di Giulio Cavalli e Gianni Barbacetto (dal testo di A Cento passi dal Duomo) su Terra della domenica – 1° novembre 2009
Gli affari, gli appalti, l’assalto all’Expo.
I boss stanno a cento passi da palazzo Marino, residenza del sindaco Letizia Moratti.
O l’hanno già percorso quel tratto di strada che li separa dal palazzo della politica e dell’amministrazione? Certo, qualcosa di marcio l’hanno già fatto nell’hinterland e in altri centri del milanese. Uno stralcio del testo teatrale, musicato da Gaetano Liguori, che è una graffiante denuncia sul malaffare in Lombardia
Qualcuno si è allarmato? per questo incesto tra uomini della politica e uomini delle cosche? No. A Milano l’emergenza è quella dei rom. O dei furti e scippi (che pure le statistiche indicano in calo). Quando scippano un rom magari è proprio un trionfo. La mafia a Milano non esiste, come diceva già negli anni Ottanta il sindaco Paolo Pillitteri. “Non appartiene a questa città” come dice l’appunto lieta Letizia Moratti sindaco in carica. Se la cronaca è nera, nerissima allora è solo un problema di lavaggio, di temperatura, di ammorbidente della distrazione.
A Milano che “la mafia non esiste” o ormai la sindachessa ha provato a ripeterlo ovunque dai consigli comunali, alle televisioni in prima serata fino ad abusarne favoleggiandoselo (probabilmente) la sera per addormentarsi. Non soddisfatta ha poi lanciato comunque la commissione comunale antimafia che è durata poco meno di uno starnuto (come un Lazzaro non risorto per un pelo) per rimangiarsela subito dopo adducendo competenze prefettizie che non andavano scavalcate. Ora, saputo in agosto che nella “Milanoland delle fiabe” un’intera cittadella è in mano alla criminalità organizzata come segnalato dal pm Nicola Gratteri (che di ‘ndangheta un po’ ne conosce avendone studiato la storia, morsicato alcune locali e reativi capibastone e annusandone tutti i giorni l’odore tra gli stipiti blindati che il suo lavoro gli impone) la sindachessa e la politica milanese tutta rimbalza responsabilità di intervento a non precisati enti o ruoli. Mentre
La Russa si ridesta invocando l’esercito. Intanto tutti felici e contenti concordano nel ritenere i 6 caseggiati popolari di Viale Sarca e via Fulvio Testi in mano agli onomatopeici fratelli Porcino (bossetti di periferia legati alle cosche di Melito di Porto Salvo), i nomadi Hudorovich e i Braidic semplicemente un “neo”, una pozzanghera piccola piccola in quel placido, enorme e ligresteo tappeto di cemento che è il capoluogo lombardo spiato dall’alto.
Negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia Enzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia, parla da profeta inascoltato. «Che la ‘ ndrangheta stesse colonizzando Milano lo dicevo negli anni 80. L’ ho confermato due anni fa e i fatti mi danno ragione. Ora c’è l’ Expo e non so più come dirlo».
Stupirebbe questo atteggiamento impermeabile in un paese normale, dove normalmente i politici dovrebbero essere eletti per prendere posizione, dare segnali forti e non solo per banalmente amministrare capitoli di spesa e distribuire (scaricandosene) ruoli e responsabilità. Qui non si tratta di disquisire i ruoli di governo e ordine pubblico come stabilito dalla legge; qui si rimane a supplicare un segnale, un lampo in cui ci si illuda che Marcello Paparo non possa sentirsi “libero” di collezionare bazooka come nei peggiori scenari di desolazione metropolitana post industriale, o Morabito non sfrecci impunito a parcheggiare il ferrarino in un posteggio dell’Ortomercato con l’arroganza di uno zorro a quattro ruote, o che Andrea Porcino (classe 1972, giusto per identificarlo meglio là fuori dal suo fortino dove gioca a seminare terrore) possa addirittura inventarsi intermediario con arie da tour operator mentre raccomanda ai secondini del carcere
milanese di San Vittore dei buoni servigi e una residenza confortevole per i suoi amici Nino, Ettore e Massimo.
L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ‘ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa Nostra in Lombardia è una responsabilità politica. Risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma.
Una regione che controlla la carta d’identità di un mojito e cammina su fiumi di cocaina. Una regione che s’abbuffa alle conferenze stampa delle grandi opere e che inciampa al primo gradino del primo subappalto. Una regione che convoca gli stati generali dell’antimafia per ribadire di stare tranquilli. Una regione che ci convince di aver risolto tutto spostando i soldatini del Risiko con la scioltezza di un tiro di dadi. Una regione diventata maestra perspicace nel strappare con la pinzetta delle ciglia l’allarmismo mentre grida all’emergenza dei rom che scippano le nonne. Una regione che se il fenomeno criminale non emerge allora non esiste. Una regione che mette i moniti dei procuratori antimafia nei faldoni di “costume e società”. E intanto ride. Nel riflesso degli eroi diventati onorevoli che “la mafia l’hanno debellata decenni fa” e se così non fosse è semplicemente perchè non l’hanno mai trovata.
