Ha ragione Gino Cecchettin. Dice di sentirsi sconfitto anche se gli sconfitti siamo noi. Non tutti, badate bene: gli sconfitti siamo noi maschi privilegiati. Privilegiati perché bianchi o comunque non troppo scuri; privilegiati perché credenti o comunque assimilabili alla religione giusta; privilegiati perché non troppo poveri, non troppo periferici, non troppo ignoranti, non troppo classificabili nelle categorie del Biagio; privilegiati perché figli di una famiglia definibile buona (ma che cosa rende buona una famiglia); privilegiati perché abbastanza furbi da non mostrare la natura che ci è stata instillata.
Ha ragione Gino Cecchettin perché l’ergastolo e qualsiasi altra sentenza sono elementi che afferiscono al dopo. Nel “dopo” è comodo e facile spremere un bicchiere di indignazione pubblica, inscenare solidarietà e fingere di non sapere che il percorso processuale non ha niente a che vedere con la vicenda umana e con le radici di quell’assassinio.
Il padre e i fratelli di Giulia Cecchettin hanno deciso di fissare l’asticella della giustizia all’estirpazione di una natura che è della società più che delle aule di giustizia. Per questo Gino Cecchettin è mortificato, percepito come un incontentabile progressista. Con sua figlia Elena è stato più facile: lei è femmina e il cassetto delle streghe sta lì aperto da secoli.
La sentenza riordina le carte, ma non tocca le corde dell’immarcescibile stato delle cose. La sentenza parla di Turetta. I Cecchettin, invece, si sono messi in testa di parlare di noi. Forse per questo alcuni tirano un sospiro di sollievo pensando che la storia sia chiusa.
Buon mercoledì.