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È un riflesso pavloviano per il potere. Un pezzo della stampa italiana – un bel pezzo, si direbbe – ogni volta che viene nominato un presidente del Consiglio, che sia rosso o nero o ricco o povero o professore o cavaliere o donna di partito spezza tutte le matite precedenti per misurarsi in nuove agiografie. Metterli in fila fa spavento.
Da ributtante sovranista a statista come Draghi. Quanta bava per Giorgia Meloni. Come con tutti i potenti di turno
Il 26 ottobre mentre i giornali di destra celebravano il discorso di destra di Giorgia Meloni, Verderami sul Corriere (che vorrebbe essere il giornale dei progressisti) sottolineava invece il “sano pragmatismo”, la “presa d’atto del principio di realtà”, la “responsabilità”, l’“ortodossia”, e la lontananza dall’“armamentario ideologico del sovranismo”. È lo stesso Corriere della Sera che nei giorni dell’insediamento aveva pubblicato un pezzo dal titolo “Giorgia Meloni e il comfort look: pantaloni, camicia bianca e il cambio scarpe”. Quel giorno rimarrà memorabile.
“Pit stop scarpe per Giorgia Meloni, dal mocassino basso al tacco elegante” titolava La Stampa, “Meloni e il cambio di scarpe: al rito della campanella spuntano i tacchi”, scriveva Repubblica, “Meloni, il look: cambio scarpe a Palazzo Chigi, arriva senza tacchi, poi…” scovava Il Messaggero, mentre Tiscali tirava un sospiro di sollievo: “E Giorgia finalmente ha sorriso”, “con quella carica empatica che fa della leader della destra italiana una figura che riesce a strappare simpatia anche da chi sta da tutt’altra parte della geografia politica”.
Ha fatto molto discutere il pezzo di Concita De Gregorio che a proposito del discorso di Giorgia Meloni alla Camera scriveva: “Impeccabile, tuttavia. Convinto. competente, appassionato, libero, sincero. Avercene, si dice a Roma”. E poi: “Non è lei che spaventa, è il caravanserraglio di vecchie cariatidi che sono salite a bordo della sua scialuppa entusiaste di ritrovare una verginità grazie alla sua giovinezza”. E infine: “Per la prima volta da molti anni ho sentito – in un discorso di insediamento – l’eco di una storia personale appassionata e convinta e ho avuto voglia, avrei voglia, di discuterne”.
Del resto Giorgia Meloni è piaciuta fin da subito. Il 5 ottobre Repubblica la raccontava più forte della bronchite, più forte delle bizze di Salvini e del sonno: “Non bastasse Matteo Salvini, a peggiorare l’umore ci si mette anche una fastidiosa bronchite. Giorgia Meloni, però, non può riposare. Chiusa nel salone del gruppo, che domina la sommità di Montecitorio, la premier in pectore non si ferma un minuto”, si leggeva.
Il governo è partito con un’ottima stampa. Ci potrebbe anche stare se non fosse la stessa stampa, le stesse firme che fino a poche settimane fa randellavano la Meloni perché colpevole di opporsi al governo dei migliori di Mario Draghi (un altro esempio di ributtante luna di miele offerta dai media).
Giorgia Meloni contro Mario Draghi (che era il potente di turno) era una pazza dissennata che voleva la rovina d’Italia, magicamente nel giro di un mese la dissennata (che intanto ha conquistato il potere) diventa una “statista” che non ci eravamo accorti di avere. Ma c’è un altro particolare ancora più raccapricciante: oggi a essere sotto tiro sono gli alleati di governo, Salvini e Berlusconi, che fino a un mese fa erano esempi di responsabilità perché garantivano il proprio appoggio al governo Draghi.
La vedete l’ipocrisia Tranne poche eccezioni, la stampa nazionale ha completamente invertito la narrazione smentendo in gran parte tutto quello che aveva scritto. Qui non si tratta solo di essere benevoli con il potente di turno, si tratta anche di non avere la minima considerazione per l’integrità della propria linea editoriale (normale in un Paese che ha rarissimi esempi di editori puri) e poco rispetto per i propri lettori.
Lettori che improvvisamente si ritrovano catapultati nel mondo della Meloni che si è fatta da sola grazie alla sua autorevolezza: la stessa autorevolezza con cui aveva votato che Ruby Rubacuori fosse figlia di Mubarak per salvare Berlusconi. Poi ci si chiede perché i giornali perdano copie e i politici perdano voti.
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