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Il grande bluff dei Cpr: milioni spesi per un rimpatrio su dieci

I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani rappresentano oggi uno dei capitoli più vergognosi della gestione migratoria. Il rapporto “Trattenuti 2024”, redatto da ActionAid e dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, espone in dettaglio l’inutilità pratica e lo sperpero economico delle strutture così amate dal governo Meloni. Il bilancio è chiaro: a fronte di una spesa pubblica di quasi 39 milioni di euro solo negli ultimi due anni, i Cpr hanno prodotto un tasso di rimpatrio pari al 10%. Questo significa che solo una minima parte delle persone trattenute viene effettivamente espulsa, mentre il resto resta confinato in una sorta di limbo, con costi umani e finanziari altissimi.

Cpr, cifre da capogiro per un fallimento colossale

L’analisi dei dati raccolti da ActionAid dipinge uno scenario di caos amministrativo e finanziario: dai costi delle strutture come il Cpr di Roma Ponte Galeria, che supera i 6 milioni di euro tra il 2022 e il 2023, alle drammatiche inefficienze, come quella di Torino, chiuso dal marzo 2023 nonostante le spese milionarie per affitto e ristrutturazioni. I numeri del fallimento si ripetono: a Brindisi il costo annuo per posto supera i 71.500 euro, mentre a Macomer si arriva a spendere più per il vitto e l’alloggio delle forze dell’ordine a presidio del centro che per la gestione stessa.

Le ragioni dell’inefficacia dei Cpr vanno oltre la sola gestione economica. Come sottolinea Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni di ActionAid, questi centri sembrano progettati non tanto per rimpatriare ma per trasformare i migranti in “criminali” agli occhi dell’opinione pubblica, ignorando il diritto d’asilo e riducendo la dignità dei trattenuti a una questione di numeri e posti disponibili. Le strutture detentive funzionano a meno della metà della loro capacità e spesso restano inutilizzabili a causa di danneggiamenti e rivolte provocate da condizioni di vita disumane, in cui autolesionismo e proteste sono all’ordine del giorno.

Un sistema che alimenta lo stigma e ignora i diritti umani

La Sicilia, con i suoi Cpr, è ormai diventata un “hub di trattenimento” per le procedure di frontiera, specialmente per i cittadini tunisini, grazie a un accordo bilaterale con la Tunisia. Questo sistema però si scontra con la realtà: nel 2023 i tunisini sono stati meno dell’11% degli arrivi complessivi in Italia, mentre l’85% dei rimpatri è stato riservato a loro, rendendo evidente l’assurdità di un sistema che isola e trattiene in frontiera solo una specifica nazionalità, lasciando irrisolto il quadro complessivo delle migrazioni.

Anche la trasparenza è una chimera: alcune strutture, come quelle di Gorizia, non hanno dati contabili disponibili. I gestori, spesso gli stessi da anni, continuano a vincere appalti nonostante il coinvolgimento in illeciti o scandali amministrativi. Questa continuità, denuncia Coresi, permette alle cooperative e ai soggetti for-profit di accumulare guadagni nonostante una cronica inadempienza degli obblighi contrattuali.

Il Decreto Cutro, con l’incremento della permanenza nei Cpr fino a 18 mesi, promette un ulteriore aggravio dei costi senza garanzie di efficienza. Il modello di trattenimento “leggero” dei richiedenti asilo in aree di frontiera si avvia ad estendersi in Albania, dove il governo italiano ha previsto centri di detenzione offshore, spostando all’estero le inefficienze e i costi di un sistema già fallimentare in Italia.

Alla luce di tutte queste criticità, emerge un paradosso: i Cpr, anziché facilitare i rimpatri, contribuiscono a un ingorgo burocratico che non risolve la questione migratoria, alimenta la spesa pubblica e compromette i diritti umani dei detenuti. La loro esistenza appare più una misura di facciata che una soluzione, mentre il governo fatica a giustificare un modello insostenibile, costoso e inefficace. Il grido “a casa!” è solo un costosissimo slogan. 

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