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Immigrati e Made in Italy: non sono i rifugiati il vero problema dello sfruttamento del lavoro agricolo

Si torna a parlare – ma si smetterà presto – dello sfruttamento dei lavoratori migranti nell’agricoltura. La morte di Satnam Singh a Latina pone ancora una volta l’annoso tema “dell’eccellenza del cibo italiano” dipendente dalle braccia straniere.

“Un fatto costantemente ignorato dalla pubblicità patinata e dagli eventi ufficiali del made in Italy”, come scrive il  docente di Sociologia delle migrazioni nell’università degli studi di Milano, Maurizio Ambrosini. Singh è la centesima vittima immigrata sul lavoro nel 2024.

In una riflessione per lavoce.info Ambrosini sottolinea come in agricoltura “scarsa capacità contrattuale nei confronti della distribuzione e scarsa capacità d’innovazione tecnologica sono compensate dallo sfruttamento del lavoro, fornito oggi sempre più da immigrati in varie condizioni legali”.

Il sociologo sottolinea che dove il lavoro umano non può essere sostituito dalle macchine, o non lo è per mancanza d’investimenti, la stagionalità delle produzioni richiede “grandi afflussi di manodopera per periodi molto brevi, senza che si presti sufficiente attenzione – e controlli dovuti – a come questi lavoratori vengano assunti, trattati e alloggiati. Va ricordato per contro che vi sono regioni in cui i pomodori non si raccolgono più a mano”.

Immigrazione e Made in Italy

Gli immigrati che lavorano regolarmente in Italia sono stimati dall’Istat in 2,4 milioni circa, più del 10 per cento degli occupati.

In agricoltura, però, il loro contributo è più rilevante: gli stranieri occupati nel settore sono quasi 362 mila (alla fine del 2022) e coprono il 31,7 per cento delle giornate di lavoro registrate. Ma questi sono solo i numeri ufficiali che non tengono conto di un vasto mondo di lavoro sommerso.

Una recente ricerca promossa dal centro studi Confronti per conto della Fai-Cisl sui lavoratori immigrati nell’agroalimentare (“Made in Immigritaly. Terre, colture, culture”) evidenzia come le principali provenienze nazionali registrate nei dati istituzionali sono tuttora, nell’ordine: Romania, Marocco, India, Albania e Senegal.

Le nazionalità dei rifugiati non compaiono nelle prime posizioni, e in generale l’Africa subsahariana è sottorappresentata. Quindi no, il problema non sono gli immigrati irregolari e i richiedenti asilo, come si sente dire in questi giorni.

“Nonostante la stabilità delle presenze di im­migrati – dice Paolo Naso, curatore della ricerca e docente di Scienza politica all’Università La Sapienza di Roma – il Paese continua a vivere una sorta di schizofrenia tra la narrazione dell’immigrazione come invasione onerosa e socialmente rischiosa da una parte, e un sempre più evidente bisogno di manodopera immigrata dall’altra”. A balzare all’occhio piuttosto è la debolezza di uno Stato che installa ambulatori e servizi igienici in prossimità dei cosiddetti “ghetti” o costruisce tendopoli ma non riesce, come scrive Ambrosini – “a incidere sui rapporti di lavoro e a convincere i datori di lavoro ad applicare i contratti”.

Esempi virtuosi
Ma nell’agricoltura, spiega Ambrosini, lo sfruttamento non è un destino. In Trentino migliaia di lavoratori stagionali ogni anno arrivano, soprattutto dall’Europa orientale, sono assunti quasi sempre regolarmente e alloggiati dignitosamente.

Oggi il problema è che non ne arrivano più a sufficienza. In provincia di Bergamo, come in altre province della Valpadana, gli indiani sikh – coetnici di quelli sfruttati a Latina – lavorano nell’industria zootecnica, con impieghi stabili, contratti regolari, alloggi decenti. In Veneto le produzioni di eccellenza impiegano manodopera straniera che riceve trattamenti adeguati.

L’industria delle carni in Emilia-Romagna applica i contratti e stabilizza i lavoratori, pur con stratificazioni etniche e rivalità. “Lo sfruttamento non è un destino, – spiega Ambrosini – e le produzioni del made in Italy possono ricorrere al lavoro degli immigrati anche riconoscendolo e tutelandolo”.

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