Ho avuto febbre. Passare le feste febbricitanti è come comprarsi un biglietto in prima fila di un film neorealistico su Roma godereccia e magnona attraversata dalle nostre famiglie così larghe da essere slabbrate. Mi sono fermato dallo scrivere perché, sappiatelo, da malato divento un terribile ipocondriaco: ascolto le mie temperature, i miei battiti, i miei mal di gola e l’accelerazione del sangue come uno stonatissimo sommelier attorcigliato alla bottiglia di vino per un tavolo in cui si sono già alzati tutti da un pezzo anche se lui non se n’è accorto.
Stamattina, che è già l’anno prossimo, mi sono detto che forse è il caso di rimettermi in piedi e provare a fare due conti su questo 2016 salutato con la voce troppo alta e i gesti troppo ampi di quando farciamo un ciao con la speranza di non rincontrarci più. Un 2016 che, visto da qui, è stato l’anno degli urli in faccia: gli adulti si urlano in faccia per non ascoltarsi fingendo di non riuscire a parlare. È la fine di ogni comunicazione ma anche di ogni tentativo di elaborazione, è la fine della voglia di analisi: urlarsi in faccia diventa la giungla degli egocentrici schiacciati dall’incapacità di ascolto e dei vendicativi troppo contenti per la demolizione degli altri. Un 2016 in cui nemmeno perdere o vincere sembra essere servito, una cosa così, un anno in cui sono risultati piuttosto ineleganti sia i vincitori che i vinti.
E poi c’è questa voglia matta di ricominciare, questa ansia che ci porta al conto alla rovescia perché si faccia tre due uno zero e si possa credere di avere un nuovo inizio che non debba scendere a patti con l’anno prima. E a me infonde una tenerezza triste questo nostro essere costretti a cercare un anno nuovo per aggrapparsi. Questa Coscienza collettiva di Zeno che ciondola su una sigaretta che sia l’ultima per scacciare le insicurezze che ci si sono accumulate negli angoli delle stanze di casa. Succede per il Capodanno ma succede per ogni nuovo Presidente del Consiglio, per ogni primo giorno della settimana, per ogni rientro dalle ferie, per ogni ultimo giorno prima delle ferie, per ogni colloquio di lavoro andato bene e per ogni colloquio andato male; succede ogni volta che ci promettiamo che sia l’ultima, ogni volta che preghiamo di scansarla. E invece mi sembra un augurio bellissimo quello di arrivare al prossimo anno sperando che non si debba ripartire da zero. O il prossimo lunedì.
Con la voglia di continuare e non di ricominciare.