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Femminicidio, una parola da chiarire

Per l’enciclopedia Treccani la parola dell’anno è “femminicidio”. L’occasione è buona anche per un ripasso generale in un Paese in cui spesso si pensa che femminista sia sinonimo di femminile, e in cui una schiera di maschi spaventati rivendica l’istituzione del reato di maschicidio esibendo l’ignoranza di chi è convinto che vi sia femminicidio ogni volta che viene uccisa una donna. Basta scorrere la stessa Treccani per imparare che la connotazione di genere del termine “femicide” risale alla seconda metà del Novecento, quando la studiosa Diana Russell ha distinto gli omicidi di donne per motivi accidentali o occasionali tutte quelle uccisioni di donne, lesbiche, trans e bambine basate sul genere, da quelle situazioni in cui la morte di donne, lesbiche, trans e bambine rappresenta l’esito o la conseguenza di altre forme di violenza o discriminazione di genere.

Nella categoria criminologica del femminicidio rientrano: gli omicidi di donne commessi durante o al termine di una relazione di intimità da parte del partner o ex; gli omicidi da parte di padri, fratelli o altri familiari in danno di figlie, sorelle o altre familiari che rifiutano un matrimonio imposto, o per qualsiasi altro motivo espressione di punizione nei confronti della donna, ovvero di controllo e di possesso; gli omicidi dei clienti o degli sfruttatori in danno delle prostitute; gli omicidi delle vittime di tratta; gli omicidi di donne a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere; ogni altra forma di omicidio commesso nei confronti di una donna o bambina perché donna. Come sottolineava la scrittrice Michela Murgia “femminicidio non indica il sesso della morta. Indica il motivo per cui è stata uccisa”. Chissà se lo capiscono.

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