L’attore teatrale sotto scorta ad Affari: “La ‘ndrangheta a Milano? Per molti non esiste. E io sono minacciato da un nemico invisibile”
Di Francesco Oggiano e Antonio Prudenzano
Giulio Cavalli è uno sfigato. Come chiamare altrimenti uno che deve difendersi da ciò che non esiste? Non è mai vissuto un eroe senza un nemico. Anzi, la sua giustificazione la trova proprio in esso. Ecco, anche per questo Giulio Cavalli è uno sfigato. Se ne sta alla sua scrivania, nel soppalco del suo teatro di periferia, sommerso da una pila di documenti, con gli occhi blu attaccati al Mac, un po’ a navigare su Facebook e un po’ a scrivere i suoi testi.
LA VIDEOINTERVISTA
I TESTI – Già, i suoi testi: quelli che parlano di quello che non c’è. Prima quelli sulla strage dell’aeroporto di Linate, nel 2001; poi quelli sui turisti sessuali italiani; infine quelli sulla mafia, portati sul palco prima con “Do ut des – riti e conviti mafiosi”, del 2006, e poi con “A cento passi dal Duomo”, che ha debuttato lo scorso ottobre al Teatro della Cooperativa di Milano. Giulio Cavalli è uno sfigato perché in prima serata non reggerebbe neanche mezz’ora. Lui, con le sue parole, non solletica neanche un po’ la pancia dello spettatore. Non mette in scena boss, non recita baciamani, non descrive tavole imbandite per padrini. Piccolo, curvo e misurato, ogni sera vomita sul palco fatturati e cda, noli a freddo e movimento terra, appalti truccati e finanziarie lussemburghesi. Raccoglie i dati, li analizza e ne ricava scenari. Proprio per questo, dallo scorso aprile si è visto affidare una scorta dei carabinieri.
IL TEATRO – Ma Cavalli è uno sfigato anche perché, pur educatissimo, non ci sa fare con i giornalisti. Ancora immerso nella sua pila di libri, con il suo mouse, le sue scarpe sporche, la sua sigaretta fatta a mano e il suo soppalco, finalmente leva gli occhi dal Mac e li indirizza verso i cronisti andati a trovarlo: “Sapete che non ho ancora capito che cazzo volete fare?”. Un’intervista, è la risposta. Accetta, spegne la sigaretta e li conduce di sotto, nel suo teatro, quello di periferia, vuoto. Apre il sipario, accende le luci e un’altra sigaretta.
“LA MIA VITA IDENTICA A PRIMA” – Quindi archivia subito la pratica che pesa, quella di cui tutti parlano: “La scorta è un fatto puramente tecnico, non è una medaglia. Una persona viene considerata bisognosa di una tutela da parte dello Stato affinché possa continuare senza rischi la sua attività professionale. La mia vita è identica a prima. Non ho ansie e non ho paure”. Però Cavalli una paura ce l’ha: dentro di sé odia il fatto che quel che dice possa acquistare spessore solo perché ha quattro carabinieri al fianco. “L’Italia è piena di persone sotto tutela: di magistrati, pm, giornalisti. Le persone che hanno più paura lo sai chi sono? Sono i pentiti di mafia, che hanno trattato una buonuscita con lo Stato e che si spostano con cinque poliziotti alle calcagna”.
“LA DIFFERENZA TRA ME E SAVIANO” – Il paragone, tuttavia, è inevitabile: “La differenza tra me è Roberto Saviano è tra raccontare storie e raccontare le nostre storie. A me non interessa raccontare la mia esperienza. Non è simbolica, non fregherebbe niente a nessuno. Roberto avrà accettato i consigli che gli hanno fatto ritenere giusto e intelligente raccontare l’ombra che le storie che ha raccontato proiettano sulla sua vita”.
LA ‘NDRANGHETA A MILANO – Cavalli è uno sfigato perché si appassiona a quello che non c’è. Lui non parla di Camorra, di Stidda o di Cosa Nostra. No: a lui interessa la ‘ndrangheta. E nemmeno la consorteria attiva in Calabria. No. Lui mette in scena le cosche attive nel Nord Italia, in particolare a Milano e provincia: “Racconto quarant’anni di mafia perché li ritegno dignitosamente drammaturgici. E soprattutto descrivo il negazionismo patetico di una parte politica di Milano, la milanesità come impermeabilità. Credo che la parola può far male allo stesso modo di un’inchiesta”.
QUEL RAPPORTO ADULTERO MAFIA-POLITICA – Eccolo, il teatro civile dello sfigato. Quasi un atto di lesa maestà contro le ‘ndrine e soprattutto contro i politici e gli imprenditori collusi. Perché, spiega, “la mafia in sé è poco credibile. È stomachevole nelle forme e nei contenuti. La potenza di cui si riveste e il controllo dei territori che ha ottenuto li deve a persone molto credibili che hanno deciso di accettare questo rapporto adultero. In Lombardia c’è una colpa che ha delle radici prettamente culturali. E per questo va fatto un lavoro culturale”.
