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Il pullman dei 26 migranti spaesati, emblema del fallimento dell’accoglienza

La scena potrebbe essere l’incipit di un libro di Leonardo Sciascia. C’è questo pullman – le cronache non ci dicono se fosse scassato – che possiamo immaginare cigolante per esigenze d’atmosfera, con a bordo 26 migranti partiti da Siracusa. Il «partiti da Siracusa» è una definizione che forse non rende l’idea, che rende tutto colpevolmente superficiale. I 26 arrivano dall’Africa subsahariana, lembo sofferente in un continente sofferente in cui l’unica salvezza spesso è tirare fuori la testa in Europa, come un annegato che cerca l’ossigeno. Nascere dalla parte sbagliata del mondo (l’Africa sotto il Sahara è una delle parti sfortunate in cui venire al mondo) significa intraprendere un viaggio che contiene molti viaggi. Nel loro caso c’è da trovare un trafficante che curi il prelievo nel villaggio, la traversata del deserto che offre una letteratura della violenza con uomini bruciati dopo essere stati ricoperti di benzina fino al collo dell’imbuto, la Libia. La Libia, che dovrebbe essere primo passo della speranza, è il tonfo ancora peggiore.

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Migranti in Sicilia. (Getty Images)

La Libia della schiavitù, degli stupri e delle torture

Il rapporto dell’Onu spiega che in Libia la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il traffico di migranti vulnerabili hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali e hanno incentivato la continuazione delle violazioni. Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che i migranti siano stati ridotti in schiavitù in centri di detenzione ufficiali così come in «prigioni segrete» e che lo stupro sia stato commesso come crimine contro l’umanità. Nel contesto della detenzione, le autorità statali e le entità affiliate – tra cui l’Apparato di deterrenza della Libia per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (Dacot), le Forze armate arabe libiche (Laaf), l’Agenzia per la sicurezza interna (Isa) e l’Apparato di supporto alla stabilità (Ssa) e la loro leadership – sono state ripetutamente trovate coinvolte in violazioni e abusi. I detenuti sono regolarmente sottoposti a tortura, isolamento, detenzione in isolamento e gli viene negato un adeguato accesso ad acqua, cibo, servizi igienici, luce, esercizio fisico, cure mediche, consulenza legale e comunicazione con i familiari.

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Migranti in un centro di detenzione in Libia. (Getty)

Spargerli in giro perché si notino il meno possibile

Immaginiamo questi 26. Le donne regolarmente stuprate sperando di essere brutte, di diventare sempre più brutte per poter partire. Gli uomini con i polsi e le caviglie fratturate per gioco dagli schiavisti. Nell’orrore si imbarcano. Arrivati a questo punto del viaggio – lo dicono tutti – rischiare di morire su un barchino instabile ha il sapore della buona notizia. Dopo quell’orrore i corpi hanno imparato a non avere più paura. I nostri 26 sbarcano in Italia. Anche qui sono numeri. In Italia concorrono a scassare la propaganda che risponde ingrassando l’odio. Quei 26 rientrano nelle statistiche di un governo che ha bisogno di numeri bassi da dare in pasto ai propri elettori: sono persone che sbrodolano e danno fastidio. Qui per fortuna non si possono nascondere le persone in scantinati illegali e non si possono eliminare per togliersi il problema. A Siracusa tocca spargerli in giro perché si notino il meno possibile. Destinazione Piemonte.

Il pullman dei 26 migranti spaesati, emblema del fallimento dell'accoglienza
I 26 migranti fatti scendere dal pullman.

Il capolinea molto prima del centro d’accoglienza

Torniamo al pullman che non sappiamo se scassato. Il torpedone attraversa l’Italia e arriva a Rocca Canavese, un paesino di poco più di mille abitanti a una trentina di chilometri da Torino. I migranti sarebbero destinati a diversi centri d’accoglienza in Piemonte, ma nella piazza cittadina il pullman ferma, sbuffa e l’autista stentoreo dice che siamo al capolinea. Al capolinea di cosa, avranno pensato quelli. Scendono e si ritrovano in mezzo a una piazza, con le valigie che hanno tutta una vita dentro. Rimangono lì, si guardano in giro. Qualche anima buona decide di telefonare al sindaco. «Quando me lo hanno riferito non riuscivo a crederci», racconta il sindaco Alessandro Lajolo al Corriere Torino. «Poi sono sceso in piazza e ho visto questi poveri ragazzi, stanchi e spaesati, in strada. Siamo di fronte a un’emergenza umanitaria e qui a Rocca facciamo quello che è nelle nostre possibilità, ma l’accoglienza non può funzionare così». Dice il sindaco: «Ci hanno messo in contatto con gli autisti e dopo due ore la situazione è stata risolta. Mi spiace per queste persone che hanno dovuto affrontare pericoli e difficoltà e di certo non meritavano di essere trattate come pacchi. Ho chiesto spiegazioni ai conducenti del pullman, da quello che ho capito erano convinti che questo fosse un punto di smistamento. O forse erano semplicemente troppo stanchi». Talvolta accadono episodi che valgono più di mille editoriali. Il pullman degli spaesati è uno di questi.

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