Stanno sgomberando Macao. Sto arrivando lì. Per vedere, per capire. Intanto pubblico l’articolo scritto giusto ieri per IL FATTO QUOTIDIANO.
Eccoci, l’avevamo già scritto, oggi qualcuno vorrebbe insegnarci che Macao è violenza. Niente a che vedere con l’arte, dicono. Invece Macao è fantasia. E la fantasia non può essere violenta per natura. E’ straripante, inaspettata, destabilizzante e selvaggia. Ma mai violenta. E le parole che sono state usate fino a qui non hanno un mezzo centimetro di spessore per cogliere ciò che succede dentro MACAO per provare a riformularlo in risposta politica (o chiamatela pure proposta, se vi viene la paura di dare troppa importanza ai ragazzi del Torre Galfa). E mi vengono in mente una decina di buoni motivi per provare a smettere di balbettare come professionisti del cerchiobottismo. Perché a guardare da fuori quello che sta succedendo si nota come tutti corrano ad occupare la sedia del non prendere posizione, prenderne poca ma timidamente, dire tutto e il suo rovescio. E alla fine De Corato rischia di diventare l’unico veramente comprensibile. Anche perché (anche questo proviamo a dirlo da tempo) in medio ci sta virtus me il rischio è la mediazione che marcisce in mediocrità.
MACAO ha bisogno di una risposta politica, civile e culturale. Al di là dello spazio in cui si esercita.
Perché Milano unge Dario Fo ad ogni vernissage e celebra le palazzina Liberty ma forse non sa bene cosa sia successo davvero.
Perché la partecipazione non si può pretendere con la manina alzata e tutti composti ai banchi. E ogni forma di partecipazione ha la propria disciplina (e indisciplina) ma il punto rimane coglierne il cuore.
Perché i fan di tutti gli #occupy del mondo poi in fondo vogliono ordine e disciplina sotto il proprio balcone. Un #occupy federalista: l’importante è che rompa le scatole agli altri fuori dal nostro quartiere.
Perché la cultura (so che a qualcuno dispiace) è fatta anche di lavoratori. E anche i lavoratori della cultura si incazzano come si incazzano tutti i lavoratori del mondo. E anche nella miseria di questo campo cominciano a esserci fastidiosi piccoli Marchionne.
Perché dentro MACAO non ci sono (come leggo in giro) contraddizioni: l’appello di MACAO è semplice, diretto e chiaro. Si può essere d’accordo o meno. Vietati i “ni”, per favore.
Perché sarebbe proprio bello in un EXPO che puzza solo di grigi e lobby immaginare subito un orto per MACAO (con tutto lo spazio che c’è, no?). E poter dire che l’abbiamo curato e innaffiato, quando saremo anziani con i nipoti, raccontarci come l’abbiamo immaginato insieme senza ombre e abbiamo preso la responsabilità di coglierne i frutti. Fare politica, insomma.