Ogni tanto mi viene una paura. Beh, me ne vengono molte, in realtà, di paure, ma questa è quella che mi tiene più compagnia di tutte le altre perché in fondo è una paura che mi assomiglia. Quando una paura ti assomiglia è confortante, come un elettrocardiogramma o un esame del sangue con i parametri perfettamente nella norma, perché in fondo è un termometro che ti segna sempre la tua solita febbre nonostante il passare degli anni.
Ecco, la paura che se non c’è poi in fondo mi manca, è la paura di non scrivere. Attenzione: non è il timore di non ‘riuscire’ più a scrivere o il timore di non ‘sapere’ più scrivere o il timore di non avere ‘niente da scrivere’. No, no. Proprio di non scrivere. Così senza avverbi. Insomma ho una storia in testa, anzi ne ho decine, che stanno lì, si frequentano anche tra loro, dico fanno amicizia si scambiano pareri ogni tanto finiscono per prendere qualcuna qualcosa di quell’altra e intanto si esercitano. In testa ci sono periodi che è tutta una palestra complicatissima e molto frequentata. Sudore e caos. Ma la paura di scrivere è più di tutto figlia della mia affezione per il momento ‘prima’ del cominciare a riempire la prima riga del primo foglio, come un sabato del villaggio e la scrittura ne è la celebrazione. Mica la messa in scena o la pubblicazione, no, no, proprio la scrittura è la mia domenica e il ‘prima’ è un sabato e la donzelletta che viene dalla campagna e quelle altre cose lì. E lo faccio durare mesi, quel sabato.
Allora pensavo oggi che in fondo sono un incubatore professionista, come una quaglia che si innamora troppo del proprio uovo e rischia di essere una pessima mamma quaglia proprio per questo, come i ristoratori che ammirano la sala un mi tuo prima dell’apertura e si confessano sottovoce di sentirla rovinata dai clienti che spiegazzano e macchiano tutto in giro. Una cosa così. Non so nemmeno se sia una patologia. Ma amo i progetti che sono rotondi per concezione e non solo per usura. Una cosa così. E volevo scriverlo. Ecco.