Donald Trump, in piedi al National Faith Summit, si lascia andare a promesse di fede e salvezza, come un pastore infervorato. Vuole un “ufficio della fede” dentro la Casa Bianca, un cuore spirituale pulsante accanto alla scrivania più potente d’America. Trump parla di un’America sotto attacco, di cattolici perseguitati, e Kamala Harris diventa, nelle sue parole, una nemica della religione, una figura da cui guardarsi. Da lì a chiamarla “fascista” è un passo breve.
Trump e la fede come arma politica
Ma la campagna non si gioca solo sul palcoscenico elettorale. In un silenzio che sa di resa, lo storico Washington Post annuncia che non sosterrà alcun candidato. Più di duecentomila abbonati se ne vanno, e la testata si trova a riflettere sul prezzo della neutralità. Per qualcuno è una fuga, un atto di codardia, un tradimento dell’ultimo baluardo democratico. E così, in una manciata di giorni, un quotidiano secolare si trova a brancolare nel buio, come chi perde la strada proprio alla vigilia della tempesta.
Trump, intanto, continua a marciare a colpi di retorica aspra. Evoca complotti, diffonde paure, dipinge un Paese invaso e conquistato da nemici senza volto, uomini “assetati di sangue” da cui promette di salvare le donne d’America. E mentre Harris si rivolge ai giovani del Michigan, cercando di invocarne l’energia e la voglia di cambiare, lui si pone come unico scudo contro i pericoli che minacciano una patria “da salvare”: un messaggio ardito che si traduce in promesse di legge marziale, frontiere di ferro e muri più alti. Il suo sguardo si fa cupo quando parla dell’immigrazione, della pena di morte per chi viola il suolo americano e tra il pubblico qualcuno applaude come si applaudirebbe una lotta tra gladiatori.
Il braccio di ferro mediatico e le accuse incrociate
Kamala Harris è altrove, in tutt’altro campo di battaglia. Si rivolge ai giovani, agli elettori latini, ai musulmani di Detroit e del Michigan, a chi non si riconosce nell’idea di un’America chiusa, irta di palizzate e diffidenze. Ma sa bene che il terreno è scivoloso, che basta una provocazione per accendere la piazza. E così, mentre lei ascolta i canti di protesta pro-palestinesi e cerca di placare la tempesta, Maggie Rogers canta per la folla, e un’altra voce urla che Trump è paura, è la notte che avanza, un timore che va arginato con la luce, dicono i sostenitori dem.
Ma il braccio di ferro non si esaurisce qui. Trump lancia accuse perfino a Michelle Obama, insinuando che sia lei a incarnare la vera cattiveria dell’America “che odia.” Michelle, che da anni è il volto di una cultura votata al rispetto, diventa bersaglio di un rancore mai sopito, un pretesto per distogliere l’attenzione dai propri lati oscuri. Intanto, i sostenitori più devoti al presidente – capitanati da Marjorie Taylor Greene – insorgono, rigettano etichette come “fascista” e “nazista” e minacciano class action contro i media. In questo rimpallo di accuse, Greene, la deputata cospirazionista, si sente forte. È l’avvocata di Trump contro un nemico invisibile, uno spettro che abita la stampa, le università, i tribunali.
Sul lato opposto, Doug Emhoff, il second gentleman marito di Harris, pronuncia parole cariche d’angoscia mentre celebra il ricordo della strage alla Tree of Life Synagogue, invocando un’America che sappia spegnere il fuoco dell’odio. È uno scontro senza resa, quello tra chi dipinge Trump come un “agente del caos” e chi lo vede come l’ultimo baluardo. E, tra una promessa e una minaccia, entrambi i candidati sembrano scolpire, ognuno per sé, un’immagine distorta dell’avversario, un riflesso caricaturale che accende gli animi.
I giorni passano ma restano le cicatrici: incendi dolosi distruggono schede elettorali in Oregon, richieste d’intervento raggiungono la Corte Suprema per fermare i voti provvisori in Pennsylvania, e mentre Trump allude a un “piano segreto” nella Camera dei Rappresentanti, l’America si guarda allo specchio, smarrita, divisa, in bilico su un voto che ha le sembianze di un abisso.
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