IL FIUME CARSICO DELLA ‘NDRANGHETA – Un lavoro che, come primo atto, deve radere al suolo i luoghi comuni: “Basta con questa balla di una ‘ndrangheta formata da quattro bovari emigrati con le valigie di cartone al Nord Italia. La mafia calabrese ha un’umiltà fantastica. Pensa solo a questo: quando quegli imbecilli di Riina e Provenzano progettavano l’attentatuni (l’attentato che costò la vita al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta, ndr), le cosche calabresi fissavano i prezzi della droga del cartello di Medellìn. Altra differenza: Cosa Nostra è voluta diventare una Spa. Sognava una vera e propria struttura simile a un consiglio d’amministrazione, con quei quattro neuroni che si ritrovava. La ‘ndrangheta, più furba, si è comportata come un fiume carsico e ha arginato il fenomeno del pentitismo grazie alla sua struttura familiare, ottenendo molto più credito di fiducia nei confronti delle altre organizzazioni”.
L’ATTIVISMO ‘PASSIVO’ – Cavalli rifiuta l’attivismo ‘passivo’. “Delegare le responsabilità alla politica e ai politici è uno dei gesti più pavidi che esista. Li vedo questi giovani attivisti. Non capiscono che i politici decidono in base alle pressioni che gli pervengono e che possono spostare voti. Ormai dagli atti risulta che gli imprenditori milanesi non hanno più bisogno di essere minacciati. Accettano di buon grado di sottostare alle condizioni dei mafiosi, anche perché ne ricavano un vantaggio”.
UNA BATTAGLIA DI MEMORIA – Allora l’antimafia diventa una battaglia di memoria. Chi più ne ha più è forte. Certo è dura. In un Paese che non rinuncia al mare di luglio per andare ai funerali di Giorgio Ambrosoli; in un Paese in cui l’allora sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, diceva che al “Nord la mafia non esiste”; in un Paese in cui “le intercettazioni sono solo le polluzioni di alcuni magistrati di sinistra”; “in cui si dice che Andreotti è stato assolto e non prescritto”.
IL SORRISO DEL MAGISTRATO BRUNO CACCIA – In un Paese, l’Italia, che non sa, o non vuole ricordare, chi era e com’è morto Bruno Caccia. Magistrato antimafia, è il primo a svelare i legami tra politica, imprenditoria e Cosa Nostra nella città di Torino. Muore ammazzato, una sera di giugno, mentre porta a spasso il cane, la sigaretta ancora in bocca, sotto la luce di un lampione, nel centro di Torino. Cavalli termina ogni suo spettacolo dedicandogli un monologo struggente: “Trovo triste un Paese che ha sempre bisogno di eroi”. Accende un’altra sigaretta, tira un paio di volte, socchiude gli occhi. Si concentra. Sta per fulminare i salotti buoni della società civile: “Concordo con chi sostiene che in Italia per fare la battaglia antimafia ci vorrebbe un morto eccellente l’anno. Si gioca molto a scovare storie e personaggi cui delegare completamente l’impegno. Vivi o morti, non ci bastano pochi simboli di una battaglia, purché venduti bene. I vari Roberto Antiochia, Beppe Montana… hanno combattuto la mafia allo stesso modo di Falcone e Borsellino”. L’attore fa riferimento alla fiction Il Capo dei Capi, accusata di aver mitizzato la figura di Toto Riina. “Io invece voglio parlare di quella mafia che come un’edera si attacca ai vuoti della politica. Bruno Caccia era un magistrato che l’aveva capito. Che aveva raccontato come la ‘ndrangheta avesse colonizzato il Piemonte, creando un cartello in combutta con Cosa Nostra. Ecco: Bruno Caccia era un magistrato competente, il cui assassinio è stato relegato negli articoli di spalla. Il teatro mi sembra un ottimo modo rendere giustizia a questa persona”.
“E ORA CHE HO BISOGNO MI RITROVO NEL TEATRO DI PERIFERIA” – Ma Giulio Cavalli è uno sfigato anche per un altro motivo. Resta lontano, chissà se per scelta o condizione, dai salotti teatrali. E non basta: gli sputa anche addosso. Ci si accorge di quando Cavalli sta per radere al suolo qualcuno: digrigna i denti, rallenta la parlantina, si protende col busto e lancia un’ultima occhiata all’interlocutore, per assicurarsi che abbia incassato il colpo. Poi passa ad altro: “A ben vedere non mi ritengo neanche un teatrante. Faccio il mio lavoro in un teatro e, se il luogo determina la professione, allora sì: sono un teatrante. Faccio teatro anche al bar, ma non mi ritengo un cameriere. Al momento il teatro italiano è una prostituta che fa la spola tra Camera e Senato. Non so neanche se esiste un teatro civile. Ogni tanto vedo qualcuno che fa l’impegnato. Poi, una volta guadagnatasi la targhetta sul citofono, si riguarda e abbassa i toni. Se il più rivoluzionario è un vecchiaccio mezzo cieco e mezzo e mezzo sordo come Dario Fo, allora…”. Ha il dente avvelenato. Molti teatri di città gli hanno chiuso le porte del suo spettacolo: “Mi sono ritrovato a fare il maggiordomo di funerali pettinati nei grandi teatri ed ero perfetto come portabara. Nel momento in cui io ho avuto bisogno, eccomi qui: mi sono ritrovato nel teatro di periferia”. Un vero e proprio sfigato.
DA AFFARI ITALIANI