Stefano Anastasia, tra i fondatori dell’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei detenuti, scrive un commento per Il Manifesto in cui sottolinea il ritorno della teoria della rivolta coordinata nelle carceri italiane.
I 58 detenuti suicidati nel 2024 – di cui due morti rifiutandosi di alimentarsi – oltre ai sei agenti di polizia penitenziaria suicidi dall’inizio dell’anno sono la fotografia di una pena di morte di fatto a cui da almeno 25 anni non si riesce a porre rimedio. «Morte per pena» la chiama Gennarino De Fazio segretario generale della Uilpa penitenziari.
Per svicolare dal problema certa stampa si sta riempiendo, di nuovo, delle cronache di rivolte in alcune carceri come Sollicciano, Viterbo, Torino, Trieste. Protestare in un luogo che mette a rischio la sopravvivenza dovrebbe essere considerato naturale, perfino salubre. Non è certo l’ordine pubblico il tema preponderante: i detenuti italiani sottoscrivono con lo Stato un patto di responsabilità che lo Stato non rispetta, infliggendo pene che non sono previste.
Anastasia sottolinea invece come il ddl del governo sulla sicurezza abbia voluto occuparsi delle rivolte, elevandole a reato a sé, perseguibile anche in caso di resistenza passiva di tre o più detenuti. Risultato? Saranno colpevoli “tre detenuti che rifiutano di rientrare in cella – spiega Anastasia – perché vogliono far vedere al responsabile della sezione una perdita d’acqua dal lavabo o l’intera sezione che vuole parlare con il direttore, il garante o il magistrato di sorveglianza”.
Lo Stato violento che criminalizza le proteste non violente mentre in carcere si muore. Siamo messi così.
Buon mercoledì.