Una storia che «doveva essere solo spillata». Quella di quattro fratelli che vanno a riprendersi il padre, o quel che ne resta, in un deposito giudiziario. Forzando la legge e ingoiando il dolore, riponendo quel che trovano in una scatola da scarpe, per portarlo via con loro. Uno spunto da romanzo «perfetto», che in realtà sono frammenti di vita, vera, di quelle che ti rimangono addosso e hanno la forza di cambiarne altre. In primis quella di Giulio Cavalli, autore e attore lodigiano, che oggi vive a Roma e si è imbattuto poco dopo aver lasciato Lodi nella vicenda di Michele Landa, guardia giurata di Mondragone, ucciso ancora oggi senza un perchè ufficiale, ma si pensa vittima alla criminalità organizzata. Attraverso le parole delle figlia Angela e un lungo pranzo con la famiglia, nell’agro aversano. È qui che Cavalli ha respirato il dolore diventato testimonianza antimafia «fieramente fragile e decisamente umana» della famiglia Landa e l’umiltà di chi ha sempre perseguito l’ideale di una vita semplice e onesta, come Michele. Ed è nata l’idea di un libro sulla vita di Michele Landa e della sua famiglia, Mio padre in una scatola da scarpe, edito da Rizzoli, presentato mercoledì sera al Caffè Letterario di via Fanfulla, con la regia di Libreria Sommaruga per la rassegna Conversazioni d’autore del Comune di Lodi. Per Cavalli è un esordio nelle vesti da romanziere, vissuto dopo una gestazione lunga e difficile dal punto di vista umano, in cui si è allontanato dal palco e dalla politica e ha conosciuto la depressione, come ha rivelato mercoledì, nel dialogo con Marco Ostoni, caposervizio della sezione Cultura e Spettacoli de «il Cittadino». Un’esperienza che prende a modello Stajano – e il suo Eroe Borghese – e mira a raccontare la normalità di chi sognava di fare il nonno e di coltivare l’orto, a Mondragone, «ma poteva essere Aosta o Lodi», stando lontano dalla mafia, «come forma di protezione nei confronti della propria famiglia, con un atteggiamento che oggi sarebbe considerato omertà e che vent’anni fa non lo era». Nelle pagine, in un crescen- do che diventa dirompente negli ultimi capitoli, ci sono il dolore cupo e denso di chi viene privato di un pezzo di vita, il riflesso di una città «che uccide nel silenzio», il muro costruito dall’assoluta mancanza di empatia di pezzi delle istituzioni. «Qualcosa che capisco benissimo anche io – ha raccontato l’autore – perché nella mia vita ho avuto più paura di certi prefetti e di alcuni comandanti delle forze dell’ordine che dei boss. Perché spesso manca lo spessore umano necessario a gestire determinate vicende. La frase «Cavalli fa finta», io l’ho sentita, l’ho vissuta. E mentre ho passato gli ultimi 5 anni a cercare di essere sempre più cattivo, sono stato conquistato dai buoni. Perché che essere buoni sia una debolezza, è una cosa che ci siamo fatti solo raccontare».
(Rossella Mungiello)