(di Fabrizio Feo, da Liberainformazione)
“Solo contro una ciurma di miserabili, solo perché tutti gli altri colleghi del suo territorio- tranne una, Giada Drocker, corrispondente dell’Agenzia Italia – sembrano non preoccuparsi più di tanto dell’incubo che sta vivendo uno che ha il vizio di scrivere”.
Lo ha scritto senza giri di parole su Repubblica Attilio Bolzoni parlando della vicenda di Paolo Borrometi cronista siciliano, sotto scorta dopo avere subito minacce e aggressioni. Parlando del processo al capo cosca che ha preso di mira Paolo Borrometi, si legge: “…Nell’Italia dei 30 giornalisti sotto scorta, delle tremila minacce ricevute e dei 30mila atti intimidatori subiti dal 2006 da chi fa cronaca, il processo contro lo ” zio Titta” alla sua seconda udienza ha segnato nuovamente la diserzione in massa dei cronisti locali nonostante la costituzione di parte civile degli Ordini regionali e nazionali dei giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa”.
È proprio questo il punto: la prima barriera difensiva di chi fa il cronista, in quelle periferie del Paese che sono frontiere – e ormai non più solo li – è la solidarietà attiva dei colleghi degli altri giornalisti. Innanzitutto quella dei colleghi del luogo. Solidarietà che si può manifestare, se si vuol farlo concretamente, in un unico modo: condividendo l’impegno di chi è minacciato. Impegnandosi nel racconto dei fatti scomodi, nella denuncia. Purtroppo però sono infiniti gli interrogativi su cosa vogliano dire oggi per molti di noi giornalisti parole come impegno, solidarietà, colleganza. E c’è da chiedersi perfino se, per molti noi, quelle parole abbiano – come dovrebbero – un senso.
E poi, su un altro versante, altrettanti interrogativi incombono su quale sia il senso, la misura di parole come deontologia, etica, regole, indipendenza, impermeabilità a condizionamenti di ogni genere. Tanto più se i condizionamenti vengono da ambienti contigui alle organizzazioni criminali o direttamente da esse. Non sono domande astratte.
Accade ad esempio una cosa strana: molti giornalisti ed organi di informazione – locali e non – pare non si siano accorti di quanto sia grave il contenuto di tre dei provvedimenti cautelari richiesti o emessi dalla Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria tra maggio e luglio scorsi.
Libera Informazione ne aveva già parlato in agosto. Eppure su questa vicenda negli ultimi sei mesi è sceso un silenzio pressoché totale. È come se la categoria, e i suoi organismi, colleghi di solito sempre attenti al contenuto degli atti della magistratura inquirente, fosse precipitata improvvisamente in una sorta di cecità o di amnesia collettiva.
Ecco il punto: si tratta dei numerosi riferimenti al ruolo svolto da alcuni giornalisti incrociati da polizia e carabinieri e Guardia di Finanza nel corso delle indagini sull’ex parlamentare Paolo Romeo e l’avvocato Giorgio de Stefano esponente di una storica famiglia di ndrangheta, nonché su molti politici, funzionari pubblici e affaristi, collegati alla “Mamma santissima”, la cosiddetta “Super cupola” della mafia calabrese.
Alcuni giornalisti, stando a quei documenti, sarebbero stati avvicinati per scrivere a favore o contro di questo o di quello. E ad avvicinarli sarebbe stato Paolo Romeo. Non uno sconosciuto, ma un ex parlamentare condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, protagonista in più di un’occasione di vicende non limpide e noto per i suoi stretti rapporti con figure di vertice di potenti famiglie della ‘ndrangheta, già prima delle inchieste divenute di pubblico dominio tra maggio e luglio scorsi.
I giornalisti, scrivono i magistrati di Reggio, sarebbero finiti negli atti d’indagine non solo perché erano direttamente in contatto con Paolo Romeo, “più volte a diposizione del Romeo, per le campagne di stampa che lo stesso organizzava”, perché da lui utilizzati per “diretti servigi“, ma anche per la “capacità d’influenzare ed orientare l’operato di altri inconsapevoli giornalisti, in funzione delle sue strategie. Per una “azione di infiltrazione” nel mondo giornalistico.
Parole pesanti.
E chi avrebbe dovuto almeno chiedersi perché non ha aperto bocca. Ma come? Tutti pronti a parlare di legalità, in astratto, e poi quando c’è da pretendere quanto meno chiarezza…muti. E silenziosi invece non si può rimanere: oltretutto i primi ad essere colpiti da una vicenda del genere sono i tanti giornalisti coraggiosi che in Calabria non si sono piegati e rischiano grosso ogni giorno.
Una vicenda, quella di Reggio, che sorprende, ma fino ad un certo punto. Non è la prima volta che accade una cosa del genere.
Un esempio. Nove anni fa la procura di Catanzaro dispose numerosi arresti nei confronti dei presunti appartenenti ad un gruppo criminale accusato di aver trasformato il porto di Amantea in una cosa propria. Dagli atti di quella inchiesta (ordinanza di custodia cautelare “Nepetia”) emerse che il personaggio di vertice del gruppo criminale, Tommaso Gentile, condannato per reati di stampo mafioso, aveva incontrato, proprio nel porto, un giornalista. Il giornalista aveva fatto un accurato racconto su alcune vicende che gli stavano a cuore al boss, che a sua volta aveva fatto al giornalista confidenze sul suo rapporto con un politico locale. Tutto intercettato.
In un’altra occasione ancora – spiegavano i magistrati di Catanzaro – Gentile aveva contattato il medesimo giornalista per accertarsi che non venissero scritti articoli a proposito di un attentato. Anche qui tutto intercettato.
Ebbene non risulta che le circostanze abbastanza anomale – per usare un eufemismo – contenute nell’ordinanza di custodia cautelare Nepetia abbiano fatto saltare sulla sedia. Quanti ne erano all’oscuro e quanti voltati dall’altra parte?
Per non parlare dell’informazione on line locale: in Calabria ci sono testate che, ogni giorno, fanno il proprio dovere, e anche di più, con pochissimi mezzi e tantissimo coraggio. Ma ce ne sono anche altre che, per dirne una, attaccano con violenza il lavoro di chi osa occuparsi di vicende illecite, di interessi dei loro padroni palesi od occulti.
C’è chi ha perso la rotta, c’è anche chi non l’ha mai avuta, ma anche chi non fa nulla per sanzionare condotte che violano le regole e infangano un’intera categoria. E non accade solo in Calabria.
Nessuno si aspettava o si aspetta processi, tanto meno giudizi sommari. Del resto non si sa nemmeno se la magistratura abbia approfondito o intenda approfondire le circostanze di cui abbiamo parlato.