La condanna di un giornalista in un processo per un reato di opinione intentato da una presidente del Consiglio è già, di per sé, qualcosa che profuma di autarchia. Poiché Roberto Saviano è Roberto Saviano qui in Italia ci siamo concessi il lusso di non sottolineare la sproporzione spostando la vicenda sul piano dello scontro politico. Questa sete di vendetta ormai pacificamente normalizzata nel nostro Paese sarà la stessa rabbia impaurita che farà crollare prima o poi questo governo che la alimenta.
Una condanna con attenuanti per “motivi di particolare valore morale” smentisce in toto l’architettura della propaganda. No, non erano offese, anche se oggi qualche stralunato editorialista finge di non averlo capito. Nel discorso di Saviano, anche dentro quel “bastardi” indirizzato al governo, c’è un giudizio politico nei confronti di chi accumula potere attraverso la mendacia strutturale della sua propaganda sulla pelle degli altri. Si tratta di un modo canagliesco di fare politica che lucra sulle sofferenze dei fragili e sulle paure degli altri. È il giudizio di Roberto Saviano ma è anche il giudizio di centinaia di giornalisti, migliaia di attivisti, milioni di italiani.
Il processo comunque ha raggiunto lo scopo. La condanna è simbolica perché come un tetro simbolo campeggia sulle teste di chi da ieri sa che criticare il governo costerà caro: costerà processi, costerà esposizione alla ferocia pubblica. E quando ci si accorgerà che non è una questione “contro Saviano” ma è un metodo sarà sempre troppo tardi.
Buon venerdì.
Ritratto di Roberto Saviano. Fonte: Di International Journalism Festival from Perugia, Italia – Flickr, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17246727