Negli ultimi mesi le cariche delle forze dell’ordine si sono moltiplicate. Contro studenti che manifestano per la pace in Palestina, contro chi difende il diritto al lavoro o chi si batte per l’ambiente. In una parola verso chi non si riconosce nelle idee e negli obiettivi del governo più marziale della storia repubblicana. Come lo vogliamo chiamare? Michela Murgia non aveva dubbi.
In una delle nostre ultime telefonate Michela Murgia mi raccontava di un elenco di intellettuali, soprattutto scrittori, non graditi che era stato girato a certi Istituti italiani di cultura in giro per il mondo. La repressione può avere molte forme, può essere la manganellata di un poliziotto adulto addestrato e attrezzato per gravi disordini sociali in faccia a un ragazzino che chiede di fermare la strage in Palestina o può essere un bisbiglio velenoso che comanda senza impartire. La leva dell’autocensura in Italia, oliata dalla naturale propensione di molti verso il potere di turno fa il resto: a volte non c’è bisogno di dire esplicitamente che vi sono categorie di persone con cui si può usare un pugno più duro che con altre. Basta la percezione di una garantita impunità da parte del potere politico maggioritario.
Blocchi stradali, gli eco-vandali e gli agricoltori eroi
Negli ultimi mesi le strade italiane sono state bloccate da attivisti per il clima e da agricoltori organizzati. Lasciamo perdere le legittime richieste di ognuno, proviamo semplicemente a valutare le reazioni ai blocchi stradali. Gli attivisti per il clima sono stati apostrofati come «gretini», «eco vandali», «eco cretini», «delinquenti» e meritevoli di «essere sbattuti in galera e buttare via la chiave». Tutte queste definizioni sono uscite dalla bocca di importanti rappresentati dei partiti di maggioranza e del governo. Nessuno tra loro si è sognato di definire “agri cretini” i coltivatori che hanno protestato e che stano protestando ancora. Nel primo caso si è puntato il dito sul contestatore tralasciando le ragioni della suo manifestare mentre nel secondo caso le lamentele sono state prese così terribilmente sul serio che anche una statua disarcionata (non sporcata con vernice lavabile, letteralmente mandata in pezzi) in piazza a Bruxelles è passata inosservata nell’indifferenza generale.
L’identikit delle vittime della repressione
Ciò che è preoccupante nelle impattanti operazioni di polizia di questi ultimi mesi è l’omogeneità delle vittime. Sono molti giovani (a quelli di Ultima generazione hanno dedicato perfino un decreto legge contra personam), studenti, afferibili ad ambienti di sinistra o comunque considerati estranei alla parte politica della maggioranza di governo, sono dichiaratamente antifascisti. Il governo più marziale della storia repubblicana e più benevolmente retorico verso le forze dell’ordine (meglio: verso il diritto alla forza che rappresentano) sta riuscendo nella mirabile impresa di aggiungere alla categoria dei “pericolosi” oltre alle storiche donne e bambini che sbarcano sulle nostre coste anche degli eleganti signori che alla borghesissima Prima della Scala urlano «viva l’Italia antifascista», degli studenti che sfilano per la pace, dei cantanti che dicono (come cantano) quello che pensano, dei conduttori televisivi che intervistano, delle donne che lamentano di essere uccise e così via. Di fronte alle immagini di 50 poliziotti bardati per la guerra che malmenano qualche decina di ragazzini con lo zaino in spalla, la questura di Pisa ci ha spiegato che «il corteo non era autorizzato» (come gli agricoltori in mezzo alla strada, come i fascisti alle commemorazioni, del resto) e che «è mancata l’interlocuzione con i rappresentanti dei promotori». La giustificazione è fenomenale: poiché non sapevano con chi parlare hanno menato le mani. E hanno menato le mani perché questo tempo concede la percezione di impunità a chi alza il livello di scontro contro studenti che manifestano per la Palestina, così come contro quelli che manifestano per l’ambiente, così come quelli che manifestano per il diritto al lavoro, così come contro quelli che manifestano per un obiettivo che il governo non condivide.
Piantedosi potrebbe essere ricordato per aver superato (in peggio) il maestro Salvini
Qualche giorno fa il ministro all’Interno Matteo Piantedosi – che tra qualche anno senza vergogna ricorderemo come colui che è riuscito a fare peggio del suo maestro Salvini – ha candidamente spiegato che l’identificazione di alcune persone che portavano un fiore in memoria di Navalny nel luogo che commemora Anna Politkovskaja non è «una compressione delle libertà». Il ministro non ci trova nulla di strano che nei registri di Stato si debba tenere conto di chi silenziosamente rende omaggio a una vittima di Putin. Diceva Michela Murgia: «Io penso che questo governo sia fascista. Lo penso dalle scelte, dalle decisioni che sta prendendo. Cioè controllo dei corpi, controllo della libertà personale, discriminazione delle comunità già discriminate che stavano riuscendo a ottenere dei diritti. Una certa impostazione ideologica che inevitabilmente ripercorre cose che abbiamo già visto. Ma voi vi aspettate che il fascismo vi bussi a casa con il fez e la camicia nera e vi dica: “Salve, sono il fascismo, questo è l’olio di ricino”? Non accadrà così».
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