Il coinvolgente spettacolo di Giulio Cavalli, che al teatro Nuovo ha raccontato come la mafia stia conquistando silenziosamente le nostre città lombarde. Fuori i nomi, e le facce, anche quelle, tutte sbattute sul palco, con le date, i numeri, e le accuse. So i colpevoli ma non ho le prove, diceva Pasolini. Giulio Cavalli, il teatrante che si cupa di mafia, porta invece proprio le prove: atti giudiziari, trasformati in recital; dice tutto e non omette nulla. E’ difficile in uno spettacolo teatrale, parlare della mafia, non quella epica siculoamericana, ma quella imprenditoriale, delle periferie milanesi, di gente che controlla cantieri, movimento terra, subappalti, che fa i soldi minacciando sotterraneamente sindaci e consiglieri comunali o, come accadeva a Lonate Pozzolo, che instaura un regime di terrore nei confronti dei bar, delle piccole attività del paese, le violenta con l’intimidazione, e poi prepara il terreno alla conquista del mercato, con metodi da guerriglia.
Non è facile fare teatro così, e infatti, lo spettacolo «A cento passi dal duomo», realizzato da Giulio Cavalli, coautore Gianni Barbacetto, musica (stupenda) di Gaetano Liguori, a tratti è difficile da seguire. Giulio Cavalli però è bravo e coraggioso, recita con passione e convince, sa rendere il clima di quello che dice, e sono dati, nomi, facce, persino, di mafiosi della ‘ndrangheta. sarà forse per questo che lo minacciano.
La sala del Cinema Nuovo, in viale dei mille, giovedì’ sera era piena, come non accadeva da tempo, dicono Giulio Rossini (Filmstudio 90) e Antonella Buonopane (Libera). Per l’appuntamento varesino dello spettacolo (nella rassegna Un posto nel mondo), in prima fila, c’erano gli agenti della questura di Lodi, la città dell’artista, 32 anni, che solo per aver messo in scena i nomi delle cosche, basandosi sui documenti giudiziari, è tenuto sotto la minaccia di attentati, costante. Eppure, «anche la mafia ha paura se arriva a minacciare Arlecchino» ha detto Cavalli in una recente intervista. La tesi dello spettacolo è che al Nord, a Milano, si fa ancora finta di non capire che la mafia esiste; anzi, che Milano è quasi una capitale, una grande lavanderia, e che le «famiglie» hanno colonizzato il territorio. Si parla di Sindona (appare sullo schermo una scritta, una dichiarazione del banchiere, sul legame tra la mafia e una piccola banca in via Mercanti), di Calvi, dell’onestà del commissario liquidatore della banca privata Giorgio Ambrosoli, e della moralità del magistrato torinese Bruno Caccia, ucciso nel 1983, per le sue inchieste, contro i «picciotti».
La mafia c’è: Buccinasco, Corsico, Milano centro. Vengono i brividi a sentire i nomi che sono corsi nelle inchieste della squadra mobile di Varese, o della procura di Busto Arsizio. E Cavalli cita gli omicidi nei bar, Giuseppe Russo, ammazzato a Lonate, mentre giocava al videopoker, «sparato in faccia, tre volte», il 27 novembre 2005. E cita Modesto Verderio, il leghista, ex assessore provinciale, che ai carabinieri, testimoniò alla magistratura, alla direzione distrattale antimafia, che una cosca stava minacciando l’intero paese. Cavalli lo cita: l’inchiesta «bad boys», gli arresti, il legame con i Farao Marincola, san Cataldo, il santo calabrese, che scalzò Sant’Ambrogio. Una metafora che strappa anche sorrisi, ma c’è poco da ridere. «Adesso siete collusi – dice alla fine dello spettacolo – …con la dignità».
20/11/2009
Roberto Rotondo