Sono stata io a invitarlo dopo le prove a mangiare qualcosa in una trattoria, la prima volta. Dario sembrava non accettare volentieri l’invito. Poi, giacché io insistevo, mi svelò la ragione della reticenza: “Non ho un soldo, per liberarmi dal lavoro e venire alle prove ho dovuto licenziarmi dallo studio di architettura”. E io, allegra: “Mi fa piacere, adoro nutrire randagi, gatti abbandonati e disoccupati affamati”. Andammo in una trattoria lì all’angolo e ordinammo due porzioni di salame, pane e una birra. Poi ci accompagnammo l’un l’altra a casa. Tram non ce n’erano più, ci avviammo a piedi. Ci raccontavamo delle nostre vite, lui del suo lago, il Maggiore, e dell’Accademia; io della compagnia di papà. Ci scoprimmo a ridere come ragazzini alle reciproche ironie. Lo trovavo spassoso, quello spirlungo strabordante racconti assurdi e festosi. Una sua frase mi sorprese: “Spesso parlo con qualcuno e mi sento a disagio, le cose che mi sembrano intelligenti e spiritose che dico non vengono raccolte, e mi convinco di non possedere fantasia né spirito. Invece ora sento apprezzare le mie immagini, e ne ricevo altre da te, che mi incoraggiano a lasciarmi andare nel fantastico”.
Franca Rame si confessa sui suoi primi momenti in Dario Fo. Da leggere.