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Il partito dinastico al servizio del capo. Solo Marina può tenerlo in piedi

Per comprendere cosa sia stato il partito Forza Italia e provare a immaginare cosa potrebbe diventare sono utili due notizie uscite nella giornata di eri. La prima è un sondaggio di Noto per Repubblica che indica come il 54% degli elettori di Forza Italia vorrebbero fosse Marina Berlusconi a prendere le redini del partito.

La visione dinastica di un partito politico (in barba anche alla Costituzione) aderisce perfettamente alla visione berlusconiana: la compagine politica è soprattutto una corte funzionale alla brillantezza e alla vittoria del leader. Per questo Marina Berlusconi (figlia, ma soprattutto detentrice delle relazioni di suo padre) è il nome che in queste ore invocano in molti, anche dentro il partito, come garante della continuità e come unica speranza di autopreservazione di deputati e senatori.

Secondo un sondaggio il 54% degli elettori vuole Marina Berlusconi leader di FI. Dopo Silvio la figlia è l’unica che può evitare il tracollo

La seconda notizia che rivela la natura politica di Berlusconi e la matrice dei suoi fedelissimi sta nelle parole della (ora) calendiana Mara Carfagna che nella sua intervista a Il Mattino confessa di capire solo ora la scelta di Berlusconi di fare cadere il governo Draghi: “Oggi è chiaro che Berlusconi temeva di non avere più tempo, aveva fretta di andare alle urne per completare la sua straordinaria biografia politica con un’ultima vittoria”, dice candidamente la presidente di Azione confermando lo sdoganamento delle ambizioni private come unico motore politico.

La domanda a cui rispondere quindi è principalmente una: quali sono ora le ambizioni da assecondare? Le prime, più basse e pericolose, sono quelle dei parlamentari del partito che hanno un solo chiudo fisso: la loro rielezione. All’incertezza di un partito che oggi è spaccato tra i sostenitori dell’esautorata Licia Ronzulli e i fedelissimi al duo Tajani-Fascina qualcuno potrebbe preferire il porto sicuro di altri partiti più rassicuranti. In primis ovviamente c’è Fratelli d’Italia che si consolida nei sondaggi e ha il non trascurabile pregio di avere dimostrato una certa abilità nell’occupazione bulgara dei posti di potere, alla faccia anche dei suoi stessi alleati. Ma l’irrequietezza della presidente del Consiglio Giorgia Meloni indica che l’operazione non sia così facile.

È vero che accogliendo i forzisti Meloni potrebbe aprire a una collaborazione con il Ppe e darebbe il via a quel grande partito conservatore italiano che molti poteri auspicano ma il risvolto dell’operazione sarebbe una prateria per la radicalizzazione della Lega di Matteo Salvini (con conseguente recupero di voti) e perfino lo spazio per la nascita di un nuovo partito a destra. A Palazzo Chigi si teme che una “svolta moderata” possa non bastare per tenere saldo il governo quando le pressioni interne e esterne con il Pnrr in bilico dovranno essere affrontate con numeri certi.

La corrente di Forza Italia che non vuole appiattirsi sul governo, capitanata dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, dall’ex capogruppo Alessandro Cattaneo e dalla capogruppo in Senato Licia Ronzulli potrebbe far pesare i propri voti. Pesano anche i presidenti delle regioni (Renato Schifani in Sicilia, in Calabria Roberto Occhiuto, in Piemonte Alberto Cirio, in Molise Donato Toma e in Basilicata Vito Bardi) che nelle acque agitate degli ultimi mesi hanno dimostrato di andare in ordine sparso.

Esterni al partito ma importanti per gli equilibri futuri sono anche Lorenzo Cesa, Maurizio Lupi, Luigi Brugnaro e Giovanni Toti di Noi Moderati. Qualcuno – Matteo Renzi in testa – ha già sfoderato il pallottoliere sognando un governo tecnico. “Piuttosto le elezioni”, ripete Meloni. E il Pd aveva promesso di non ricadere nell’errore.

 

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