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Lobby fossili e legislatori accondiscendenti: l’alleanza che criminalizza l’attivismo climatico

Un’inchiesta del Guardian rivela come le lobby dei combustibili fossili stiano orchestrando una campagna per inasprire le pene contro gli attivisti climatici in diversi stati americani. Il quadro che emerge è quello di una strategia coordinata per soffocare il dissenso e proteggere gli interessi dell’industria petrolifera e del gas.

Secondo i documenti ottenuti dal quotidiano britannico, i lobbisti di importanti compagnie energetiche nordamericane hanno avuto un ruolo chiave nell’elaborazione di leggi che aumentano le sanzioni penali per le proteste pacifiche contro l’espansione delle infrastrutture per petrolio e gas. In alcuni casi, queste norme prevedono pene detentive fino a 10 anni per azioni di disobbedienza civile non violenta.

L’indagine ha analizzato le comunicazioni tra lobbisti e legislatori in stati come Utah, West Virginia, Idaho e Ohio, rivelando una trama che si estende a livello nazionale. L’obiettivo appare chiaro: scoraggiare chi, frustrato dall’inazione dei governi sul fronte climatico, ricorre a forme di protesta pacifica per ostacolare l’espansione delle attività legate ai combustibili fossili.

La macchina del lobbying: così l’industria fossile plasma le leggi

Un caso emblematico è quello del West Virginia, dove nel gennaio 2020 un lobbista rappresentante di due influenti gruppi del settore inviò una bozza di legge al consulente legale della commissione energia statale. Quella norma, che prevede pene fino a 10 anni di carcere, è stata poi utilizzata per incriminare almeno otto manifestanti pacifici, tra cui sei anziani.

In Utah, i legislatori hanno approvato una legge anti-protesta con pene fino a cinque anni di reclusione dopo aver discusso della necessità di proteggere l’industria del gas naturale, definita “sotto attacco”. Le e-mail ottenute dal Guardian mostrano come i rappresentanti delle compagnie energetiche abbiano partecipato attivamente alla stesura del testo legislativo, suggerendo modifiche e integrazioni.

Il fenomeno non è nuovo: dal 2017, 45 stati americani hanno preso in considerazione nuove leggi anti-protesta, con 22 stati che hanno effettivamente approvato norme per proteggere le “infrastrutture critiche”. Queste leggi sono state promosse dall’American Legislative Exchange Council (Alec), un’organizzazione di destra finanziata dall’industria fossile che mette in contatto aziende e legislatori per elaborare proposte di legge su vari temi, tra cui gli standard ambientali.

Lobby fossili, le conseguenze: attivisti nel mirino e diritti civili sotto attacco

Le conseguenze di questa offensiva legislativa sono già tangibili: decine di attivisti e giornalisti sono stati incriminati in stati come Louisiana, Texas e West Virginia per aver protestato pacificamente contro progetti come l’oleodotto Dakota Access o il gasdotto Mountain Valley.

Critica è la voce di Rico Sisney, attivista incriminato nel 2019 in Texas: “Queste leggi trasformano quello che sarebbe un semplice reato di violazione di proprietà in un crimine. È essenzialmente un modo con cui l’industria dei combustibili fossili sta facendo pressioni per rendere sempre più difficile esercitare la libertà di parola o partecipare a questo tipo di manifestazioni”.

Gli esperti di diritti umani condannano questa tendenza. Mary Lawlor, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani, ha definito “inaccettabile” la criminalizzazione di azioni pacifiche volte a richiamare l’attenzione sul riscaldamento globale.

L’ambientalista Bill McKibben non usa mezzi termini: “È disgustoso, profondamente anti-americano e alla fine non fermerà la transizione verso un mondo più pulito, ma causerà gravi danni a persone e organizzazioni meritevoli nei prossimi anni”.

Mentre il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato e gli eventi meteorologici estremi colpiscono comunità in tutto il Nord America, l’amministrazione Biden ha concesso oltre 1.450 nuove licenze per petrolio e gas, il 20% in più rispetto a Trump. In questo contesto, la repressione del dissenso appare come un tentativo disperato dell’industria fossile di prolungare la propria esistenza, nonostante l’urgenza della crisi climatica.

L’inchiesta del Guardian getta luce su un preoccupante attacco al diritto di protesta pacifica negli Stati Uniti, rivelando come gli interessi economici stiano prevalendo sui diritti democratici e sull’imperativo di affrontare l’emergenza climatica. Un monito inquietante sulla necessità di vigilare e difendere gli spazi di dissenso, cruciali per spingere verso un’azione climatica più incisiva. Resta da capire se anche in questo campo gli Usa siano pionieri. In Italia le leggi restrittive corrono a piè veloce. I suggeritori non si conoscono ancora. 

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