Prima che arrestassero Totò Riina la narrazione egemone lo descriveva come un genio del male che solo grazie alla sua straordinaria intelligenza riusciva a mettere sotto scacco lo Stato italiano. È la narrazione più comoda: se un criminale, qualsiasi criminale, viene dipinto come un genio immediatamente diminuiscono le responsabilità di chi dovrebbe sconfiggerlo. Ancora meglio: spuntano meno domande su chi eventualmente lo appoggi per essere così imprendibile. La narrazione di Totò Riina come “capo dei capi” venne concimata da libri, da film, da fiction (una andata in onda anche sul canale di quell’editore che strozzerebbe chi parla di mafia perché rovina l’immagine dell’Italia nel mondo). Poi hanno catturato Riina e, peggio, Riina ha cominciato a parlare.
La vera faccia di Riina: uno zotico feroce e ignorante
Totò Riina dal vivo, svestito dal suo alone di mistero, si presentò come uno zotico con tre soli comandamenti (mangiare carne, comandare carne e cavalcare carne) e con un livello intellettuale (oltre che culturale) che difficilmente avrebbe potuto inserirlo anche in una normale socialità da uomo libero. Fu feroce, certo, di quella ferocia che solo l’ignoranza (oltre alla propensione per il crimine) può fare esplodere ma in nessuna delle sue deposizioni apparì credibile la tesi che da solo avesse potuto tenere sotto il tacco la vita politica, imprenditoriale e sociale di questo Paese. Tant’è che a un certo punto circolò un dubbio tra chi si occupa di mafia e chi no, tra chi segue le vicende dell’antimafia e chi no, tra i cittadini tutti: ma non è che Totò Riina è semplicemente un coglione?
Provenzano, la musicassetta dei Puffi e la collezione di coppole e santini
Hanno detto sì, sì, è vero. Ma la mente criminale che regge Cosa nostra non è lui, è Bernardo Provenzano. In sostanza dicevano che Riina fosse il braccio e Provenzano fosse la mente. Quando hanno arrestato Bernardo Provenzano (anche su lui si è sprecata la letteratura, ci fu perfino un film in uscita al cinema che venne rovinato dall’arresto pochi giorni prima) tutti si aspettavano di trovarlo in un bunker ipermoderno super accessoriato collegato alle Borse finanziarie del mondo. L’hanno trovato in una casupola tutta sgarrupata e smerdata di escrementi di capra insieme a un menù che sembrava quello di una casa di riposo e una collezione di coppole e santini. Nei pizzini l’eloquio di Provenzano era addirittura inferiore a quello di Riina. Tra le sue musicassette dagli atti spuntano una colonna sonora de Il Padrino e la sigla del cartone animato dei Puffi. Fu una delusione per chi aveva come aspettativa quella di trovarsi di fronte a una delle menti più sopraffine della storia d’Italia. Del resto se davvero Cosa nostra fosse semplicemente un sistema criminale e non un sistema di potere il suo amministratore delegato dovrebbe essere un mix del miglior amministratore delegato e del miglior presidente del Consiglio. No, Provenzano non era così. Tant’è che a un certo punto circolò un dubbio tra chi si occupa di mafia e chi no, tra chi segue le vicende dell’antimafia e chi no, tra i cittadini tutti: ma non è che Bernardo Provenzano è semplicemente un coglione?
Matteo Messina Denaro, un piacione di provincia, razzista e complottista
Hanno detto sì, sì, è vero. Ma la mente criminale che regge Cosa nostra non è lui, è Matteo Messina Denaro. Solo che ogni tanto la realtà irrompe e alla fine hanno acchiappato anche lui. Nei libri e nella mitizzazione Messina Denaro era un uomo dedito alla bella vita e alle belle donne, senza macchia e senza paura. Un anziano signore che faceva selfie con gli infermieri della clinica che frequentava e ci provava (piuttosto goffo) con le donne che incontrava. Niente di instagrammabile, un anziano piacione fallito della provincia siciliana con un’inclinazione complottista sulla geopolitica. Anche lui appassionato de Il Padrino, Matteo Messina Denaro non ascoltava le canzoni dei Puffi ma teneva sul frigorifero le calamite di Masha e Orso. Politicamente è un secessionista del Sud, un leghista al contrario che invoca a sproposito il razzismo: «Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie. Trattati come se non fossimo della razza umana. Siamo diventati un’etnia da cancellare», scrive in un pizzino in cui rivendica la sua mafiosità. «Hanno costruito una grande bugia per il popolo», scriveva Matteo Messina Denaro. «Noi il male, loro il bene. Hanno affossato la nostra terra con questa bugia. Ogni volta che c’è un nuovo arresto si allarga l’albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra. Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciare passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza. Questo siamo e un giorno sono convinto che tutto ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quel che ci ha tolto la vita». Si dice che sia il manifesto politico di Cosa nostra. Siamo al populismo al cubo: il populismo applicato alla mafia. Passerà ancora qualche settimana e poi scopriremo che spediva le foto del suo pene a donne sconosciute sui social. Tant’è che a un certo punto circolerà un dubbio tra chi si occupa di mafia e chi no, tra chi segue le vicende dell’antimafia e chi no, tra i cittadini tutti: ma non è che anche Matteo Messina Denaro è semplicemente un coglione? Anche perché se così fosse continuiamo a arrestare braccia ma continua a mancarci la mente.
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