Abituato per lavoro a scrivere inchieste, articoli e spettacoli (così profondamente giornalistici, del resto) quando mi sono messo a scrivere Mio padre in una scatola da scarpe ho vissuto la bellezza dello spaesamento di chi si ritrova di fronte a così tanto spazio. Una certa agorafobia tra la testa e le dita. Una cosa così.
Ma la differenza principale mai vissuta prima è il potersi dedicare alla parola giusta, anzi il doversi dedicare alla parola giusta come se quella pagina, quella frase o quel paragrafo debba per forza avere una parola che è quella parola lì. Come se non esistessero differenti opzioni.
Poi mi succede magari che mi avvicino, la rigiro ma so che il senso è quello ma non la parola, come se parola e senso fossero la mano destra e la sinistra di un tronco che deve stare in piedi, diritto, in equilibrio.
Quando studiavo teatro, ero giovane, premuroso per lo studio e il suo senso, quando facevamo gli esercizi da attori giovani, ci dicevano sempre, cioè cercavano di insegnarci, che l’equilibrio di tutti noi sul palco, per sentirlo e abitarlo bene, funzionava se ci immaginavamo che il palco fosse la zattera e tutti noi dovessimo tenere “in bilico” la zattera.
Ecco. Mentre scrivevo il libro, che si faceva scrivere, ho avuto la stessa sensazione, lo stesso strenuo tentativo di raggiungere l’equilibrio, come se le frasi fossimo noi, giovani, premurosi di abitare nel modo più professionale possibile lo spazio di lavoro.
E ho pensato che è una fortuna bellissima quella di imparare ancora. Dopo tutti questi anni.