C’è il falso materiale e va bene. C’è quel documento retrodatato e una “commissione ombra” per non bloccare l’assegnazione dei lavori della Piastra di Expo. Per questo Beppe Sala rischia di finire a processo. E già domani forse si presenterà davanti al sostituto procuratore generale Felice Isnardi per farsi interrogare. Ma c’è qualcosa di più grave che emerge dalle carte dell’inchiesta avocata dalla Procura generale di Milano. Ovvero l’intera gestione del maxi appalto da 272 milioni, prima e dopo l’affidamento. C’è una condotta di Sala che tutto sembra tranne quella incentrata alla tutela del bene pubblico e alla gestione trasparente di un’opera strategica. Eppure, ed ecco il paradosso, per questo aspetto il sindaco di Milano ed ex ad di Expo spa non rischia alcuna imputazione. Partiamo dalla fine e dalle conclusioni della Guardia di finanza sulla vicenda Expo. “La condotta del management di Expo – si legge a pagina 672 – e in primis dall’ad Giuseppe Sala non appare né irreprensibile né lineare”, perché “attraverso condotte fattive ed omissive hanno comunque contribuito a concretizzare la strategia volta a danneggiare indebitamente la Mantovaniper tutelare e garantire, si ritiene, più che la società Expo, il loro personale ruolo all’interno della stessa”.
La vicenda Piastra svela un sistema che mette insieme interessi politici e carriere personali. Sala, in questo, risulta assoluto protagonista. Ecco allora i fatti. La Mantovani spa nell’estate del 2012 si aggiudica l’appalto con un ribasso di poco sotto il limite di legge e lo fa sorprendendo l’intero sistema Milano. Intercettazioni e verbali d’interrogatorio svelano che prima di Mantovani i favoriti erano da un lato Impregilo e dall’altro Pizzarotti. I loro padrini erano da un lato l’ex ad di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni e l’ex governatore, oggi senatore, Roberto Formigoni. Vince, invece, Mantovani che pare godere di importanti appoggi politici, mediati, forse, dai soci della Socostramo, i fratelli Cinque molto vicini all’ex ministro dei Trasporti Altero Matteoli. L’azienda veneta mette così in allarme il sistema che reagisce. Da un lato con l’opera di Rognoni e l’accordo dello stesso Sala si aggiungono clausole economiche non previste per danneggiare Mantovani, dall’altro, però, viene evitata una più che dovuta verifica di congruità dell’offerta che avrebbe imposto una revisione completa del progetto allungando pericolosamente i tempi dei lavori.
Ed ecco il risultato dell’agire di Sala e dei suoi manager: “Pur mostrando una formale diffidenza – scrive la Finanza – si ottiene l’effetto di dare definitiva copertura a un’impresa illecitamente favorita”. Tradotto: le poltrone si tutelano limitando il raggio d’azione dell’intrusa Mantovani, che però va remunerata per non rischiare di far finire Expo a gambe all’aria. Mantovani grazie a forze politiche esterne e più potenti del sistema Milano sale su una carrozza che non è stata preparata per lei. Posizione ideale per battere cassa utilizzando il ricatto di “metter in discussione l’intero evento”. Di trasparente c’è poco. E così se da un lato Sala asseconda l’operato di Rognoni nell’ostacolare Mantovani, dall’altro apre la cassaforte di Expo all’ad di Mantovani Piergiorgio Baita. Ricordiamolo: il ribasso è del 41,8%, sull’importo iniziale si lima fino a 149 milioni. Nemmeno in grado di coprire le spese. Mantovani deve recuperare i soldi. Baita ne parla con l’ex dg di Expo, Angelo Paris. “In sostanza – riassumono i pm – l’imprenditore richiede che vengano riconosciuti ulteriori 50 milioni grazie alle riserve”. Il progetto doveva essere “elastico”, ovvero passibile di varianti. E così fu fin dall’inizio. Il giorno dell’aggiudicazione provvisoria, il responsabile unico del procedimento Carlo Chiesa dice a Sala: “Con il ribasso, lo sanno tutti che alla fine visto che devono fare delle varianti una parte la recuperano”.
Un concetto che Sala semplifica nei colloqui riservati con il presidente di Mantovani: “I soldi non mancano”. E i soldi arrivano, perché Expo non può fare altrimenti. A testimoniarlo l’Audit interno di Expo. Si legge: “Sono stati riscontrati reciproche richieste tra i soggetti coinvolti, finalizzate a recuperare da un lato i ritardi accumulati e dall’altro i maggiori compensi con la conseguente introduzione di elementi negoziali non coerenti (…). Le opere complementari sono sprovviste di proposta formale del Rup”. Il pm chiede a Baita: “Come è possibile che Mantovani si sia fidata di eseguire lavori priva dei supporti autorizzativi?”. Risposta: “Mantovani si relazionava con Sala, e riceveva rassicurazioni”. L’appalto di 272 milioni, affidato a 149, è costato 290. Ovvero 20 milioni in più.
(Davide Milosa, fonte)