Negli Usa una squadra guidata da Tom Homan, che ha già un posto promesso nell’eventuale amministrazione Trump, alimenta la propaganda dell’emergenza continua e del tradimento dei dem. E nutrendo questa paura incassa anche come business man. Una tattica simile a quella di Salvini-Meloni coi migranti nel Mediterraneo. Dietro il falso allarme c’è sempre un guadagno.
Nella grande fabbrica della paura americana c’è una nuova retorica: non più solo muri, non solo confini, ma un’ossessione rivestita di parole come «invasione» e «tradimento». Da un’inchiesta del collettivo internazionale giornalistico Lighthouse Reports sappiamo che negli Stati Uniti una squadra guidata da Tom Homan, ex direttore ad interim dell’Immigration and Customs Enforcement sotto Donald Trump, ha costruito una macchina ben oliata che alimenta il fuoco della propaganda. L’associazione “Border911”, travestita da fondazione senza scopo di lucro, alimenta la narrazione della «guerra al confine», e per loro, la minaccia non è più un’ipotesi: è una profezia auto-avverante, raccontata in diretta sui canali di destra e sul palcoscenico delle elezioni presidenziali.
L’evoluzione del racconto della “frode elettorale”
Quello di Homan non è solo il racconto di una frontiera vulnerabile, ma di un’invasione manipolata da un governo complice: l’idea è che l’amministrazione Biden stia di proposito “aprendo le porte” ai migranti per alterare il voto e mantenere il potere. È la linea che guida i comizi di Homan e dei suoi alleati, che in questi mesi hanno girato gli Stati Uniti seminando dubbi sulle elezioni e preparando così il terreno per contestare il risultato elettorale di novembre 2024 se non dovesse sorridere a Trump. In fondo non è una strategia nuova: si tratta dell’evoluzione del racconto della “frode elettorale”, che inizia con l’assurda premessa di una democrazia venduta agli “illegali”.
Si viaggia sul doppio binario della paura e del profitto
È una macchina complessa, quella costruita da Homan e i suoi collaboratori, che viaggia sul doppio binario della paura e del profitto. “Border911”, con sede a Fredericksburg, in Virginia, opera su più livelli: come fondazione senza fini di lucro da un lato e come organizzazione di “dark money” dall’altro. L’assetto permette alla fondazione di eludere alcuni obblighi fiscali, mentre il denaro scorre da un’entità all’altra come un fiume oscuro, secondo documenti dell’Irs che evidenziano una gestione delle spese sospetta, quasi identica per entrambe le organizzazioni.
Un «nuovo 11 settembre» che minaccia l’integrità americana
Nel reticolo di “Border911” spuntano figure che aggiungono credibilità alla messinscena della “minaccia”: ex agenti federali, investigatori, volti noti dei canali di destra come NewsMax e Fox News. Gente come Rodney Scott, ex capo della Border Patrol, e Derek Maltz, ex agente della Dea, che ai microfoni del Congresso e ai meeting locali sfoderano la narrazione di un confine assediato, un «nuovo 11 settembre» che minaccia l’integrità americana. Al fianco di Homan c’è chi non disdegna il ritorno economico di questa retorica: le consulenze private di Scott e il software di sorveglianza che Maltz pubblicizza, già adottato da Ice e Dea, generano contratti miliardari proprio grazie a questa narrazione di emergenza continua.
Forze di polizia locali diventano sceriffi della frontiera
Il teatro di Homan non si limita a questo. In Arizona i legislatori repubblicani, ispirati da “Border911”, hanno già introdotto proposte per dichiarare formalmente una “invasione” e trasformare le forze di polizia locali in una sorta di sceriffi della frontiera. L’iniziativa si fonda su un vecchio istinto: prendersi il diritto di stabilire chi è dentro e chi è fuori dalla comunità, come se l’America non fosse altro che un fortino sotto assedio. Nella loro versione, ogni stato è una “frontiera”. E se i confini giuridici non bastano si può sempre dichiarare una “guerra”.
Slogan, microfoni aperti e contratti multimilionari
La politica della paura si costruisce sui simboli. Alla conferenza di luglio a El Paso, Homan proclamava: «Milioni di persone nei prossimi censimenti saranno contati nelle città santuario», il che «creerà più seggi in Congresso per i democratici. Hanno venduto questo Paese, è quasi tradimento». L’audience applaude, perché ciò che risuona non è la verità ma la risonanza di un fantasma che si alimenta da sé. Nessun confine è “sicuro” nella sua visione, a meno che non sia una barricata, un muro: ma un muro fatto di slogan, di microfoni aperti, e di contratti multimilionari ai fedelissimi.
Pronta «la più grande forza di deportazione mai vista in America»
Trump, dal canto suo, sembra assecondare questo progetto senza batter ciglio. Ha già promesso un ruolo di punta a Homan nella sua ipotetica prossima amministrazione e la sua elezione pare far parte di un piano già scritto. «Trump torna a gennaio, e io sarò al suo fianco per comandare la più grande forza di deportazione che questo Paese abbia mai visto», dichiarava Homan. L’ex direttore Ice è abile nel giocare su due livelli: come difensore “patriottico” e come business man, che da un lato costruisce il mito dell’invasione e dall’altro incassa sui contratti federali che la giustificano.
Certe retoriche sono entrate anche nel linguaggio italiano
Da questa parte dell’Atlantico i leader italiani guardano e imparano. Non è un caso che certe retoriche siano entrate anche nel nostro linguaggio, nei proclami che guardano al Mediterraneo come una minaccia e vedono nei migranti un’arma lanciata contro l’Europa. Alimentare il sospetto non è solo un’arte: è un investimento, una scommessa che paga bene. L’Italia e l’Europa, con i loro “patti” e le nuove forme di sorveglianza alle frontiere, si muovono sullo stesso piano inclinato: rendere l’invisibile tangibile, il pericolo imminente, giustificare lo stato d’emergenza con la paura del diverso, mentre i confini si fanno sempre più business. Così, nel grande teatro del mondo il copione di Homan si duplica, ispira nuovi attori e trova sostenitori in Italia e altrove, dove i confini sono aperti, sì, ma solo agli interessi di chi sa come far girare la macchina della propaganda. La “guerra” di Homan è un monito: per fermarla non basta chiudere le frontiere, serve disinnescare la retorica e svelare il guadagno dietro il falso allarme.
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