Un rapporto Censis-Eudaimon certifica che la maggior parte delle persone rifiuta straordinari e si nega a call e mail extra, preferendo badare a gestione dello stress e relazioni. E secondo un’altra ricerca un dipendente su due non è soddisfatto del proprio ruolo. C’entrano anche gli stipendi da fame. Oltre a uno scollamento di imprenditori e classe dirigente dalla realtà.
C’è una novità che si fatica a intercettare nel dibattito pubblico: il lavoro non è più l’attività di vita per eccellenza intorno alla quale tutto il resto deve strutturarsi. Sta scritto nero su bianco nel settimo rapporto “Il welfare aziendale e la sfida dei nuovi valori del lavoro” firmato Censis-Eudaimon. Si scopre che la grande maggioranza dei lavoratori esplicitamente indica che nel prossimo futuro ha intenzione di ridurre il tempo dedicato al lavoro, mentre quote significative già oggi, qualora possibile, proteggono il proprio tempo di non lavoro rifiutando straordinari, negandosi a call, mail e a ogni attività extra rispetto alle mansioni definite. E quote alte di occupati dichiarano che, rispetto a qualche anno fa, il lavoro è meno importante, perché nella loro vita è cresciuta la rilevanza di attività personali alternative.
Più attenzione al benessere psicofisico e alle relazioni
I numeri ci dicono che il 93,7 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici occupati in Italia considera molto importante il benessere e la felicità quotidiana. La stragrande maggioranza dei lavoratori ritiene che dedicare più tempo a sé stessi e alla propria famiglia sia la strada per aumentare il benessere. L’82,8 per cento del campione del Censis si è dichiarato più attento rispetto al passato al proprio benessere psicofisico, alla sua salute, alla gestione dello stress e alle relazioni. L’87,3 per cento degli occupati ritiene un errore fare del lavoro il centro della propria vita e per il 52,1 per cento il lavoro oggi influenza meno la vita privata rispetto al passato. Anche per questo, il 67,7 per cento degli occupati vorrebbe ridurre il tempo dedicato all’attività lavorativa nel prossimo futuro.
Solo il 49 per cento delle persone si ritiene felice del proprio lavoro
La quarta edizione della ricerca promossa dall’Associazione ricerca felicità 2024 restituisce risultati simili. Solo il 49 per cento del campione si ritiene felice del proprio lavoro. La percentuale è particolarmente negativa tra i lavoratori e le lavoratrici del Nord-Ovest (46 per cento), tra i colletti blu (44 per cento) e tra i più giovani (44 per cento).
Spiega Sandro Formica, vicepresidente e direttore scientifico dell’Associazione ricerca felicità: «Il lavoro ha un ruolo attivo nell’alimentazione della felicità. Non è un’impressione, non è trascurabile, è un fatto. Dalla nostra ricerca emerge chiaramente anche uno scollamento nel percepito dei lavoratori: se è vero per il 76 per cento che il loro lavoro migliora l’azienda, non si registra invece reciprocità in termini di soddisfazione dei bisogni, che per il 35 per cento non sono soddisfatti dal proprio lavoro. Man mano che viene data centralità al lavoratore, lo scollamento si fa ancor più esplicito: per il 41 per cento il lavoro non dà un senso alla vita, per il 47 per cento non aiuta a capire sé stessi».
Lavoro deriva da “pena”, “sforzo”, “fatica”, “sofferenza”
Siamo una Repubblica fondata sul lavoro? Una Repubblica fondata sul lavoro significa che il lavoro realizza la Repubblica. “Lavoro” in italiano, labour in inglese, travail in francese, trabajo in spagnolo, arbeit in tedesco. “Lavoro” e labour derivano dal latino labor che significava “pena”, “sforzo”, “fatica”, “sofferenza” e ogni attività penosa, e corrispondeva esattamente al greco πόνος. Nel XII secolo, insieme a labeur era apparso ouvrier, dal latino operaius, “uomo di pena”, che rinvia esso stesso a due parole: opus, “opera”, e operae, gli “impegni”, le “obbligazioni” che devono essere assolti sia dall’affrancato verso l’antico padrone, sia di fronte a un cliente nel caso di un contratto d’affari tra uomini liberi (locatio operis faciendi).
Nell’etimologia latina nessun riferimento alla gioia o al piacere
Non è presente, nell’etimologia latina, alcun riferimento alla gioia o al piacere come effetto del lavoro stesso. Ma se andiamo ancora più indietro nella ricerca delle origini del termine lavoro, arriviamo alla radice sanscrita labh (a sua volta dalla più antica radice rabh) che, in senso letterale, significa afferrare, mentre, in senso figurato, vuol dire orientare la volontà, il desiderio, l’intento, oppure intraprendere, ottenere. Se ci fermiamo a questa etimologia il lavoro diventa il luogo dove l’essere umano afferra il desiderio, orienta la volontà, intraprende e ottiene per se stesso, per il suo bisogno di autodeterminazione e per il suo benessere. E nel lavoro si professano i propri ideali, si alimenta la Repubblica italiana.
I problemi: stipendi da fame e classe dirigente scollata dalla realtà
Qui sorge la domanda: ma siamo davvero sicuri che oltre agli stipendi da fame (che non crescono da decenni) il “problema” di certa nostra imprenditoria non sia l’incapacità di cogliere l’evoluzione dei valori? Quanta classe dirigente c’è in grado di comprendere una soddisfazione personale che non derivi dal successo (pubblico) e dal potere? Siamo sicuri che basti minimizzare tutto come pigrizia? A meno che – il dubbio è legittimo – la ricerca della felicità sia un hobby riservato solo al circolo dei ricchi.
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