ben altro spazio. Nel frattempo loro potrebbero trovare in fretta un modo di comunicare la loro elaborazione collettiva (che c’è stata in Rifondazione e Potere al popolo, serrata, anche fuori dal Parlamento) senza svilirla in avventate dichiarazioni personali che offrono una sponda a chi si impegna a sminuirli.
Nel Movimento 5 stelle i candidati “scelti” da Giuseppe Conte saranno fondamentali: sarà la sua ultima occasione di circondarsi di persone capaci (capaci anche di invertire la sensazione di un partito zeppo di pericolosi incompetenti) e fedeli ai principi del partito e al suo capo politico. Se sbaglierà questa non avrà un’altra occasione.
Nel Pd, come al solito, si assiste al balletto per ricandidare esponenti moderati (Casini ne è un fulgido esempio) con alle spalle quintali di legislature senza esattamente capire quale dovrebbe essere il guadagno in termini di voti e di credibilità. Soprattutto con poco rispetto per i territori e i loro attivisti.
La domanda delle domande però è una: perché questo senso di imbarazzante gratitudine del Pd nei confronti di Di Maio? Questo sarebbe utile saperlo (lo vorrebbero sapere anche in molti nel partito) poiché è una questione squisitamente politica. Non facciamo fatica a immaginare che Tabacci abbia trovato in Di Maio il salvagente per provare a recuperare voti che non ha mai avuto nella sua carriera (siamo pieni di gente senza voti ma con ottime conoscenze che colleziona carriere incredibili) ma che un partito strutturato come quello di Letta abbia nei confronti di Di Maio quasi soggezione nasconde un pezzo della storia recente che non ci è stata raccontata. Verrebbe il dubbio, lo appoggiamo come innocente ipotesi, che la scissione del ministro ex grillino da Conte dovesse essere una stampella (nella migliore delle ipotesi) per spostare l’asse politico con numeri rassicuranti in Parlamento. Qualcuno potrebbe obiettare che non sia andata così. È vero. Non cambia la natura del discorso. Se non è finita come avrebbe dovuto forse è merito anche dell’altro ministro (Pd) così vicino a Di Maio da trovare il tempo, tra un ordine di un missile e l’altro, di assicurargli già da tempo (ben prima della crisi) un posto per il prossimo giro: del resto il nostro ministro della guerra è considerato un grande stratega fin dai tempi di Renzi ma è solo un abile galleggiatore secondo i peggiori canoni democristiani. Ovvio che sarebbe stata una strategia politicamente insulsa e fallimentare.
Eppure questa domanda a Letta non la pone nessuno: quale patto c’è da rispettare con Di Maio? Chi l’ha siglato? Quando? Perché?
Buon Ferragosto.