Ne scrive Francesco Viviano qui:
Due primari ospedalieri, un commercialista, tre imprenditori, un gioielliere, personaggi potenti ed insospettabili del trapanese, costituirebbero la rete segreta di protezione del capo mafia Matteo Messina Denaro, latitante da 23 anni. Con alcuni di loro, sarebbe andato a cenare abitualmente in un ristorante di Santa Ninfa, sempre armato assieme a tre suoi fidatissimi guardiaspalle perché non voleva farsi catturare vivo. Nomi e cognomi, indirizzi, età e professioni dei favoreggiatori dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra sono contenuti in una informativa dei carabinieri da dieci anni, una informativa incredibilmente mai trasmessa all’ autorità giudiziaria, rimasta chissà in quale cassetto, e soltanto da poche settimane riapparsa e consegnata alla procuratrice aggiunta Teresa Principato (che coordina il gruppo interforze di carabinieri, polizia e 007 dell’ Aisi che danno la caccia a Matteo Messina Denaro) e al sostituto procuratore Nino Di Matteo, pm del processo per la presunta “trattativa” Stato-mafia.
Dopo avere fatto terra bruciata attorno al boss, arrestando decine di familiari e di fiancheggiatori delle cosche del trapanese senza però essere riusciti a stanarlo, gli inquirenti puntano ora agli anelli più alti di quella catena che continua a garantire la latitanza di Messina Denaro. E l’informativa, venuta fuori ora, suggerisce nomi di personaggi finora mai finiti nel mirino degli investigatori. Alcuni di loro si sarebbero anche prestati a fare da “postini” che farebbero la spola tra Castelvetrano (il paese del latitante) ed altri centri della Sicilia per fare arrivare o ricevere i “pizzini” con gli “ordini” e le “raccomandazioni” di Matteo Messina Denaro ad altri boss siciliani. Tra i “postini” più attivi due insospettabili, una donna e un pensionato delle ferrovie dello stato. Informazioni fornite da una fonte ritenuta “attendibilissima” – si legge nell’ informativa- che suggeriva ai carabinieri di non coinvolgere nelle indagini le forze dell’ ordine che allora operavano nella provincia di Trapani per evitare fughe di notizie ed informazioni che sarebbero potute arrivare proprio al boss Matteo Messina Denaro che probabilmente disponeva di qualche “talpa” tra gli investigatori trapanesi. La scottante informativa dei carabinieri che Repubblica ha potuto leggere ha provocato sconcerto e stupore nella Procura di Palermo, che ha avviato una indagine e una serie di accertamenti anche per ricostruire come e perché quell’informativa così importante sia rimasta nascosta per tanto tempo. Le due pagine dell’informativa sono state consegnate nelle settimane scorse alla Procura di Palermo dal generale in pensione dei carabinieri Nicolò Gebbia, che fu tra l’altro comandante della compagnia dei carabinieri di Marsala (che indagava anche su Matteo Messina Denaro) e poi comandante provinciale dei carabinieri di Palermo. Interrogato nei giorni scorsi dal pubblico ministero Nino Di Matteo il generale ha svelato di avere avuto quell’informativa poco prima di lasciare il comando provinciale di Palermo per assumere quello di Venezia e di averla consegnata – ha dichiarato a verbale – al generale Gennaro Niglio allora comandante della Regione Carabinieri Sicilia, morto in un incidente stradale assieme al suo autista, il 9 maggio del 2004 mentre tornava a Palermo da Caltanissetta. Ma da allora di questa informativa nessuno ha saputo più niente.
Nell’informativa si fa riferimento a un altro dei misteri siciliani, il sequestro dell’esattore Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, rapito il 17 luglio 1975 dai corleonesi e il cui corpo non è stato mai ritrovato. Il documento inedito svela ora che il suo cadavere sarebbe sepolto in una campagna di proprietà di uno dei favoreggiatori della latitanza di Matteo Messina Denaro. Un sequestro che provocò uno scontro tra i corleonesi e i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti (amici dei cugini Salvo) che reagirono uccidendo 17 mafiosi alleati dei corleonesi che avevano partecipato al sequestro di Corleo. Il generale Gebbia ha anche rivelato di avere appreso che pochi giorni dopo il sequestro di Corleo Nino Salvo telefonò a Giulio Andreotti, a quel tempo Presidente del Consiglio, “ordinandogli” di dare un permesso al boss Gaetano Badalamenti che si trovava al confino nel nord Italia, per rientrare per qualche mese in Sicilia per aiutarlo a liberare il suocero. Il permesso non fu concesso ed i Salvo “si adirarono molto” con Giulio Andreotti.