Una regione che è sacerdotessa della clandestinità diventata finalmente illegale e intanto finge di non sapere che l’illegalità pascola clandestina.
Ma c’è un tempo che è quello della memoria che supera le circostanze brevi della politica tutta a parare i colpi mungendo voti: la memoria sulla pelle dei nostri figli, delle prossime generazioni, quella che non entra nei libri di storia ma rimane sotto pelle come una traversata nella stiva mai raccontata. E allora pagheranno pegno davanti alla storia tutti i politici pavidi, cravattari amministratori tra la casetta in centro e l’incenso delle sciantose; pagheranno i sindaci dell’ “insabbia et impera” e i tranquillanti per professione. Pagheranno l’ignoranza e la persecuzione di uno stuolo di attivisti messi al muro per discolparsi di uno sguardo fatto di fatti. Sorrideranno a leggere che qualcuno, metti per caso un politico di una città qualsiasi, calpestando i cadaveri delle antiestetiche vittime milanesi delle mafie, sia riuscito a mettersi nella situazione di dover essere smentito per un allarme che da decenni è già rientrato perchè
metabolizzato: endovena, silenzioso. Impunito, appunto.
Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità.
E allora, e allora sarebbe da andare in giro a spararla questa storia che insiste per non farsi raccontare. Sarebbe da scriverla sulle bustine dello zucchero per la colazione giù al bar, sarebbe da registrare nella radiosveglia, gridarla nei microfoni delle casse al supermercato. Una regione che racconta tutti gli anni con il grembiulino Libero Grassi mentre in via Verdi a Milano, di fianco alla Scala, un gioielliere deve impachettare ventimila euro come regalo di Natale. Una regione che proietta Peppino Impastato per comprarsi indulgenze e non riesce nemmeno ad annusare Antonio Galasso a Pieve Emanuele, i Rispoli di Cirò che orto fruttano a Legnano dove Vincenzo apriva tutte le mattine la Bidi bodi bu, i gelesi a San Giulioano e Melegnano, gli Iacono della Stidda dei Madonia con un centro estetico e impresa edile a San Donato, o Francesco Perspicace: nato a Caltagirone una cinquantina di anni fa ma esportato a Sant’Angelo Lodigiano da un bel pezzo
con un’impresa di pulizie, una quota in “iniziative immobiliari” e una fedina penale di 16 anni di condanna per una sparatoria in via Faenza il 9 maggio 19
98. Un’altra agenzia, la Ad Case, vede tra i soci Ferdinando Perspicace di Caltagirone e per non farsi mancare niente anche, in passato, Arturo Molluso, dell’ omonima famiglia originaria di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. Hanno messo le radici a San Donato i Molluso e sono considerati legati ai clan Cappelli-Pipicella e vicini ai Calaiò. Uno di loro, Pasquale Molluso, è socio della Gra immobiliare. Il trentaquattrenne Arturo, residente a Spino d’ Adda, è presente anche in altre agenzie, come la Mocasa, sede a Milano in via Riva di Trento.
Nomi, nomi, fatti, scie con i numeri e l’impeto di un fiume prima della cascata ma con il rumore di un rivolo. Ma non potranno essere sempre impuniti, impuniti loro e impuniti tutti quelli che non sentono e non vogliono sentire, in una palude di immobile e latente inciviltà dove informare è un atto di coraggio. Non si potrà stare a lungo impuniti a forza di giocare a fare i sordi: magari mangiati, comprati, giudicati, annessi o complici. Perché il silenzio è complice, silenzio è pace, il silenzio è calma, il silenzio è rosa.
Una breve non presentazione
di Pietro Orsatti
Ho conosciuto Giulio Cavalli qualche anno fa. Io avevo terminato da poco un’incheista sul turismo sessuale in Brasile, lui stava realizzando uno spettacolo (Bambini a dondolo) sullo stesso argomento. Mi ha chiamato e ci siamo incontrati dopo pochi giorni. Lui è fatto così, un progetto, due parole, si costruisce e si va in scena.
Giulio già veniva da spettacoli di denuncia. Uno sull’incidente di Linate, un altro sui fatti di Genova. E già stava lavorando alla preparazione di Do Ut Des, uno spettacolo sulla mafia, anzi uno spettacolo di completa presa in giro del fenomeno e della cultura di Cosa nostra che lo ha portato, subito dopo la prima, ad avere minacce. Minacce che nei mesi si sono fatte tanto insistenti da creare il paradosso: Giulio Cavalli, da Lodi, è stato minacciato dalla mafia (sempre a Lodi) e per questo è l’unico attore italiano che vive sotto scorta.
La condizione gli va stretta, ma non ha certo mollato questo piccolo testardo lomabardo. E ora va in scena con A 100 passi dal Duomo scritto con Gianni Barbacetto. Come dire, «se mi devono minacciare che almeno mi minaccino i mafiosi di casa mia». E così si va avanti, fra una macchina di scorta e un albergo presidiato, fra un palco sorvegliato a vista e la paura di aprire la buca delle lettere. Però ridendoci su, se ci si riesce.
Tratto da: orsatti.info