Nel 1935, mentre l’Europa guardava con inquietudine l’ascesa del nazifascismo, Sinclair Lewis decise di raccontare una storia che i suoi contemporanei liquidarono come assurda fantapolitica. “Qui non è possibile”, la intitolò. E invece.
Il romanzo racconta di un senatore americano, Berzelius “Buzz” Windrip, che conquista la presidenza cavalcando il malcontento popolare. La sua tattica è semplice: promette denaro facile (5.000 dollari all’anno a ogni cittadino), si erge a difensore dei “veri americani” e dei loro valori tradizionali, trasforma ogni critica in un attacco alla nazione. Presentandosi come un campione dei valori tradizionali americani, Windrip sconfigge facilmente i suoi avversari.
Ma non è tanto il personaggio a essere inquietante, quanto il meccanismo che Lewis descrive con chirurgica precisione: l’erosione quotidiana delle istituzioni democratiche, la progressiva normalizzazione dell’inaccettabile, la metamorfosi del dissenso in tradimento. Nel romanzo la maggioranza degli americani approva le misure autoritarie considerandole “passi necessari benché dolorosi”. I più scettici si consolano ripetendosi che “qui non è possibile”.
È questa la vera profezia di Lewis: non tanto l’ascesa di un demagogo, quanto la nostra infinita capacità di autoassolverci mentre l’impossibile accade sotto i nostri occhi. Il fascismo, ci mostra, non ha bisogno di camicie nere per manifestarsi. Può presentarsi in giacca e cravatta, parlando di patriottismo e prosperità.
Rileggere oggi “Qui non è possibile” significa riconoscere, uno dopo l’altro, i segni del nostro tempo: la demonizzazione degli avversari politici, la manipolazione della realtà attraverso la propaganda, la trasformazione del patriottismo in una clava contro il dissenso. D’altronde, cosa c’è di più americano di un uomo d’affari che promette di rendere l’America di nuovo grande?
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