Dopo che la prima premier donna della storia della Repubblica italiana ha chiesto di essere chiamata il presidente tra i suoi è scattata la guerra di pronomi per compiacerla. Il risultato è un «lessico povero» che «limita gli strumenti di ragionamento complesso e critico». Uno degli archetipi dell’Ur-fascismo elencati da Eco nel 1995. Oggi ci siamo arrivati.
Pochi giorni da alla Camera la deputata del Partito democratico Maria Cecilia Guerra è sbottata. Senza perdere la sua elegante gentilezza ha preso la parola e si è rivolta al presidente di turno, il forzista Giorgio Mulè, chiamandolo «signora presidente». Guerra ha sottolineato come poco prima il deputato di Fratelli d’Italia Marco Perissa in un suo intervento avesse chiamato «segretario» la leader dei dem Elly Schlein. «Quindi se è permesso rivolgersi a una donna con appellativo maschile, allora è consentito anche a me rivolgermi a lei al femminile a meno che non richiami tutti quelli che continuano a chiamare le donne al maschile. Lei tiene al suo genere, io tengo al mio», ha spiegato Guerra. Impagabile la reazione del maschio Mulè: «Onorevole Guerra, avrei qualcosa da ridire. La mia identità è quella e se si rivolge a me lo faccia come presidente, non si può rivolgere a me come ‘signora presidente’».
L’ossessione tragicomica di utilizzare il maschile per ogni ruolo che sembri importante
A proposito di cose da ridire. Il 2023 verrà ricordato anche per un aspetto meno importante ma molto significativo: per un intero anno una schiera di stampa, di politici della maggioranza, di commentatori televisivi, di conduttori radiofonici e analisti da ufficio o da bar hanno chiamato al maschile la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Per un intero anno la prima presidente del Consiglio donna nella storia della Repubblica italiana ha non solo accettato ma addirittura richiesto di essere chiamata al maschile e con quella forzatura di genere nel linguaggio ha preteso di essere vista come paladina della libertà e delle donne. Il risultato è un’ossessione tragicomica che spinge il malcapitato di turno – come nel caso del deputato Perrissa – a utilizzare il genere maschile per qualsiasi ruolo gli sembri importante convinto di onorare così la sua capa. Sembra una storia di Calvino: dopo il cavaliere inesistente e il visconte dimezzato anche la presidente maschio.
Meloni “uomo dell’anno” perché secondo Libero il femminile è una diminutio insopportabile
Nel 2023 dare dell’uomo a una donna è diventato un complimento e a nessuno dei portatori dell’egemonia culturale di questo governo scappa da ridere riguardandosi indietro. Anzi, peggio: l’ex portavoce della presidente del Consiglio ora direttore di Libero ha pensato di eleggere Giorgia Meloni “uomo dell’anno” in prima pagina per onorarne la capacità di prepotenza e di dominazione. Il direttore Sechi deve avere pensato che femmina fosse un sinonimo di mollezza e che servisse una parola sola per indicarne il verbo. C’è da scommettere che avrà pensato a quel “donna con le palle” già imbarazzante in un film western. Infine ha deciso che l’aggettivo migliore fosse “uomo”. Il femminile da quelle parti è una diminutio insopportabile per la leader. O il leader. Insomma, quella roba lì.
Fratelli d’Italia e quella celebrazione della donna-madre di fascistissima memoria
La zuffa sui pronomi è significativa perché contiene lo stesso seme che spinge una senatrice (o un senatore?) come Lavinia Mennuni – ovviamente di Fratelli d’Italia – ad andare in televisione per spiegarci che una donna si realizza solo se mamma. La celebrazione della madre e del fanciullo di fascistissima memoria si innesta in una carriera politica che si potrebbe riassumere così: battaglia per l’obbligo del presepe a scuola, sepoltura dei feti anche contro il volere delle madri, una protesta contro l’intitolazione di una piazza a Martin Lutero e 6 mila emendamenti presentati nel 2015 contro la delibera sulle unioni civili discussa in Campidoglio. La senatrice Mennuni (prendiamo lei come esempio, non ne abbia a male) è il prototipo di chi vuole esercitare la libertà di obbligare gli altri a fare quello che ritiene giusto.
La lezione dimenticata di Eco sull’Ur-fascismo e la creazione del machismo
Per Umberto Eco il fascismo è esistito prima della dittatura fascista in Italia. Ed è continuato a esistere dopo il 25 aprile 1945. Non nella stessa forma o con le stesse modalità, ma nell’insieme delle sue caratteristiche culturali, psicologiche e comunicative. Nell’aprile del 1995, tre mesi dopo la caduta del primo governo Berlusconi, Umberto Eco si trovava a New York per tenere una conferenza alla prestigiosa Columbia University ed elencò gli archetipi di quello che chiamò Ur-fascismo. Il 12esimo punto era lo spostamento del culto dell’eroismo su questioni sessuali, creando il machismo. In questo modo secondo Eco vengono giustificati il «disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all’omosessualità». Controllo e repressione della sessualità, quindi. Ma quello che ci interessa è l’ultimo punto, il 14esimo: l’uso di una “neolingua” non intesa come l’idioma inventato da George Orwell nel libro 1984, ma come un «lessico povero» caratterizzato da «una sintassi elementare, per limitare gli strumenti di ragionamento complesso e critico». Eccoci qui.
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