Felliniano, pasoliniano, staliniano, reganiano, obamiano: trasfigurarsi in aggettivo è facile, un sogno alla portata di tutti. E’ però quando si va oltre e si diventa anche sostantivo che si lascia una traccia nella Storia, ci si apre un varco nel tempo. Andreotti è allo stesso tempo aggettivo e sostantivo: come Mao, Craxi, Berlusconi, la Tachther, De Gaulle, Lenin, Marx, ecc. Che cos’è l’andreottismo se non un modo originale di stare nella vita, sulla scena politica ponendosi di ¾, modulati su un’ambiguità quasi antropologica, sfumati, l’aria svagata e assente di chi passa per caso? Con l’atout di un’astuzia e un sarcasmo sempre all’erta (volpi in pellicceria e potere che logora chi non ce l’ha), che a volte sconfina nel cinismo che dà un brivido freddo nella schiena, perchè “la politica è sangue e merda, un animale selvaggio”?
64 anni di potere “che si spalmano come un’ombra”, visibile e invisibile. 7 volte premier, 8 ministro della Difesa, 5 agli Esteri, 2 alle Finanze, e poi all’Industria, al Bilancio, al Tesoro, all’Interno, alle Partecipazioni Statali, ai Beni Culturali. E tuttavia, citando Ludwig di Baviera, potrebbe dire: “Voglio restare un enigma”. Che nemmeno il mitico archivio dai faldoni gonfi di carte, posto che un giorno si potrà avere accesso, aiuterà a decodificare (ma quelle del Sifar, di cui pure si autorizzò la distruzione, si ignora dove finirono per davvero…).
La parabola inizia nel 1927: un ragazzino sale sul tram, uno zoppo gli calpesta un piede cercando di scendere, si scusa dicendo che è un mutilato: “Se tutti i mutilati passassero sui miei piedi sarei rovinato”. Buona la prima. Nel 1944 è eletto membro del Consiglio nazionale Dc, e master di botte piena e moglie ubriaca: scrive su “La rivista del lavoro” (filofascista) e sul “Popolo” clandestino diretto da don Sturzo. Eccolo alla messa ogni mattina accanto a De Gasperi, la sua prima sponda in politica. Lo statista ha gli occhi socchiusi, on line col Padreterno? Andreotti invece si connette più terra terra: “A me il prete rispondeva”, dichiara in un’intervista a Montanelli. Occhiali quadrati, viso di una fissità da statua di cera, nessuna emozione al funerale (di Stato) di Moro (senza il corpo ancora caldo e con la famiglia incazzata, giustamente, con la classe politica italiana): nell’aria vaga minacciosa la frase diretta ai mandarini scudocrociati: “Il mio sangue ricadrà su di voi”. E nessuna ruga la increspa nemmeno i dieci anni (1994-2004) del processo per mafia da cui esce assolto, “quella sentenza è diventata un manuale della menzogna… l’assoluzione più colpevole della storia d’Italia”. Un processo che è anche alla Dc, a un sistema di potere (consociativo), nonostante l’altra celebre frase dello statista pugliese: “La Dc non si farà processare nelle piazze”.
Ma il passato non passa, specie in un Paese dove i chiaroscuri di ieri si riverberano sinistri sull’oggi, e poi la Storia è sempre work in progress, si riscrive di continuo, sia perché fanno irruzione nuovi format analitici (si pensi alla psicoanalisi), sia perché emergono documenti, testimonianze, visioni, contesti. “L’innocenza di Giulio” (Andreotti e la mafia), di Giulio Cavalli, Chiarelettere, Milano 2012, pp. 156, Euro 11 (progetto grafico David Pearson), rilegge il personaggio-Andreotti e scandaglia, con gli strumenti di un giornalismo serio, anglosassone, analitico (l’opposto delle merende sociologiche nel salotto buono di Vespa e il ruffianismo alla Fede), il rapporto fra lo statista e la mafia, gli aspetti rimasti fuori, o solo sfiorati, in tribunale, al “processo del secolo”, come se Cosa Nostra, senza referenti politici, intra ed extra moenia, avesse potuto radicarsi nell’anti-Stato e transustanziarsi in soggetto politico (cosa che non riuscì, nel 1978, anche per la fermezza di Andreotti, alle Br).
La prefazione non poteva che portare la firma di Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo “dove avevo chiesto di essere mandato dopo le stragi di Falcone e Borsellino”. Mostrificato (si passi la parolaccia), e anzi destinatario di una legge contra personam per aver “osato prima indagare e poi processare il Divo Giulio… un imputato troppo innocente” in un processo in cui “la verità è fatta a brandelli” e che pure nel 1992, anno che doveva avere “il profumo della consacrazione”, manca l’ascesa al Colle più alto solo per un fatto di curiose sinergie: è l’inizio della stagione delle stragi e col corpo ancora caldo di Falcone, e gli uomini della scorta, a Capaci, sarebbe stato troppo anche per un uomo al crocevia di tutti i misteri italiani dal dopoguerra a oggi (Fiumicino, Sifar, Italcasse, Ambrosoli, Sindona, Calvi, Piazza Fontana, Italicus, Bologna, Gladio, Marcinkus, P2, ecc.), che pure Cossiga nel 1991 nomina senatore a vita e, crollata la Dc sotto il maglio delle inchieste, si ricicla nell’Udc come un “padre della patria” e che se non è colluso è almeno ingenuo: per i pentiti avrebbe ricevuto Badalamenti e cacciato con Bontate e uno come lui non avrebbe annusato la fine di Piersanti Mattarella.
Piace la modulazione ironica di Cavalli (che è consigliere regionale in Lombardia e facendo bene il suo lavoro è finito sotto scorta: accade in un Paese strambo in cui ti indicano la luna e guardi il dito), il solo approccio che consente di trattenere un furore etico che balugina qua e là e che dovrebbe essere di massa e invece è faccenda di nicchia, nel canovaccio di una cultura della rimozione e dell’amnesia, un brodo primordiale in cui rimesta senza remore la tv-spazzatura e l’effetto -narcosi che diffonde nelle case e nelle menti.