(C’è una lettera sul Corriere della Sera che vale al pena leggere perché parla di donne, madri, lavoro e del diritto al tempo. È stata inviata a Severgnini e l’autrice ha chiesto di rimanere anonima)
“Caro Beppe, dopo giorni di lacrime e dubbi scrivo a te, rendendoti destinatario di un flusso di coscienza ma anche di una dichiarazione di fallimento. Prima di entrare nel merito dello sfogo, ti racconto però un breve aneddoto che ti farà sorridere… Ho sempre sognato di fare la giornalista, fin da bambina, e ti ho sempre letto; quando al liceo ci assegnarono un tema sui nostri miti, mentre i miei compagni parlarono di Che Guevara o di Bob Marley, io parlai di te… Scrissi di volermi occupare di cronaca di costume perché l’unica cosa in cui ero brava era osservare la gente e il mio maestro eri tu… Son passati 20 anni da quel tema e la realtà è che non sono diventata giornalista. Mi sono iscritta a giurisprudenza perché, figlia di magistrato, ho seguito il consiglio paterno, quel genere di consigli che ti pesano come macigni ma che ti sembrano ineluttabili, perché non riesci a contraddire la persona che per te è l’essenza della ragionevolezza. Son finita a fare l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio fallimento.
Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose.
Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche (che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possibilmente sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come sei da tanti pensieri.
Ma i sensi di colpa non sono solo questi.
Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini;
Ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»;
Ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel piatto di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto pressione.
E poi ti guardi intorno e vedi donne ammazzate, donne vilipese, donne aggredite fisicamente e verbalmente, sul web o in televisione. Ma non trovi conforto neppure negli incontri quotidiani con uomini per bene, evoluti e sensibili, i quali (chissà perché) dimostrano sempre una impercettibile sfumatura di diversità nel trattare con una donna o con un uomo. Sono stanca, caro Beppe.
Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito.
Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state incapaci di realizzarlo. Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non abbiamo nessun aiuto dai Comuni, dallo Stato, nessuna comprensione (se non di facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi. Anche tra mamme lavoratrici, millantiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre pronte a giudicarci vicendevolmente. Ho il nodo alla gola da giorni e non vedo soluzione, se non una nuova chiave di lettura di questa ormai esasperata condizione.
Spero tu possa trovare il tempo di rispondermi e di regalarmi il tuo (per me) prezioso punto di vista. Ti prego di non pubblicare il mio nome, perché, avendoti scritto col cuore, ho inserito troppi riferimenti personali e professionali.”