Se c’è una cosa di cui il Partito democratico può andare fiero è la sua costante, perfino faticosa, pluralità. All’interno dei dem – piaccia o meno – convivono anime spesso distanti tra loro, talvolta in conflitto, che rendono difficile la gestione del partito ma che allargano la platea degli elettori. Non c’è in Italia un altro partito che si prenda la briga di legittimare le diverse posizioni al suo interno, anche pagando lo scotto delle guerre tra correnti che gli avversari usano come sinonimo di disunità e debolezza.
Il pluralismo è il marchio originale del Pd, la ragione fondante della sua creazione, la più grande differenza rispetto alle forze politiche italiane: un partito che negli anni è stato guidato da segreterie differenti, a prima vista addirittura inconciliabili. Proprio per questo i dem sono visti come un’istituzione più solida delle leadership passeggere, alla stregua degli storici partiti in giro per il mondo.
Con la sua segreteria Elly Schlein ha promesso di instillare una linea politica diversa dai segretari che l’hanno preceduta. È un compito arduo perché guidare la “macchina” Pd significa mettere le mani su fili che appartengono a potentati divenuti nel tempo vere e proprie incrostazioni. Il confine tra l’instillare e l’imporre però è un passaggio stretto: manutenere il senso di comunità – seppure nuova – rinnovandone la classe dirigente e la missione è una passeggiata in una cristalleria. Non ci sono ricette facili per riuscirci. Sicuramente c’è la ricetta sbagliata già vista: personalizzare il percorso. Anche solo con un nome nel simbolo.
Buon lunedì.
Elly Schlein (foto Wikipedia
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