La 24enne violentata in un ascensore della stazione della Circumvesuviana a San Giorgio a Cremano (Napoli) il 5 marzo scorso, ieri è uscita di casa per la prima volta dopo 15 giorni. Nello studio del suo legale, Maurizio Capozzo, la ragazza ha scritto una lettera rivolta a chi non ha creduto al suo racconto.
“Bastano pochi minuti e ritorno col pensiero”, scrive la ragazza. “Erano attimi di incapacità a reagire di fronte la brutalità e la supremazia di tre corpi. Erano attimi in cui la mente sembrava come incapace di comprendere, di totale perdizione dell’essere. E dopo che il corpo era diventato scarto e oggetto, ho provato una sorta di distacco da esso. Il mio corpo, sede della mia anima, così sporco”.
“Mi sembrava di essere avvolta dalla nebbia mentre mi trascinavo su quella panchina dopo quelli che saranno stati 7 o 8 minuti”, prosegue la ragazza, che è stata soccorsa dai viaggiatori mentre era su una panchina della stazione, piangeva e raccontava alla madre al telefono della violenza.
“Mi sono seduta e non l’ho avvertito più. Ho cominciato ad odiarlo e poi a provare una profonda compassione per il mio essere. Compassione che ancora oggi mi accompagna, unita ad una sensazione di rabbia impotente, unita al rammarico, allo sdegno, allo sporco, al rifiuto e poi all’accettazione di un corpo che fatico a riconoscere perché calpestato nella sua purezza”.
“Se avessi saputo tutto questo non avrei denunciato”, è il pensiero della ragazza. “Sono stata interrogata per ore dalla polizia, dai magistrati e dagli psicologi. Ho cercato di dare il massimo contributo, e a che è servito? A niente. Pensano che sia colpa mia”.
“Sono triste, amareggiata, soprattutto perché proprio non riesco a comprendere come sia possibile prendere una decisione del genere. Mi fa solo pensare che non sono stata creduta nel mio racconto, che le mie parole non hanno avuto peso. Hanno creduto a loro tre e non a me”.”
“Il futuro diviene una sorta di clessidra”, scrive. “Consumato il corpo e la mente dal tempo odierno ricerca una vita semplice. Mi piacerebbe essere a capo di un’associazione che si occupa della prevenzione, della tutela e della salvaguardia delle donne, ragazze, bambine a rischio, perché donare se stessi e il proprio vissuto per gli altri è l’unico modo per accettarlo”.